Io capitano, la recensione: Lafrica di Garrone

Io capitano

Le origini del pensiero cinematografico di Matteo Garrone non si trovano tanto dalle parti della fiaba, del fiabesco, del pop o dell’autoriale, quanto nel cinema quasi documentaristico e nelle storie di emarginati, che nel caso del regista romano sono gli immigrati. I primi erano quelli di Terra di mezzo, in occasione del quale lo spettatore poteva fare la conoscenza delle logorroiche prostitute nigeriane o di una coppia di albanesi alle prese con lo sfruttamento insito nel nostro Paese. Una coppia, che è anche quella di uno (forse il solo) film con riferimenti autobiografici di Garrone, Ospiti, e della pellicola di cui stiamo per parlare, tra l’altro sono due coppie di cugini. Storie che all’epoca parlavano di quello che noi, italiani, conosciamo, vediamo in televisione, leggiamo (ah ah ah ah) sui giornali. Oggi, nel 2023, c’è bisogno di guardare anche cosa c’è che non vediamo.

Nella recensione di Io Capitano, il nuovo film di Matteo Garrone Leone d’argento all’80esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia e in sala dal 7 settembre 2023 con 01 Distribution, vi parliamo di un racconto sul non visto, più propriamente sul viaggio di cui non vediamo nulla, a volte anche per scelta, e che mette in contatto il regista romano com’è oggi con quello che era all’inizio della carriera. Nella misura in cui il primo prevale sul secondo, anche se cerca di recuperarne lo sguardo e i sentimenti, soprattutto nei confronti dei protagonisti.

A testimoniare questa natura conciliativa della pellicola c’è anche il reparto scrittura. Infatti ad affiancare il cineasta ci sono due figure storiche del suo cinema, Massimo Gaudioso e Andrea Tagliaferri (la prima più della seconda), e una terza, che invece è entrata a far parte del mondo garroniano solamente da Pinocchio, il suo film precedente, Massimo Ceccherini.

Le origini del pensiero cinematografico di Matteo Garrone non si trovano tanto dalle parti della fiaba, del fiabesco, del pop o dell’autoriale, quanto nel cinema quasi documentaristico e nelle storie di emarginati, che nel caso del regista romano sono gli immigrati.

Da Scampia all’Africa Occidentale, Garrone continua sulla sua linea poetica / produttiva / lavorativa e fa l’unica cosa possibile (e l’unica cosa forse veramente necessaria) e si reca in loco per ripercorrere un viaggio, anzi il viaggio (non tutto ovviamente è reale, c’è qualcosa di ricostruito), che sta segnando il compiersi di un olocausto ben lungi dall’essere fermato.

Io capitano non è esente da difetti, anzi, dal montaggio (la scelta incomprensibilmente reiterata delle dissolvenze) alla costruzione della storia, fino al tono che decide di adottare, che è affascinante e lo salva da un discorso paternalistico o retorico in cui poteva facilmente cadere, ma non è perfettamente equilibrata, anzi, la sua voglia di cinema per tutti rischia di mandarlo delle volte fuori giri, non permettendo una totale consapevolezza di quello che accade su schermo.

Si tratta, ad ogni modo, di un’operazione molto importante per la realtà odierna e c’è una cosa che è giusto sottolineare: è Garrone al 100%.

Far vedere ciò che si vuole ignorare

Una Dakar calorosa, colorata e festante, piena di musica, amore familiare e splendidi sorrisi è la casa di Seydou (Seydou Sarr) e Moussa (Moustapha Fall), due cugini sedicenni col sogno europeo. L’Europa che è in un certo senso l’America, Terra delle possibilità, che nella capitale senegalese di Garrone tutti i ragazzi indossano, ma nessuno vive. I nostri non ci vogliono andare perché devono scappare dalla loro dimora, dalla guerra o dalla fame, ma perché vogliono vivere il sogno, andare nel Paese dei Balocchi e diventare qualcuno. Fare musica e aiutare a casa.

Idea incredibilmente divisiva quella di iniziare un viaggio come quello di Io capitano in questo modo, ma che Garrone sceglie coscientemente di fare, cercando probabilmente una vicinanza, un’accessibilità, una porta da aprire all’europeo, all’americano, all’occidentale. Il viaggio è una trappola, come la speranza di Monicelli, una promessa mancata e non una reale necessità.

Io capitano

I nostri non ci vogliono andare perché devono scappare dalla loro dimora, dalla guerra o dalla fame, ma perché vogliono vivere il sogno, andare nel Paese dei Balocchi e diventare qualcuno.

Sarr, l’eroe, si lascia alle spalle le lacrime della mamma e parte con il suo sodale, accompagnato da una musica da avventura fuori porta, mentre sottotraccia già operano i meccanismi mefistofelici che conosce chi guarda e non chi è guardato, una scelta cinematografica molto intelligente.

