Piove, la recensione: cineasti da preservare

Piove

L’horror è uno dei generi più dichiaratamente autoriferiti, perché affezionatissimo ai suoi meccanismi, ai suoi archetipi, alle sue figure metaforiche (il mostro, i mostri) e alle sue atmosfere, talmente essenziali per la sua forma da rendere inutile anche il solo tentare di nasconderle. La cosa buona è che sono interscambiabili, poliformi, altamente suscettibili ai rimescolamenti, efficacemente reinventabili e osservabili da diversi punti di vista. In più hanno un potere rappresentativo universale, come pochi altri elementi appartenenti ad altri generi, e quindi in grado di aprire le porte a tante altre tematiche, da quelle sociali a quelle esistenziali e filosofiche.

È cosa buona e giusta iniziare così questa recensione di Piove, presentato ad Alice nella Città 2022, rassegna parallela della 17esima Festa del Cinema di Roma, perché è un titolo che conferma quanto il giovanissimo Paolo Strippoli, al suo primo film in solitaria, abbia bene in testa questo concetto, dato che siamo di fronte ad un secondo rinnovamento dei canoni del genere nella sua filmografia dopo a A Classic Horror Story diretto insieme al bravissimo Roberto De Feo.

Questa volta però non in modo derivativo o celebrativo, ma fortemente indirizzato ad uno scopo altro, che è parlare di noi, della nostra società, del nostro modo di rapportarci oggi, dal contesto comunitario a quello familiare.

Una pellicola interessante nella sua scrittura (a sei mani, quelle del regista, di Gustavo Hérnandez e di Jacopo Del Giudice, quest’ultimo in particolare vincitore del Premio Solinas 2017 con questa sceneggiatura), di invidiabile sapienza nell’uso e nella resa dell’effettistica (altra cosa fondamentale per un film del genere), nonostante il budget esiguo, e di un’ottima direzione, sia in senso visivo che nella conduzione attoriale. A proposito di attori, nel cast troviamo l’interprete feticcio dei fratelli Dardenne, Fabrizio Rongione e accanto a lui Cristiana Dell’Anna, Francesco Gheghi, Aurora Menenti e Leon Faun.

Un horror politico, che parla di social, di epidemia, di cronaca nera, del duello sacrale tra Padre e Figlio e di elaborazione del lutto.

I suoi problemi nascono nell’efficacia nell’uso dei tempi, a dispetto di una divisione in tre atti a sua volta dichiarata ed esplicita. I primi due sono infatti intrisi di una preparazione piuttosto articolata e che nella tanta carne al fuoco ogni tanto ha dei passaggi a vuoto, ma che rimangono insieme grazie alla costruzione di un’atmosfera coerente in ogni momento, mentre il terzo è invece potentissimo e finalmente (avverbio non riferito al lavoro di Strippoli, ma al nostro cinema) coraggioso, esplicito, violento.

Forse per questo vietato ai minori di 18 anni?

Al cinema dal 10 novembre distribuito da Fandango.

Ciò che è celato

Come in The Mist di Darabont o in Fog di Carpenter, tutto parte da una nebbia. Una nebbia che è risultato della condensazione di una melma nerastra che ritorna a noi dalle fogne, quindi dalle viscere del nostro mondo, fuoriuscendo prima dai tombini, poi dalle tubature delle abitazioni.

Anche in quella della famiglia Morel, composta da papà Thomas (Rongione) e dai figli Enrico (Ghenghi) e Barbara (Menenti), un trio che deve sopravvivere ad una perdita enorme. Sopravvivere perché nessuno di loro si è mai ripreso dal tragico evento, la morte di mamma (Dell’Anna), fattore scatenante di un terribile senso di colpa generale che avvelena le vite di tutti. Lo stesso che ha portato l’uomo a passare le sue giornate scandendole da una sveglia che ne sentenzia gli impegni, il ragazzo a cadere preda di una rabbia adolescenziale puramente autodistruttiva e la bambina a finire costretta su una sedia a rotelle.

Paradossalmente è proprio lei l’unico collante del nucleo, forse perché manifesta conseguenza di ciò che è successo. Tutto cioè che è nascosto è male in Piove, questo deve essere chiaro.

