Intervista a Lorenzo Tardella: “Si racconta sempre quello che si conosce”

Le variabili dipendenti

Lorenzo Tardella è un giovane (ci perdonerà per l’accezione, ma tant’è) regista di Narni, classe 1992, studente del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.

Lorenzo Tardella è un ragazzo calmo, posato, riflessivo, profondo, anche timido in un certo senso, di quelli che li vedi e pensi “questo è uno con la testa sulle spalle“, ma che, come spesso capita, cova nel suo animo un mondo molto più vivace di quanto possa apparire. Di quelli fatti di inquietudini, fibrillazioni, prime volte, stagioni, case di campagna, polaroid, ricordi di famiglia e tanto, tanto cinema. Più di tutto però, una grandissima voglia di raccontarlo. Un’esigenza viscerale, un bisogno personale, e dunque non sorprende come abbia trovato nella macchina da presa un perfetto mezzo per analizzare ed autoanalizzarsi.

Si racconta sempre quello che si conosce.

La cosa più interessante nell’osservare il percorso di Lorenzo Tardella è l’accorgersi della formazione di un autore, o almeno di un potenziale autore. Un occhio con un’idea precisa di cinema in testa, non solo per quanto riguarda le tematiche affrontate, l’uso dei simboli e i topoi ricorrenti, ma per il lavoro con gli attori, la messa in scena, la preparazione e il rigore in cui la narrazione si esalta; l’uso della sintesi, la concentrazione sui dettagli e la scoperta degli ambienti.

Il suo lavoro ha cominciato sul serio (e finalmente) ad attirare l’attenzione nazionale del pubblico del circuito dei corti (e non solo) con l’uscita della sua penultima, A fior di pelle, presentata all’ultima edizione di Alice nella Città, rassegna parallela la Festa del Cinema di Roma, e poi ulteriormente premiata con un passaggio in concorso a Visioni Italiane dello stesso anno.

Qui sotto il trailer:

Le Variabili Dipendenti arriva quindi come possibile maturazione di un primo tracciato importante del cammino di Tardella, non solo perché corona un piccolo grande traguardo, come quello di essere scelto per partecipare alla sezione Generation (unico italiano) della Berlinale 2022, ma perché racconta la prima volta delle prime volte, uno degli incontri/scontri più traumatici e quindi più importanti che segnano il passaggio dall’infanzia alla prima fase dell’età adulta.

Quella linea sottile da cui il regista di Narni è così ossessionato.

Il cinema di Lorenzo è (quasi) completamente dedito alla narrazione di quel delicato punto della crescita che segna il primo reale momento in cui tutti noi abbiamo staccato gli occhi da noi stessi e abbiamo cominciato a interessarci degli altri, in cui abbiamo avuto paura per la prima vera volta in modo consapevole, in cui ci siamo posti come individui in un mondo più grande. L’uscita dalla comfort zone per entrare nel mondo “degli adulti”, se così lo vogliamo chiamare, in cui si ha bisogno dell’identificazione con l’altro e non del conforto, di superare il gioco e cominciare a fare sul serio.

Le Variabili Dipendenti racconta di Pietro e Tommaso, due individui in piena formazione, al tramonto dell’età dell’innocenza. Il loro incontro arriva su di un palchetto di un teatro dove si sono recati in una delle ultime scolaresche colorate dalle voglie infantili e lì, protetti dal buio, dalle note di Vivaldi e dal sorriso che sa di gioco e null’altro, si danno un bacio.

La prima volta per entrambi? Sicuramente la prima volta insieme.

La luce torna, i loro sorrisi comunicano una serenità scherzosa, i loro occhi tradiscono un indugiare un po’ più serio, soprattutto quelli di Pietro. Cosa succede se tutto questo fosse portato nel mondo reale? Magari alla luce del sole, a casa, un pomeriggio qualsiasi, lontano da quella dimensione dove tutto è permesso perché tutto è autoriferito, come nell’infanzia appunto. Lì può avvenire il corto circuito perché lì si deve compiere il passo in più. Non c’è mediazione, non c’è gioco. Lì ci si accorge davvero quanto possa essere doloroso, ma anche bellissimo, specchiarsi nello sguardo di chi può essere uguale a te.

In matematica una variabile è detta dipendente da altre variabili solo nel momento in cui esiste una relazione tra di esse che la coinvolga.

