Jean-Luc Godard è una di quelle presenze che non se ne va mai veramente dai luoghi del cinema.

Può palesarsi sotto forma di una di quelle sequenze prima di una proiezione ad un qualsiasi festival o in un frammento di uno di quei montati in ricordo di un attore. Potrebbe materializzarsi nei panni di un libro a lui dedicato posto su un davanzale di una sala d’essai o, ancora più probabile, di una locandina di un suo film attaccata al muro o, incorniciata, adagiata appena sotto un grande schermo.

Non ci credo che non vi è capitato di udire nominarlo, almeno una volta, se avete avuto la sfortuna di frequentare per alcuni giorni gli ambienti di qualche manifestazione cinematografica.

La volta più recente occorsa a me è stata durante l’ultima Festa del Cinema di Roma, quella del 2021 dalle coordinate temporali in cui vi scrivo, in occasione di un incontro con Marco Bellocchio, il quale si soffermò su come, nel periodo della sua frequentazione del Centro Sperimentale di Cinematografia, si trovò ad un bivio che da una parte vedeva l’intera corrente cinematografica italiana e dall’altra un solo uomo, lui, a capo del movimento della Nouvelle Vague (quella della Rive Gauche? Quella della Rive Droit? Quella in antitesi con l’altra? Quella lì).

E per forza“, mi sembrava dire con l’espressione il cineasta di Bobbio, dato che Godard forse più di tutti lo ha cambiato, il cinema, che forse più di tutti è stato quello stimolo, quella miccia e quell’orizzonte per quattro generazioni di cinefili prima ancora che di addetti ai lavori. Lo testimonia anche un signore dall’altra parte dell’oceano che per dare un nome alla sua casa di produzione non ha deciso di storpiare il titolo di un film a caso.

Magari quindi è giusto, dopo tutto, che la sua presenza non vada mai via da quei luoghi.

Probabilmente per lui il cinema è stato sul serio un riparo dal tempo, anche se non lo ammetterebbe mai.

Il 13 settembre si è spento Jean-Luc Godard, ne ha dato annuncio Libération, segnando quella data come una delle più tristi per gli amanti della Settima Arte. Dettagli sopraggiunti parlano di suicidio assistito (ovviamente non in Francia, ma in Svizzera, terra del suo primo corto e dove era tornato ad anni a risiedere), suggerendo ancora una volta come egli sia stato libero e “godardiano” fino alla fine.

Non era malato, era soltanto esausto“, recita una fonte vicino al giornale.

Questo non è un articolo in cui si vuole spiegare Godard. Io non ne sono all’altezza e certo non basterei, da solo in ogni caso, né ho l’audacia di avventurarmi in un ricordo personale, non interessa a voi e lo troverei abbastanza pretestuoso io.

Questo è un tentativo di invitare chi vorrà a riscoprirlo, perché il cinema del futuro probabilmente ancora si vede solamente guardando tra i suoi titoli.

 

Io quando avevo 30 anni…

Jean-Luc Godard nasce a Parigi il 3 dicembre del 1930, famiglia benestante (il padre possiede una clinica, mentre la madre è un’ereditiera proveniente da una famiglia di banchieri) fortemente calvinista e di origini in parte svizzere. Paese dove, durante la Seconda Guerra Mondiale, il giovane viene mandato in collegio per studiare. Farà ritorno nella capitale francese solo 1948 per diplomarsi presso la Sorbona niente meno che in etnologia.

È all’università però che conosce coloro che con i quali farà la storia del cinema, François Truffaut, Eric Rohmer e Jaques Rivette. Con quest’ultimo Godard inizia la sua carriera da critico, fondando la “Gazette du cinéma” nel 1950, per poi approdare ai Cahiers sotto lo pseudonimo di “Hans Lucas”. Poco è però il tempo passato da spettatore perché, neanche quattro anni dopo, sempre con Rivette, vede la luce un suo documentario intitolato Opération Beton, che si interessò della costruzione di una diga, sempre nella sua amata Svizzera.

Qualche corto dopo e arriva il suo lungometraggio di debutto, siamo nel 1959 e per il cinema ci sarà un prima e un dopo.

À bout de souffle

Con buona pace dei puristi e di chi si è divertito sempre a riempire i salotti di discussioni varie ed eventuali, il soggetto (ispirato ad un fatto di cronaca nera) di À bout de souffle è stato “consegnato” a Godard da Truffaut, un documento che ha avuto la funzione di una bussola, perché tutto poi divenne altro, attraversata la soglia del cinema godardiano.