Fabrizio Rongione

Loro sono i mostri, loro come tutti gli altri. Lo sono prima ancora di essere avvelenati da questo terribile vapore, che stringe la periferia romana e che ha l’atavico potere rivelatorio di portare l’umanità alle estreme conseguenze di quello che già è, una sorta di massa di zombie in preda ad una follia incontrollabile che ha il solo scopo di liberarsi.

Dopo tutto il superamento di un trauma può avvenire in due modi, diceva quello.

Reinvenzione indirizzata

Pesca da un immaginario solido, Strippoli, prendendo prima di tutto da Stephen King, ma lo rielaborandolo per costruire altro. Lo fa lavorando con la camera, muovendola geometricamente nella descrizione degli interni, cercando la deformazione nell’apertura delle scene, coordinandosi sul sonoro, centellinando il jump-scare, rimanendo il più possibile fisso sui personaggi, cercando di stringere sui dettagli. Tutti modi per rievocare quel senso di disagio claustrofobico mostrato in maniera tale da non essere estremizzato fino all’estraniante, il distante, cosicché possa continuare a parlare delle nostre stanze, dei nostri salotti, delle nostre cucine e dei nostri vicini.

La città è città-universo, potrebbe essere qualunque se non fosse per l’inflessione dialettale degli abitanti, sferzata da una costante pioggia battente, ostile e respingente.

Nei primi due atti si parla di un’umanità anaffettiva, sola, isolata eppure costretta a vivere insieme in quella che sembra essere una sorta di gabbia a cielo aperto. Una gabbia per i sentimenti, più cattivi che buoni, impazienti di sfondare le sbarre e assaltare chiunque incontri per la propria strada. I prodromi dei disastri domestici e quartierali, quelli che hanno portato al cinema anche i fratelli D’innocenzo nelle loro ultime due pellicole.

Piove

I tentennamenti di Piove stanno più o meno tutti qua, perché allarga troppo il proprio raggio per parlare di tantissime cose con il rischio di aggiungere ai personaggi strati su strati che li schiacciano invece di rivelarli.

Poi arriva il terzo atto, che, nonostante la prevedibilità nella sua presentazione (i mostri siamo noi e via dicendo), deflagra in una meravigliosa messa in scena (c’è una cosa di montaggio con la Dell’Anna in particolare che è straordinaria) e raggiunge una potenza incredibile grazia alla sincerità, la violenza e il coraggio che ha nel suo andare fino in fondo. Qui c’è il trionfo anche del senso del titolo. Piove, piove quindi lava, quindi sciacqua (anzi risciacqua), purifica, allontana. Piove nel senso più sacro del termine. Un altro archetipo perfettamente studiato, assimilato e reinventato.

Piove è al cinema dal 10 novembre distribuito da Fandango.

75
Piove
Recensione di Jacopo Fioretti Raponi

Piove è il secondo film (primo in solitaria) diretto dal giovanissimo Paolo Strippoli dopo A Classic Horror Story. La pellicola, presentata a Alice nella Città 2022, rassegna parallela della 17esima Festa del Cinema di Roma, testimonia le grande potenzialità del cineasta, in grado di mettere insieme un horror politico, che, al netto di qualche ingenuità, reinventa straordinariamente bene i canoni del genere, riuscendo nell'intenzione di parlare direttamente allo spettatore. Una pellicola coerente, solida, consapevole e coinvolgente nelle sue atmosfere e che riesce andare oltre la prevedibilità grazie ad un terzo atto di rara potenza, coraggio e bellezza. Specialmente nel nostro panorama cinematografico.

ME GUSTA
  • La resa degli effetti visivi.
  • La reinvenzione dei canoni dell'horror.
  • La capacità di costruire un'atmosfera coinvolgente, coerente e trainante.
  • La regia, pensata, attenta e determinata.
  • Il terzo atto, finalmente catartico, coraggioso e violento.
FAIL
  • La scrittura ogni tanto accusa dei passaggi a vuoto.
  • Ci sono dei momenti di stanca nel ritmo della pellicola.
  • I personaggi sono sovraspiegati e a volte anche schiacciati dalla volontà di allargare sempre più il raggio.
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