Abbiamo intervistato Lorenzo Tardella, che ci ha raccontato di lui, della sua esperienza alla Berlinale e del suo bellissimo corto.

Intervista a Lorenzo Tardella

Se dovessi presentare Le Variabili Dipendenti in due parole diresti…

È un corto di cose piccole guardate molto da vicino

Le Variabili Dipendenti parla di un primo scontro con l’intimità e di quanto sia difficile ritrovare se stessi negli occhi della persona che si ha davanti.

Non è un corto di trama, ma di immersione, che lavora con le soggettive, incrociate e indipendenti, con il linguaggio del corpo degli attori e più con il montaggio che con la sceneggiatura. Un lavoro che vuole tirare dentro lo spettatore, coinvolgerlo, farlo stare il più possibile vicino ai protagonisti. Assottigliare al massimo la divisione rappresentata dalla camera.

Mi racconti le emozioni e l’esperienza della Berlinale?

Dal mio punto di vista l’esperienza alla Berlinale è cominciata con la comunicazione della selezione i primi di gennaio, la quale però, chiaramente, non ci garantiva lo svolgersi di un’edizione in presenza.

Quindi, come dire, la grandissima felicità di essere stato selezionato è stata in parte attenuata dalla prospettiva di non poter essere in sala con il pubblico. Per cui la gioia vera è arrivata con la comunicazione che il festival si sarebbe svolto in presenza.

È andato tutto molto bene, soprattutto perché mi ha fatto piacere fossimo in parecchi della troupe: c’erano gli attori, la montatrice, il direttore della fotografia, le sceneggiatrici e altre persone con me. Eravamo una bella rappresentanza del corto insomma.

Io poi alla Berlinale non c’ero mai stato come spettatore, quindi è stato tutto molto nuovo.

Devo dire che ho trovato un gran bel pubblico, appassionato, cinefilo e stimolante e questo mi ha molto sorpreso. Anche e soprattutto vista la situazione COVID. Sai, è stata un’edizione particolarmente rognosa per tutti gli addetti ai lavori tra i tamponi ecc… Una situazione con una dose di stress maggiore del solito, ciò nonostante tutte le sale erano affollate.

La proiezione è andata benissimo: la sala era piena e il corto è piaciuto, così come sono piaciuti i due protagonisti. Super emozionati entrambi, figurati, dopotutto era la loro prima esperienza festivaliera. Hanno firmato i loro primi autografi… Me la sono vissuta quasi in modo materno con loro.

La prima de Le Variabili Dipendenti c’è stata sabato 12 febbraio alla sala Haus der Kulturen der Welt, all’interno di uno slot di 5 corti di grande livello. Una gran bella accoglienza, anche da parte della direzione artistica di Generation. Ho conosciuto gente che fa questo mestiere con grandissima passione e fiducia e nel mio piccolo non c’ero abituato. Un ambiente di protezione per gli autori stessi.

Io poi mi sono fermato per il resto dei giorni e mi sono goduto l’offerta del festival e, naturalmente, la città.

Lorenzo Tardella

Le Variabili Dipendenti è il tuo terzo corto ambientato nel momento della fine dell’infanzia e l’inizio dell’età adulta. Perché questo interesse?

Perché sono fermo lì. [ridendo]

Quello che io metto nei miei protagonisti sono le cose che vivo tutt’oggi, nel bene e nel male. Tutta la paura che metto in scena, tipica di quell’età, è ciò che frequento anche ora e ciò che più o meno spontaneamente mi ritrovo a raccontare.

Però ti voglio dire che, nonostante tu abbia ragione a dire che l’età di cui mi interesso è più meno sempre quella, io ho lavorato di piccoli passi avanti per quanto riguarda l’analisi del momento di passaggio. Dunque rispetto agli altri lavori, questo va oltre, andando avanti deciso per fermarsi solo alle porte dell’adolescenza.

Ho voluto esplorare una tematica e un sentimento per me inediti, cioè la prima volta con l’intimità. Cosa è, cosa significa, ma anche quant’è complicata.

Quel momento in cui non sei più fianco a fianco con qualcuno, ma quando ti ci ritrovi per la prima volta faccia a faccia e, dunque, quanto sia difficile anche guardarsi negli occhi. Quando smetti di guardati allo specchio e cominci a cercarti negli altri, in chi hai davanti.