La pellicola fu girata in quattro settimane, scrivendo la sceneggiatura quotidianamente, di volta in volta. Pensate che il compianto Jean-Paul Belmondo, il divo antidivo che fu l’attore feticcio dell’altro Jean, disse della produzione del film: “Mi piaceva quest’idea di totale libertà, l’improvvisazione, il fatto che non ci fosse una vera sceneggiatura con le battute precise da imparare a memoria e che io potessi lasciarmi andare all’istinto, come veniva. Il giorno prima delle riprese ho chiesto a Godard se almeno avesse un’idea di quello che voleva fare. Mi ha dato una risposta che mi ha riempito di entusiasmo: “No””.

Manifesto della Nuovelle Vague, primo passo del cinema moderno, che ha avuto il merito di guardare al passato per scardinarlo dalle fondamenta e riproporre un linguaggio completamente inedito.

L’irruzione del reale all’interno della fiction, la sperimentazione nell’uso del montaggio, la rottura della quarta parete e così di tutti quanti gli altri dogmi del cinema hollywoodiano vigenti e indiscutibili fino a quel momento, improvvisamente demoliti da una visione incredibilmente rivoluzionaria.

Vincitore del premio Jean Vigo e dell’orso d’argento a Berlino.

Erano arrivati i ragazzi terribili e tutto sarebbe cambiato.

Il primo decennio del nuovo cinema

Il periodo più conosciuto della filmografia di Godard si consumò nell’intero decennio 60-70, durante il quale firmò alcune delle pellicole che cambiarono per sempre la Histoire del cinema moderno.

È in Le Petit Soldat del 1960, ritratto (stracensurato per i riferimenti alla guerra in Algeria) di un soldato che insegue una libertà di pensiero, prima di tutto politico, che il cineasta lavora per la prima volta con Anna Karina, protagonista del successivo Une femme est une femme (1961), nel quale la userà per uccidere e fa rinascere il cinema americano nella sua espressione più classica, industriale e sensazionalista, per poi sposarla. Si tratta anche del primo film a colori della sua carriera oltre che di un primo tentativo di unire la ricerca della bellezza estetica nella forma e nell’oggetto della rappresentazione con uno sguardo politico, che da cinematografica diventa puramente sociologica con Vivre sa vie (1962). In questo caso, partendo da un’indagine sulla condizione della prostituzione, mette in scena una vita in 12 quadri, in cui riesce a fondere un’analisi esistenziale profonda e accurata con un calore umano di una sincerità disarmante, sperimentando e mettendosi in discussione di nuovo e invitando lo spettatore a fare lo stesso. Senza dimenticare l’amore per il cinema del passato, mai rinnegato, ma sempre accompagnato.

Le Mépris

Avviene un altro salto quando “sfrutta” Il disprezzo di Moravia per dar vita alla pellicola (omonima) in cui intreccia il racconto della distruzione delle logiche della coppia con l’opposizione tra l’arte e l’industria, laddove la prima rappresenta un flusso continuo, mentre la seconda è condannata ad un ciclo sempiterno di morte e rinascita.

Una forma di dialogo costante questa, nella poetica godardiana, dove spesso la divisione tra il pensiero umano, in costante mutamento e totalmente investito dalla vita, l’età e i sentimenti, si scontra con quello politico, che esula dalle meccaniche terrene e che dunque esige un tributo impossibile da soddisfare completamente, dal momento che passa per la risoluzione delle inevitabili contraddizioni nella condotta personale e nelle relazioni.

Bande à part

Tornato a Parigi Godard gira il suo film di serie Z per cui chiese 100 mila dollari alla Columbia, lo stesso film che egli stesso non si fece problemi a definire orribile qualche tempo dopo.

Il titolo è Bande à part ed è, semplificando all’osso, un noir da B movie completamente anarchico, ambientato nelle banlieus parigine. Un’altra pietra miliare del cinema moderno, tanto da ispirare Tarantino, Mitchell e Bertolucci.

Discorso sul genere che il cineasta portò avanti con Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution , in cui si ripensa ai film con Bogart, ma si sperimenta con sonoro e fotografia, guardando al cinema muto degli anni ’30 in special modo, ma senza perdere mai di vista il futuro.

