Best Narrative, perché God of War Ragnarok ha battuto Elden Ring

La Best Narrative del 2022 è di God of War Ragnarok, che ha battuto l’ultima opera di FromSoftware, in grado di vincere come Game of the Year.

God of War Ragnarok ai TGA ha vinto il premio come miglior narrativa, riuscendo a superare Elden Ring, che nelle altre categorie maggiori ha sovrastato e nascosto lo strapotere di Kratos. La domanda che ci si pone, a questo punto, è perché l’epopea teogonica del Fantasma di Sparta e di suo figlio Atreus ha avuto la meglio sulla vicenda che ha conturbato l’Interregno?

L’obiettivo quest’oggi è provare a dare una risposta a questo dubbio, non da un punto di vista oggettivo, bensì teorico e tecnico. Sperando di accontentare tutti e di non scontentare nessuno, partendo sempre da quella locuzione latina che erroneamente viene attribuita a un Cesare costretto a mangiare asparagi al burro invece di un banchetto luculliano: de gustibus non disputandum est.

Facciamo un passo indietro e poniamoci il quesito riguardante la vittoria del premio Game of the Year, che ha visto trionfare Elden Ring, pronto a battere Horizon Forbidden West (sequel more of the same del quale trovate la nostra recensione qui), Xenoblade Chronicles 3, A Plague Tale: Requiem e Stray. La sfida era palesemente tra l’Interregno e God of War, con gli altri titoli che – non ce ne vogliate – non potevano ambire alla palma d’oro.

L’epopea di Kratos si è confermata di ottimo livello, al pari di quanto fatto dal reboot del 2018, dimostrandoci quanto sia possibile riscrivere la mitologia norrena e adattarla alle proprie necessità, soprattutto per un evento così catastrofico quale è il Ragnarok (potete approfondire con la nostra recensione qui). Non solo God of War ha saputo confermare quanto di buono fatto dal suo predecessore, ma ha potenziato molti aspetti, creando una conclusione epica per il viaggio di formazione di Atreus, offrendoci una storia in grado di avvolgerci e coinvolgerci, calandoci in un world building affascinante e mai vacuo. Sapete, però, perché non ha vinto il Game of the Year? Perché dovete prendere tutti questi elementi e contestualizzarli all’intero di un open world potenzialmente infinito, con delle ore di gioco esponenzialmente maggiori e con un sistema di combattimento maestoso. Ecco a voi Elden Ring.

La tecnica narrativa del Ragnarok

Ma allora, perché Elden Ring non ha trionfato anche come Best Narrative? God of War Ragnarok dal punto di vista meramente di tecnica narrativa è indubbiamente il gioco che ha proposto il contenuto più interessante, incessante ed emozionante a disposizione dell’industria videoludica quest’anno. La scrittura non solo dell’intreccio, ma anche dei dialoghi si è dimostrata profonda e sempre indovinata.

L’intero script riesce a intessere un’intelaiatura di parole e di concetti che non ci molla mai, non ci lascia respirare nemmeno un secondo. Quel lavoro di narrative design che ci porta ad avere Atreus perennemente presente – anche in quei momenti in cui avremmo preferito non avere dei suggerimenti – e Mimir costantemente accorto ad approfondire le vicende che ci si dipanano dinanzi hanno fatto sì che il Ragnarok diventasse parte della nostra vita, per quelle 60 o poco più ore.

Raccontare tutto mostrandocelo e permettendo a Mimir di contestualizzare, come se fosse un sussidiario, è una tecnica che non solo rende l’esplorazione gradevole e affascinante, più di quanto lo sarebbe stata se muta e accompagnata da un solo tappeto musicale – cosa che Elden Ring fa ripetutamente – ma che ci dà modo di essere sempre aggiornati su ciò che accade.

Dimenticatevi, insomma, le audiocassette di Hideo Kojima e le ore trascorse ad ascoltare tracce audio dal menù di gioco. Mimir è il nostro mangianastri.

Dimenticatevi, insomma, le audiocassette di Hideo Kojima e le ore trascorse ad ascoltare tracce audio dal menù di gioco. Mimir è il nostro mangianastri, il nostro menestrello, pronto a raccontare tutto ciò che del Ragnarok non conosciamo e che vogliamo sapere, talvolta condendo l’esperienza con battute sagaci, altre volte infarcendo il tutto con la miccia che accende la sub-quest di turno. Senza mai appesantire il momento, anzi rendendolo più gradevole.

La teogonia riscritta a uso di Kratos

Non solo, perché la capacità di riscrittura di alcuni personaggi, dar loro una volta vita, è un’altra arma vincente del lavoro di Santa Monica. Non ci addentreremo in banali e scontati spoiler, ma già solo il modo in cui ci viene presentato Tyr nelle prime ore di gioco ci permette di cogliere un’umanità molto più profonda delle divinità dinanzi alle quali ci troviamo.

Ancora, perché la stessa vicenda che attanaglia Freya, costretta a vivere imprigionata a Midgar e al suo dolore di aver perso il figlio, Baldur, ci permette di addentrarci in qualcosa di ancora più intenso: le conseguenze che i gesti di Kratos hanno. E nel rapporto tra padre e figlio, forse la tematica più scontata e prevedibile dell’intera opera, troviamo l’esegesi dell’intero intreccio, che già si era dipanato nel 2018 mettendoci dinanzi alla novità di un Fantasma di Sparta più intimo, ma ancora non del tutto compiuto.

