Rapito, la recensione: i corpi di Bellocchio

Rapito

È straordinario, Marco Bellocchio. Ormai a tutti gli effetti il nostro cineasta più fresco, potente, coraggioso, imperituro, sempre lucido e allo stesso tempo appassionato. A guardare il suo ultimo ciclo filmico (quello iniziato nel 2019 con Il Traditore, ma in un certo senso preparato già in Fai bei sogni) non si può fare a meno di pensare alle parole di Akira Kurosawa e sottolineate anche da Martin Scorsese al 76esimo Festival del Cinema di Cannes, dove il film del cineasta di Bobbio di cui stiamo per parlare era in concorso. Forse è vero sul serio che solamente in tarda età si è in grado di rendersi conto delle potenzialità del linguaggio cinematografico, scossi dalla paura che ormai sia troppo tardi e privi dell’eccessivo protagonismo giovanile.

Nella recensione di Rapito, in uscita nei nostri cinema dal 25 maggio 2023 con 01 Distribution, siamo di fronte ad un opera imponente, in cui Bellocchio, rileggendo il libro di Daniele Scalise, Il caso Mortara. La vera storia del bambino ebreo rapito dal papa, racconta un affaire di cronaca dall’importanza sensibile all’interno della nostra Storia Moderna.

Nel farlo confeziona un film che guarda al futuro, che pensa al pubblico giovane, cercando di trasmettere loro la fatica di un cinema che non ha paura di essere politico, ma è anche summa e continuazione del suo pensiero, dal quale recupera ossessioni, temi, forme e contenuti. Non è un caso che decida di occuparsi di una vicenda che ha sentenziato l’incomunicabilità di due degli aspetti della vita dell’uomo e della società che lo hanno sempre ossessionato: politica e religione.

È straordinario, Marco Bellocchio.

Il suo Edgardo Mortara assume la forma di un agnello sacrificale che più che espiare i peccati del mondo ne diventa estrema rappresentazione, schiacciato dallo stato parossistico di un regno governato da un Papa Re, per l’appunto feroce, ma incredibilmente diviso.

Un bambino che guarda al Cristo come un suo parente, addirittura suo erede di un peso che percepisce come ancora più grave, ma che di fondo un bimbo rimane, privato anche del riparo, quello che prima trovava sotto la gonna della mamma e che poi diventa solo ennesimo sinonimo di prigionia.

In prigionia come l’uomo ingabbiato, tra religione e politica.

Il caso Mortara

La sera del 23 giugno 1858, a Bologna, la Gendarmeria, su ordine della Santa Inquisizione e dunque del papa Pio IX (Paolo Pierobon), si presenta a casa della famiglia ebraica dei coniugi Mortara, Salomone (Fausto Russo Alesi) e Marianna (Barbara Ronchi), per prelevare il sesto dei loro otto figli, Edgardo (Enea Sala) e portarlo a Roma, dove sarebbe stato allevato dalla Chiesa.

Il motivo di tale violento atto è ricercare in una testimonianza giunta alle orecchie dell’inquisitore domenicano Pier Gaetano Feletti (Fabrizio Gifuni) riguardo l’avvenuto battesimo del bambino quando egli era ancora in fasce, probabilmente per mano dell’allora aiutante di casa, tale Anna Morisi, convinta che Edgardo sarebbe morto a causa di malattia e quindi condannato al limbo. Un atto semplicissimo, per cui bastavano due gocce d’acqua, una formula e un segno.

Questo, secondo le leggi dello Stato Pontificio, costituiva motivo insindacabile per l’allontanamento del piccolo dalla famiglia di origine, in quanto era proibito che un cattolico potesse vivere con persone di professione ebraica. A dir la verità era vietato anche che un cattolico potesse lavorare con ebrei o viceversa, ma tant’è.

Rapito

Un atto semplicissimo, per cui bastavano due gocce d’acqua, una formula e un segno.

Edgardo venne affidato alla Casa dei Catecumeni, istituzione nata a uso degli ebrei convertiti al cattolicesimo, e solo in quella sede fu permesso ai genitori di vederlo. Genitori che provarono per tutto il resto della loro vita a riavere il figlio, arrivando a scontrarsi con la Chiesa Cattolica in un’epoca cruciale per il futuro dell’Italia, culminato con la Breccia di Porta Pia e la caduta di Roma.

Il bambino divenne intanto un ragazzo grande devoto del papa, con cui entrò in contatto più volte, e un uomo di fede totalmente dedito alla professione cattolica, non tanto per motivi religiosi quanto alla disperata ricerca di una famiglia, la stessa che proprio la religione (sia quella di cui indossava le vesti che quella per la quale recitava le preghiere ogni sera con la mamma)  gli aveva negato per tutta la sua esistenza.