L’esplosione dell’amore di Godard arriva però con Pierrot Le Fou, un’ode al romanticismo coniugato in ogni tipo di espressione artistica, dalla pittura alla letteratura, passando per la poesia e, ovviamente, per il cinema, rimescolando, aggiungendo e sovvertendo ordine, regole, linguaggi e sensi estetici. Un trionfo, un riferimento per sempre, come il modo in cui Belmondo guarda Karina mentre si fuma la sua sigaretta.

Pierrot le Fou

Esplosione prima del tramonto, quello del rapporto tra Godard e Karina e tra Godard e la Nouvelle Vague nel suo senso più puro.

Un tramonto meraviglioso, che il cineasta dipinse con un quartetto di film sempre più politici, non solo nel risultato, ma anche nel modo in cui furono concepiti e poi realizzati, oltre che con una parentesi all’edizione di Cannes del 1968 più unica che rara. L’importante è sempre stato intendere e fare cinema politicamente, dopo tutto.

Masculin, féminin del 1966, ritratto dello scontro tra uomo e struttura sociale, e poi Deux ou trois choses que je sais d’elle, La Chinoise e Weekend, tutti del 1967, nei quali le storie e i personaggi diventano allegorici e sfumati senza perdere nulla del loro mordente esistenzialismo umano, permettendo così un’analisi ancora più ficcante riguardante il consumismo e la trasformazione dell’uomo medio occidentale.

Il Festival del Maggio francese

Siamo nel finire degli anni ’60 e il Maggio francese è ormai realtà: una rivolta completamente spontanea, contro la società tradizionale, il capitalismo e l’imperialismo del mondo occidentale.

Il cinema tentò di rimanerne ai margini, ma la 21esima edizione del Festival del Cinema di Cannes pagò lo scotto di debuttare la notte delle barricate al quartiere latino di Parigi, intrecciando il suo percorso con alcune delle giornate più scottanti della protesta, tant’è che la stessa Croisette fu invasa dagli studenti in essa impegnati. Il resto lo fecero la mancata presenza in concorso di film che parlassero della rivolta o della condizione proletaria dell’epoca e il suo ostinarsi a procrastinare in rituali più o meno borghesi.

Ad un giorno dalla fine della manifestazione, in cui già si erano succedute enormi proteste in strada e nelle sale, soprattutto ad opera dei “ragazzi terribili” della Nuovelle Vague, numerosi addetti ai lavori occuparono il palazzo del cinema, preannunciando lo scoppio della miccia definitiva che in quel caso fu il blocco della proiezione di Peppermint Frappé ad opera proprio della sua protagonista, Geraldine Chaplin. A tale evento seguirono a ruota le prese di posizione di un folto gruppo di cineasti, capeggiati da Truffaut e Godard, il cui peso portò Alain Resnais, Carlos Saura e Miloš Forman a ritirare i rispettivi film dal concorso e Louis Malle, Monica Vitti e Roman Polanski a dimettersi dal loro ruolo di giurati.

Godard e Truffaut

Il Festival fu interrotto, nessun palmares fu assegnato, numerose pellicole furono recuperate addirittura nell’edizione di Cannes del 2008.

Da quel caos i nomi dei registi coinvolti in prima linea fondarono la Société des Réalisateurs de Films (SRF), che dall’anno successivo organizzerà una selezione parallela a quella ufficiale, una cosetaa chiamata la Quinzaine des Réalisateurs.

Il cinema aveva fatto svolto il suo dovere, che secondo Godard era quello assimilabile al più importante strumento di pensiero contemporaneo, e lo aveva assolto decidendo di scioperare.

“I Vertov”

Il post-Sessantotto è un momento cruciale per JLG, che prende coscienza dell’inadeguatezza dell’autore di adempiere al suo ruolo di intellettuale e della conseguente necessità di reinventarsi, trasformarsi in altro. Qui comincia la sua polarizzazione verso posizioni sempre più estreme che sfoceranno nel litigio definitivo con Truffaut e con la decisione di muovere guerra alla cinematografia ufficiale ponendosi al suo esterno, data l’impossibilità di poterla cambiare dall’interno.

Godard rivoluziona il ruolo del regista, cercando di ripensare il concetto stesso di linguaggio audiovisivo e l’idea del rapporto tra sonoro e immagini.