E nel caso in cui volessimo obiettare dicendo che Ragnarok non sempre ci permette di vivere l’avventura in compagnia di Mimir, ecco che Santa Monica Studios ci permette anche di vestire i panni di Atreus e godere del supporto narrativo di Sindri, incalzante alleato del giovane Loki incuriosito non tanto dalla sete di sapere, ma di quanto in là potrà spingersi il figlio di Kratos. Ogni comprimario, ogni comparsa, ogni elemento incastonato in quel gioiello valenziano ha la sua caratterizzazione, ha la sua profondità, ha la sua scrittura e il suo modo di esprimersi, calzando alla perfezione con una vicenda che scalda il cuore, persino durante il Fimbulvinter. E questa era un po’ scontata, scusate.

La meta-narrativa dell’Anello

Dall’altro lato del ring avevamo un’altra proposta, potremmo dire diametralmente opposta. Perché nel momento in cui God of War ci colloca con prepotenza su un binario narrativo che a volte ci costringe anche a tenere la telecamera fissa su ciò che ci deve essere raccontato, vanificando l’interattività e la libertà che del videoludico dovrebbe essere la base, Elden Ring decide di farsi scoprire, di farsi aprire come un fiore che sta sbocciando. L’intero intreccio è emergente, va forzato con un piede di porco che è la nostra curiosità, per sviscerare quella lore che resta ben occultata fino a quando non decideremo di affrontarla.

Elden Ring ha avuto un altro grande pregio, quello meta-narrativo. Nei mesi successivi alla sua uscita abbiamo riempito i social, i forum, Reddit di speculazioni, di informazioni, di confronti su ciò che stava accadendo nell’Interregno, tra l’altro privi di una guida onnisciente che potesse permetterci di sapere tutto.

Abbiamo scoperto quell’open world in maniera progressiva, ascoltando miti e leggende di qualcun altro che stava giocando da più tempo di noi, abbiamo condiviso strategie e idee per la nostra build, vivendo delle avventure in solitaria, ma mai realmente soli. Ma allo stesso tempo non abbiamo scoperto la trama, la narrazione, che è rimasta ad appannaggio di pochi, quei pochi che hanno deciso di scoprire tutti e sei i finali dell’avventura che ci ha portati a sederci sul Trono.

Cosa c’è oltre il Trono

Ancora oggi – e questo potrebbe essere un pregio, non per forza un difetto – a quasi un anno dall’uscita di Elden Ring ci interroghiamo su alcuni finali e cosa stiano a rappresentare, che cosa stiano raccontando. D’altronde FromSoftware ha sempre giocato su questo concetto di lore occultata, nascosta, per l’appunto da sviscerare. È una tecnica affascinante, che costringe il giocatore a domandarsi perché Fia voglia cingerlo nel suo abbraccio, oppure che cosa accadrà usando la Runa della Morte sull’Anello Ancestrale, fino a dover interpretare quelle che potrebbero sembrare delle paranoie firmate Maschera d’Oro.

È una tecnica affascinante, che costringe il giocatore a domandarsi perché Fia voglia cingerlo nel suo abbraccio.

Ma allo stesso tempo si incappa nel rischio di non riuscire a cogliere ciò che ci viene raccontato: nel non soffermarci a parlare con un NPC, nel passare oltre determinati anfratti e caverne ci ritroveremmo a godere di un’esperienza unica, ma monca, che pretende impegno, ma non ci obbliga ad averne. Da Ranni a Melina ci troviamo dinanzi a personaggi che hanno dei loro motivi, dei loro moventi, che dobbiamo scegliere se accettare o meno, ma nel frattempo in Elden Ring veniamo privati di quella intensità che ci permetta di godere di un plot twist o di un evento specifico in maniera imponente, epocale. Finiamo per goderne solo a posteriori, quando saremo andati a recuperare elementi che compongono la lore e a creare dentro la nostra testa l’intelaiatura completa.

Elden Ring

In questo, declinato nella sfera più pop, più democratica del videogioco, God of War Ragnarok riesce a essere la miglior narrativa del 2022, offrendo uno script intenso, pregno di contenuti e di dialoghi, che respinge in maniera quasi repulsiva il silenzio e la riflessività di Elden Ring. Alla comparsa di un drago, durante l’esplorazione, i TGA hanno preferito la reazione sconvolta di Mimir e di Atreus all’esplosione musicale di un coro gregoriano in grado di raccontarci, come leitmotiv wagneriano, la solennità del momento e l’incedere incessante della morte verso di noi.

Alla comparsa di un drago i TGA hanno preferito la reazione sconvolta di Mimir all’esplosione musicale di un coro gregoriano

Cesare capì che gli asparagi col burro potevano appartenere a un altro tipo di cultura, ora sta a voi comprendere che i gusti vanno giustificati, ma che allo stesso tempo abbiamo provato a darvi degli elementi oggettivi su cui basare la vostra strada. Comunque andrà, Elden Ring e God of War Ragnarok continueranno a essere due esperienze di immenso valore e qualità che il 2022 ci ha offerto. Al di là delle tecniche da loro adottate e dalla storia che hanno saputo raccontarci.

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