Flee, la recensione: esodo per libere associazioni

Flee

Il modello “andata e ritorno” è uno dei modi più rischiosi con i quali si può affrontare la storia di un esodo, ma anche quella che in un certo senso attira sempre quando si costruisce una narrazione che vuole ripercorrere una vicenda passata con i toni del presente. Tornare sui propri passi per riesumare un vissuto, anche rimosso, vuol dire ricostruirlo per comunicarlo agli altri e a noi stessi. Una duplice operazione coinvolgente una relazione intima, che prima di tutto è contradditoria perché chiama in causa tutto ciò che implica le mille trasfigurazioni della memoria, inficiate dallo status del momento in cui vengono evocate. Il risultato è per forza alterato, ne va della natura stessa del processo. Ecco dov’è il rischio. Ne sa qualcosa Valzer con Bashir (vietato nel Paese di cui tratta e frainteso da più di un tipo di pubblico), con cui il film di cui stiamo per parlare ha più di una cosa in comune. Correre questo rischio però può premiare restituendoti qualcosa di unico e irripetibile perché unici e irripetibili siamo noi e le nostre esperienze, specialmente quando siamo coinvolti in un qualcosa di più grande, che tende a schiacciarci e distruggere chi siamo. Un esodo è, soprattutto, un disfacimento dell’identità. Per questo è così meraviglioso assistere al racconto di chi da esso è riuscito a ricostruirsi la propria.

Nella recensione di Flee (fuggire), documentario animato del cineasta danese Jonas Poher Rasmussen, vi parliamo di una pellicola (appunto) unica e irripetibile, che da unica e irripetibile ha conquistato per la prima volta nella storia del cinema tre candidature agli Oscar nelle sezione miglior film d’animazione, miglior documentario e miglior film internazionale (ex straniero).

E pensare che la sua distribuzione festivaliera era cominciata con la selezione per Cannes 2020, l’edizione che non c’è mai stata. Il successo in realtà era poi arrivato al Sundance Film Festival 2021, dove la pellicola era stata presentata al mondo, accolta da un plauso generale e unanime di critica e pubblico, lo stesso che sta riscontrando in Italia, dove è arrivata il 10 marzo 2022 distribuita da I Wonder Pictures e Unipol Biografilm Festival.

Il film racconta una storia dagli echi oggi drammaticamente più percepibili con un linguaggio puramente umano.

Animazione al servizio della documentazione per affrontare un viaggio dentro se stessi, in cui la tecnica scelta trova la sua esaltazione sia dal punto di vista della coerenza formale e sia per la multifunzione che esula dalla narrazione e diventa anche terreno accogliente per il dialogo tra spettatore e narratore.

La storia di Amin

Amin Nawabi (nome inventato), ex bambino fuggitivo dal conflitto in Afghanistan dopo la presa al potere del regime dei Mujahedeen ed ex rifugiato in Russia, è il migliore amico del regista danese Jonas Poher Rasmussen.

Queste sono le due coordinate esistenziali che riassumono la vita precedente dell’ormai quasi 40enne borsista e ricercatore di Princeton, in procinto di sposare il suo compagno Kasper e di comprare con lui una casa nelle campagne vicino Copenaghen. Quello che si tralascia è che Amin è anche un fu fratello minore, figlio devoto, invidioso della sorella per il tempo trascorso con un padre di cui tuttora non conosce la sorte, ottimo giocatore di pallavolo del quartiere dove viveva e adolescente colorato, innamorato della musica e degli sguardi dei suoi coetanei.

In questa sorta di terapia psicanalitica in cui la religione non è Freud o Jung, ma soltanto la telecamera, egli vuole affermare per la prima volta al mondo, ma forse anche a se stesso, l’influenza che quel passato ha ancora sulla sua vita.

Flee

Un passato inconfessabile anche per i suoi affetti più cari, così come inconfessabile è stata, fino a quel momento, la sopravvivenza della sua famiglia, sparsa in giro per l’Europa, divisa da chilometri e anni fatti di silenzi, ma pur sempre viva e testimone di uno spaccato storico che ha prodotto quei milioni di rifugiati, che hanno scoperto loro malgrado come questo appellativo sia solo un altro modo per dire “non più esistenti”.