Un’anima rotta perché costretta a cercare l’amore nello stesso posto dove esso gli venne sottratto.

Il corpo dell’innocente

Nel processo di rilettura di se stesso e di recupero di una sua visione in modo da continuarla e completarla, Bellocchio decide concentrarsi sui corpi dei propri protagonisti, campo di battaglia ideologico (quindi sia politico che religioso), che risentono delle strazianti e insanabili contrapposizioni di cui vorrebbero divenire chirurghi ideali e risultandone invece vittime innocenti, lacerate per sempre.

Tra gli echi più importanti derivanti dalla sua filmografia (affrontate anche in modo divertito e “giocoso”, magari ribaltandone le prospettive, come l’immagine qui sotto testimonia) troviamo soprattutto quelli de L’ora di religione e Buongiorno Notte, ma è da individuare in Esterno Notte il titolo in cui è interessante soffermarsi. Da esso il cineasta di Bobbio continua a lavorare sulla sua rinnovata concezione del potere, non solo in quanto oggetto rappresentato, ma anche come visione del mezzo cinematografico.

Gli uomini politici (e in questo caso anche religiosi) del cineasta sono manomessi, perseguitati, condannati dalla crudeltà inumana del loro mandato, ancora di più di coloro che condannano. Il ritratto che ne viene fatto è di una straordinaria chiarezza e lucidità, ma la spietatezza dei loro profili non manca di sfumarsi con la poesia che è sempre stata un vanto della visione bellocchiana. Che siano le visioni di Cossiga o quelle di Pio IX.

Da esso il cineasta di Bobbio continua a lavorare sulla sua rinnovata concezione del potere, non solo in quanto oggetto rappresentato, ma anche come visione del mezzo cinematografico.

Fabrizio Gifuni

La scena di apertura è di una sapienza straordinaria perché costituisce una falsa partenza per una pellicola che detona con grazia e stile nella sequenza successiva, girata con grande maestria e montata alla perfezione. Intro di un primo atto di un grandissimo livello tensivo a cui fa seguito un secondo strutturato alla perfezione e in cui piano piano prende forma un castello narrativo sia di difficile che gestione.

La terza parte paga invece qualcosa, rimanendo più pigra nella regia e nella sagacità della scrittura, come se avesse esaurito quell’interesse così acceso per le cose che racconta. Forse perché il bimbo è cresciuto e i suoi padri sono morti.

Che bravo Fausto Russo Alesi, che brava Barbara Ronchi, che bravo Fabrizio Gifuni e che meraviglia che è Enea Sala, superiore a Leonardo Maltese, suo corrispettivo cresciuto. Rapito dipende molto dall’intesa raggiunta tra il regista e il suo protagonista, che si gestisce e viene gestito alla perfezione. Termometro emotivo complesso e sguardo prestato allo spettatore per entrare nell’epicentro di questo ciclone a tratti impenetrabile. Bellocchio non sorprende più, quello che sorprende è la sua capacità di essere sempre così attuale e necessario per il nostro cinema e per il cinema europeo.

Rapito è al cinema dal 25 maggio 2023 con 01 Distribution.

80
Rapito
Recensione di Jacopo Fioretti Raponi

Rapito è la nuova imponente pellicola di Marco Bellocchio, in concorso a Cannes76 e incentrata sull'affaire Edgardo Mortara, a cui si approccia attraverso lo scritto di Daniele Scalise. Nel crearla il cineasta guarda al futuro, ma fa anche una summa e una continuazione del suo pensiero, dal quale recupera forme e contenuti. Non è un caso che decida di occuparsi di una vicenda che ha sentenziato l'incomunicabilità di due degli aspetti della vita dell'uomo e della società che lo hanno sempre ossessionato: politica e religione. Ancora una visione del potere, ancora l'uso dei corpi come trattati filosofici / esistenziali. Una fortuna potersi godere il lavoro di un autore del genere.

ME GUSTA
  • L'anima imperitura dell'artista Bellocchio.
  • Il coraggio, la lucidità e la passione nel portare avanti il proprio pensiero cinematografico.
  • La capacità di guardare al futuro rileggendo se stessi.
  • La regia, il montaggio, la costruzione della tensione e l'uso delle musiche.
  • Le prove di tutti gli attori, tra i quali spiccano Fausto Russo Alesi e il piccolo Enea Sala.
  • L'uso concettuale dei corpi e dell'inconscio degli uomini.
FAIL
  • Un film complesso e faticoso, che da molto, ma esige.
  • Il terzo atto paga un po' rispetto ai precedenti.
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