Quando nel 2011 (da noi 2012) è arrivato Black Mirror il mondo seriale era all’inizio della sua accezione contemporanea. Le serie stavano facendo il salto da prodotto di culto (di nicchia non lo diciamo perché non è vero) a forma privilegiata per il grande pubblico, che si stava trasformando sempre di più da spettatore a consumatore. All’epoca si era a caccia di titoli che potessero esercitare ancora un fascino misterioso, quasi esoterico, come avvenne poi con la prima stagione di True Detective, uscita 3 anni dopo.
Si cominciavano a sdoganare varianti sul genere: serie antologiche, serie autoconclusive, serie da tre episodi, da sei, da un’ora mezza, da 50 minuti e poi da 30, serie senza trama orizzontale, serie sperimentali.
La creatura di Charlie Brooker era una commistione di tante di queste qualità, con in più una certa dose di fascino oscuro e di crudezza in stile british, ma non fu per quello che divenne uno dei titoli più adulati, soprattutto da un certo tipo di pubblico da underground cinematografico. La sua abilità fu infatti quella di riuscire a leggere tra le piaghe dell’uomo del XXI secolo utilizzando delle metafore piuttosto pop (e molto poco ermetiche fin dall’inizio, diciamoci la verità), quindi comprensibili, annesse a dei generi cinematografici riconoscibili richiamanti degli immaginari suggestivi. Estremizzando messaggio e contenuto ogni volta. Di più, a volte riusciva a dare l’impressione di anticipare delle paure, sia umane che sociali.
Si cominciavano a sdoganare varianti sul genere: serie antologiche, serie autoconclusive, serie da tre episodi, da sei, da un’ora mezza, da 50 minuti e poi da 30, serie senza trama orizzontale, serie sperimentali.
12 anni dopo il mondo è cambiato, ma è cambiato sul serio, specialmente per una serie come Black Mirror, che ha fatto della distopia (sia passata che futura) il suo mantra audiovisivo e che ora si trova a parlare ad un pubblico che la distopia l’ha vissuta sul serio. Non è un caso che si è via via andati verso una progressiva crisi del titolo, a maggior ragione dopo il suo passaggio sotto la giurisdizione di Netflix, che l’ha praticamente portato ad essere una sorta di enorme contenitore di sperimentazioni, più di forma che di contenuto.
Questa sesta stagione, nonostante abbia acceso delle critiche alla serie, suscitando enormi perplessità nei fan, costituisce forse un primo, reale, tentativo di un suo reset, tra l’altro cercando di tornare alle proprie origini concettuali.
Riflessioni metatestuali
La sesta stagione di Black Mirror decide innanzitutto di riflettere su se stessa.
Sulle potenzialità e, soprattutto, sulle responsabilità del mezzo audiovisivo e dei prodotti streaming nello specifico, facendo il verso non solo a sé, ma prendendo di mira una tipologia di serialità sempre più protagonista nei nostri salotti negli ultimi anni. Una dichiarazione di intenti se vogliamo, attraverso la quale questa stagione vuole comunicare da subito allo spettatore il cambio radicale di focus.
La sesta stagione di Black Mirror decide innanzitutto a riflettere su se stessa.
Infatti pare chiaro come essa voglia uscire da quel gioco metaforico ipertestuale, che mira a “tirare dentro” lo spettatore per toccarlo nella profondità, o, per dirla in modo più poetico, “farlo riflettere in uno specchio rotto”, per mettersi invece al suo fianco e guardare con lui la deformazione creatasi davanti a loro.
“Tirarsi fuori” lei e analizzare il funzionamento dello specchio, cercando, volendo, anche di spingere lo spettatore verso di esso.
Quella operata dalla serie in questa stagione è una sorta di satira ed essendo satira diventa attaccata alla contemporaneità e porta ad esacerbare il tono più popolare del titolo. I pro sono quelli di riuscire a rimettersi a fuoco con più semplicità e chiarezza (un pregio, perché fa seguito alla dichiarazione d’intenti di cui sopra donando agli episodi una coerenza non trascurabile, checché se ne dica), mentre i contro sono la messa da parte di un certo tipo di immaginario spesso suadente e ora piuttosto sgamato nel suo essere più che altro intellettualoide.
Una resa, arrivata alla stagione sei, per una serie che andata man mano preoccupandosi di fare bella figura piuttosto che mettere ciccia nutriente o stimolante per le papille gustative dello spettatore.
Che è poi quello che fanno tantissime serie contemporanee: si preoccupano di far mangiare con gli occhi e stop, quando il detto è che si deve far mangiare PRIMA con gli occhi, che vogliono la loro parte, ma poi c’è anche altro.
Ritorno alle origini (concettuali)
Questa sesta stagione di Black Mirror parte dalla volontà di assottigliare il più possibile il rapporto tra la vita reale di chi guarda e la sua rappresentazione, fatta da coloro che, tramite essa, la vita reale, fondamentalmente, la indirizzano.
Un classico che non passa mai di moda e che questa stagione a volte riesce a porre in modo intelligente, concentrandosi sul bucare questo specchio / schermo (ecco il ritorno alle origini) per accedere i fari su quello che accade dietro, cioè in un’altra vita reale, quella di chi permette allo show di essere fruibile. Una divinità che non fa sconti a nessuno.
Il recupero dell’immaginario di genere, che si lega a questa volontà di assottigliamento di distanza con i protagonisti dello star system, è un altro segnale di recupero del proprio cuore immaginativo.
Pur mettendo da parte un leitmotiv ormai divenuto dogmatico che guardava solamente allo sci-fi, la serie recupera un suo cuore attraverso l’utilizzo di alcune regole precise e proprie dell’immaginario di turno per raccontare la propria storia. Anche a costo di spiattellare delle metafore in faccia allo spettatore.
Questa sesta stagione di Black Mirror parte dalla volontà di assottigliare il più possibile il rapporto tra la vita reale di chi guarda e la sua rappresentazione, fatta da coloro, che tramite essa, la vita reale, fondamentalmente, la indirizzano.
Il campo di indagine di questa stagione parte da una delle basi concettuali primitive più adoperate nella costruzione degli archetipi narrativi e di cui Black Mirror nello specifico ha fatto man bassa: l’uso del doppio per svelare il nascosto, inteso proprio nella accezione etimologica di non vedibile.
La serie ideata da Brooker si è sempre occupata di proiezioni distorte dello spettatore, ma qui fa un passo al lato e prova ad occuparsi della necessità di accettare una coesistenza in noi di un’altra parte, con la quale dobbiamo convivere. Un discorso quasi filosofico che parte dal rapporto tra realtà diverse, passa da un gioco a due su un’astronave che per funzionare necessita di entrambi i piloti o il rapporto predatorio tra due facce della stessa medaglia fino alla necessità di dover ideare la fine del mondo per non sentirsi soli.
Black Mirror con questa sesta stagione, all’apparenza la più debole, innocua e insapore, forse ha iniziato un percorso di recupero di se stessa, ora che il mondo è cambiato e ha capito di avere la necessità di trovare un nuovo posticino al sole e lo fa ponendosi nei confronti di chi guarda in un modo nuovo, ma anche antico. Un po’ come quando si dice che bisogna ricordarsi del passato per non essere succubi del futuro. Era così?