Tutto poi cambia, tutto si rivela per quello che è. E ci si ritrova persi in mezzo ad un nulla che è il nulla che assale i protagonisti, come tradizione vuole. La via di Tripoli diventa un miraggio, l’Italia una meta ormai neanche più ipotizzabile, mentre l’umanità dei due ragazzi viene invasa dalle violenze e dalle tragedie più orribili del nuovo millennio, eppure c’è ancora qualcosa in cui sperare.

Non nella meta, ma nel viaggio in sé.

Le fiabe sono vere

Uno dei riferimenti letterari principali di Garrone è Italo Calvino, il quale aveva tra i suoi leitmotiv più importanti il mantra: “La fiaba è verità“.

Il regista romano crede fermamente in questo accostamento e nelle sue migliori espressioni, specialmente in una, è stato in grado di trovare la giusta chiave di lettura per permettere tale funzione alla sua versione della fiaba. Qui non è sempre così.

Io capitano è prima di tutto una storia di formazione on the road, un racconto epico e spettacolarizzato (in senso di ricerca della composizione cinematografica) a tinte surreali, prima di essere un film di fedele ricostruzione della tragedia che è il viaggio dei tanti migranti che fuggono da persecuzioni, guerre e fame. Lo è nelle premesse, come già detto, prendendosi più di un rischio, ma non cerca mai di essere altro.

Garrone, anche pittore, parte dalle immagini, come dichiarato lui stesso in tempi non sospetti, e lo si vede all’interno del film, soprattutto nei momenti relativi al folklore africano, dei quali si può apprezzare una cura nei costumi incredibile, che sono uno dei segni più evidenti della natura pop della pellicola. La scelta di girare in lingua wolof rende tutto credibile, non facendo deragliare una pellicola che a volte accusa il suo impianto irrealistico, fatto di muratori figure paterne, principesse splendenti, fontane ottagonali e luci aliene nella notte in pieno Mediterraneo.

D’altro canto la resa pop di una tragedia è stata più volte raccontata nel corso della Storia del cinema ed è risultato spesso un modo per avvicinare, anzi, per far vedere, al grande pubblico qualcosa che spesso decide coscientemente di ignorare.

Io capitano

Io capitano è prima di tutto una storia di formazione on the road, un racconto epico e spettacolarizzato (in senso di ricerca della composizione cinematografica) a tinte surreali, prima di essere un film di fedele ricostruzione della tragedia che è il viaggio dei tanti migranti che fuggono da persecuzioni, guerre e fame.

Non sottraendosi a nessuno discorso politico (a partire dal titolo se vogliamo), Garrone recupera dunque il suo immaginario cinematografico e fa il più classico dei viaggi dell’eroe.

Il suo è un film di avventura in cui lo spettatore sta sempre attaccato ad un protagonista che lungo la sua Odissea trova se stesso. Il protagonista, Seydou Sarr, unico Premio Mastroianni possibile al Lido nel 2023, che è forse la cosa migliore di Io capitano, dal suo sguardo al suo modo di parlare, gesticolare, abbracciare, fino alla sua ingenua onestà che esplode all’inizio, quando cerca di giustificare quella frase di troppo ad una mamma in lacrime. La tragicità, che non diventa pietismo, sta nella fine del non visto, subito prima ciò che noi conosciamo, che è il suggellamento su di una trappola che si rivelerà tale appena arrivati dall’altra parte. Potentissimo.

Io capitano è al cinema dal 7 settembre 2023 con 01 Distribution.

70
Io capitano
Recensione di Jacopo Fioretti Raponi

Io capitano, in concorso a Venezia80, è il film di Matteo Garrone sul non visto. Un film divisivo di grande importanza per questi tempi, specialmente per le decisioni produttive, su come girarlo e come scriverlo. Il cineasta romano trova dei protagonisti eccezionali, specialmente uno, e lo mette al centro del più classico cammino dell'eroe tra fiaba e realtà, una dimensione non perfettamente equilibrata. Il senso metaforico del viaggio, le trovate cinematografiche che giocano sulla differenza di conoscenza tra chi guarda e chi è guardato, un'idea che premia un finale che diviene. grazie ad essa, potentissimo. Una pellicola per tentare di far guardare anche chi non riesce o sceglie di non farlo.

ME GUSTA
  • L'importanza di un film del genere girato in questo modo.
  • I protagonisti, eccezionali.
  • La coerenza di Garrone, dalle premesse fino al bellissimo finale.
  • Alcune scelte cinematografiche molto intelligenti sul gioco di conoscenze tra chi guarda e chi è guardato.
  • Non c'è retorica, non c'è paternalismo.
FAIL
  • Un film che sarà molto divisivo, soprattutto per le scelte pop. Lo mettiamo qui, anche se un contro puro non lo è.
  • Ci sono alcuni difetti, in montaggio e nella costruzione della storia.
  • Non è perfettamente equilibrato nelle sue sfumature tra reale e fiaba.
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