Vicende umane sempre più universali.

La vita dopo

Rasmussen accoglie come meglio può il dono del suo amico, che gli consegna il suo intero mondo interiore, vivo ancora adesso, che rifugiato non è più da anni, facendo dell’animazione una scelta dettata soprattutto dal rispetto.

Rispetto verso chi parla, che viene protetto da un filtro il quale fa a sua volta contemporaneamente da mediatore e agevolatore per chi guarda.

Non tanto perché ciò che mostra è talmente spaventoso che un’ottica in un certo senso alleggerita è necessaria per la fruizione, ma quanto perché, essendo una costruzione in presa diretta, ad anni di distanza, la drammatizzazione che permette tale tecnica è ciò che meglio può evocare su schermo il viaggio (e anche lo sforzo) compiuto dal narratore.

Flee

I grigi degli scenari russi fanno scopa con quelli che animano le chiatte e i furgoni in cui i trafficanti di umani costringono i profughi ad accalcarsi. Uno scuro da cui solo dei lampi di vita “normale” riescono a scalfire, come la melodia di Take On Me, le scarpe dalle luci rosse che tanto sanno di infanzia e le catenine dorate. Colori caldi come quelli della casa di Amin, dove provocava il vicinato andando in giro ballando con indosso i vestiti di una delle sue sorelle.

Quello che rimane costante sono i connotati dei personaggi, che si perdono solamente quando scompaiono sul serio, anche per protezione.

Un flusso animato intervallato dall’inserimento di immagini di archivio in dei punti sapientemente scelti, come a ricordarci che si tratta pur sempre di un documentario che ha delle basi nel presente e, come tale, racconta della costruzione di un passato in funzione della vita che il narratore conduce ora. Qui è il segreto e il fascino del film di Rasmussen, che segue il suo protagonista anche nei suoi dolori contemporanei, ancora sofferente di una diffidenza verso l’altro e di uno spaesamento tipico solo di chi ha smarrito il concetto stesso di casa.

Flee non è un racconto che parla della speranza di poter riemergere da un passato che ha negato una casa, una adolescenza, una sessualità e disperso una famiglia, ma è la prova di come esso possa continuare a sabotare la propria vita quotidiana anche quando si ha imparato a fuggire e proprio perché si continua a farlo. Non si finisce mai di essere un rifugiato, forse non si recupererà mai il concetto di appartenenza, ciononostante si può imparare a vivere senza esserne più schiavi.

Flee è in sala dal 10 marzo 2022 con I Wonder Pictures e Unipol Biografilm Festival.

80
Flee
Recensione di Jacopo Fioretti Raponi

Flee è il documentario animato del cineasta danese Jonas Poher Rasmussen che narra la storia del suo amico Amin, rifugiato fuggito dall'Afghanistan alla Russia e ora cittadino danese. Si tratta della prima pellicola nella storia del cinema ad essere candidata contemporaneamente all'Oscar per miglior film d'animazione, miglior documentario e miglior film internazionale. Un vero e proprio gioiello nascosto di questa stagione cinematografica, che ha la sua particolarità nel decidere di narrare la vicenda del suo protagonista adottandone in pieno il punto di vista, secondo i toni dell'elaborazione di un trauma. Scelta che gli permette di accedere ad una dimensione ibrida, ma potentissima, tipica di quando si racconta non solo agli altri, ma anche a se stessi. Una pellicola intelligente, potente, rispettosa, delicata e sensibile, sia nei confronti di chi guarda che di chi narra, che nella scelta dell'animazione trova la forma ideale per tradursi sullo schermo, in grado così di analizzare ad un livello profondamente esistenziale cosa voglia dire essere un rifugiato e come non si possa mai più smettere di esserlo.

ME GUSTA
  • La scelta e l'uso dell'animazione, per coerenza stilistica e per la funzione narrativa e meta.
  • La costruzione della storia, tra passato e presente.
  • La potenza del racconto, anche merito dei toni che si decidono di adottare.
  • La capacità di non perdere, nonostante lo sguardo così personale, la natura del documentario.
FAIL
  • Non molto adatto per le persone sensibili, in particolar modo per i tempi in cui viviamo.
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