Vent d'Est

Il cineasta francese decide di approdare ad un cinema sperimentale, avanguardista e distante dal tradizionale isolamento creativo. Dunque, insieme ad altri autori e intellettuali francesi di sinistra fonda il Gruppo Dziga Vertov, rifacendosi al nome del noto regista sovietico scomparso una decina di anni prima, un collettivo che darà vita a sei pellicole di grande impegno politico (ricordiamo, per esempio, Le Vent d’est con Gian Maria Volonté) prima di sciogliersi tra il 1972 e il 1973.

Un periodo tumultuoso in cui Godard diviene un punto di riferimento per i nuovi movimenti studenteschi, non solo in patria e in Europa, ma anche negli Stati Uniti e in Canada, dove il cineasta francese si reca più volte nel corso di quegli anni e fino alla fine del periodo più eversivo.

La crisi e il successivo scioglimento del gruppo lo porteranno poi a chiudersi in se stesso, costringendolo ad un periodo di isolamento piuttosto lungo.

L’approdo al digitale

Il ritorno sulle scene arriva nel 1975, quando, ancora una volta prima di chiunque altro, Godard si approccia al video.

Numéro deux è il suo secondo debutto sotto tutti i punti di vista, non solo per le tematiche, budget e nome del produttore, riconducibili a À bout de souffle, ma perché per lui è significato ricominciare ad esplorare un nuovo mondo.

Numéro deux

Il titolo è una destrutturazione dell’immagine cinematografica, partendo da quella che più gli appartiene, la pellicola, che viene sostituita dal nastro magnetico, con il quale il cineasta comincia una riflessione sul linguaggio della Settima Arte partendo proprio dal suo modo di intenderla, mescolando fiction e documentazione, realtà e rappresentazione, politica e vita quotidiana. “Non è un film di destra o di sinistra, ma un film davanti o dietro.

Diventare immortale e poi morire

Il ritorno ad un cinema più classico all’inizio degli anni ’80 con titoli straordinari come Passion e Prénom Carmen (Leone d’oro a Venezia40) segnano quella che sarebbe potuto sembrare un definitivo allontanamento dalle tematiche più pure ed estreme della Nuvelle vague per concentrarsi su un cinema che ricerchi una bellezza formale perfetta nelle sperimentazioni tra immagine, musica e sceneggiatura, e che si concentri su tematiche più legate alle relazioni familiari e ai legami di coppia.

Tutto è cambiato di nuovo, Godard si è trasferito a Grenoble ed ora si accompagna con Anne-Marie Miéville, la terza “Ann” della sua vita.

C’è invece spazio per un’altra sperimentazione, il suo terzo debutto, che arriva addirittura nel 2014, alla soglia dei 40 lungometraggi, e porta il nome di Adieu au langage, in cui il cineasta francese raccoglie l’ennesima sfida della sua vita approcciandosi alla tecnologia 3D e realizzando un’opera che ancora una volta si occupa dell’identità, sia dal punto di vista esistenziale che visivo, parlando, come sempre, di sesso, politica, filosofia, società e del futuro del cinema.

È del 2018 invece la sua ultima fatica, Le livre d’image, premiata con lo Special Palme d’Or, il primo della Storia del festival. Un’altra opera di una lucidità fuori dal comune, in cui Godard segna una summa del pensiero audiovisivo, cercando di ridare una dignità storica al cinema come lente sul Novecento. Prima di tornare di nuovo in Svizzera, sulle rive del lago di Ginevra.

Jean-Luc-Godard

JLG è stato tutto quello che il cinema si sarebbe potuto augurare in un momento storicamente atroce come il Secondo Dopoguerra, egli fu un precursore straordinario, in grado come nessuno prima e nessun altro dopo di portare una visione del linguaggio audiovisivo mai così moderna e in sintonia con le anime che da sempre l’hanno caratterizzato.

Egli è stato colui che più di ogni altro ha provato a vivere secondo i tempi del cinema, tentando di mettersi ogni volta in discussione.

Si è soliti dire che tutto passa, uomini, correnti, strumenti e tecnologie, ma il cinema andrà avanti, come ogni altra forma d’arte. Ecco forse stavolta no (e lungi da me sfociare nella retorica, cercherò di terminare un secondo prima), forse con Godard un’idea di cinema come forma d’arte è morta davvero.