In Le Variabili Dipendenti passi da un primo atto in cui si esalta la ricerca del non visto e la protezione del gioco, che poteva segnare un’istantanea, un evento possibile solo in quella comfort zone. Invece nel secondo atto c’è una riappropriazione del medesimo discorso, ma a casa, lontano dal gioco e quindi dalla protezione. Quanto era importante questo scarto?

Noi eravamo partiti con la possibile idea di un atto solo. Ci ha ossessionato sin dalle prime fasi della sceneggiatura. C’era una grandissima parte del corpo docenti e dei tutor che voleva che il corto iniziasse e finisse a teatro, con una sola unità spazio tempo.

Il punto era che Le Variabili Dipendenti parla proprio dello scarto tra quel primo atto e il secondo. Il senso è nell’accostamento di queste due parti e di come i conti, nella seconda, non tornino rispetto alla prima.

Quest’ultima è buia, musicata e ha anche una sorta di pubblico, perché c’è uno spettacolo in scena ed una platea accanto e sotto il palchetto dono sono loro, eppure succede quello che succede. Una scena molto da thriller, un inseguimento, un gioco del gatto col topo che poi diventa un gioco di fatto, perché il primo bacio tra i protagonisti è infantile e ha il sapore di un qualcosa di allegro e provocatorio.

Da lì nasce quello che sta alla base del corto, ovvero un fraintendimento tra uno che pensa che l’altro voglia quello che vuole lui per poi rendersi conto che la realtà è diversa e non è così facile.

Dentro il silenzio delle mura di casa, dove sei al sicuro, arriva la difficoltà del confronto, arriva l’estraneità e la differenza tra te e l’altro.

A quel punto puoi scoprire quanto fa male non riconoscersi in uno specchio.

Bada bene, non parlo di una questione di identità dal punto di vista sessuale. Io ho rifiutato qualsiasi avanzamento di ipotesi su un discorso LGBT, ma solo di stadi diversi della crescita, consapevolezza, maturità e conoscenza di sé.

Lì c’è una creatura più formata una meno e tra loro avviene un corto circuito.

D’altro canto però se non esci dalla comfort zone non vai da nessuna parte, no? Puoi avere 10, 20, 30 o 40 anni, una prima volta presuppone sempre il passo verso qualcosa che non si conosce, non si sa gestire ed è potenzialmente pericolosa.

Sempre che una comfort zone reale esita o che non sia solo un’illusione che noi siamo così bravi nel ripetere a noi stessi. A quell’età magari un po’ meno, in preda come si è di se stessi e dei propri moti interiori.

Non ho mai creduto a chi mi diceva, quando avevo quell’età, magari durante le solite cene di Natale, “non ti lamentare che i tuoi sono gli anni migliori.” Mah

Le variabili dipendenti

Foto di Angelo Palombini

Quant’è importante la mediazione in un momento così potenzialmente traumatico?

La mediazione è tutto.

Loro riescono ad incontrarsi forse solo nel gioco, che sia quello in teatro o quello della PlayStation, perché lì trovano un punto in comune. A quell’età si è divisi tra la spinta di crescere e l’inclinazione a tornare indietro, a rimanere attaccato all’infanzia. A quell’età si è tutto e niente.

Pietro vuole fare altro, qualcosa di più serio, Tommaso vuole giocare. Non si riescono ad incontrare a metà strada. Questo vuol dire crescere, uscire dall’egocentrismo infantile e incontrare i bisogni dell’altro. Cominciare a capire che si può dipendere da qualcun altro.

Le Variabili Dipendenti, no?

Mi spieghi la scelta di regia così vicina ai tuoi protagonisti e l’importanza dell’intimità nella tua idea di cinema?

La vicinanza è il modo in cui io vorrei osservare queste cose.

Ho cercato di mettere tutto al microscopio, perché questo è il modo che, se potessi, utilizzerei per osservare questi fenomeni. È oggettivamente qualcosa che mi interessa molto, anche antropologicamente. Si tratta di cose piccole, ma veramente piccole: microgesti, micromovimenti, microsfioramenti, sguardi dati di sfuggita.

Ma se le cose piccole le guardi da vicino diventano improvvisamente più grandi.

Tra l’altro noi abbiamo girato non solo con la macchina molto vicina, ma con veri obiettivi, quindi abbiamo fatto un discorso sull’uso delle ottiche, che creano anche un distacco tra l’oggetto inquadrato e lo sfondo, che si va sfumando. Questo contribuisce a creare una bolla intorno ai protagonisti.

Qui torniamo al discorso di prima: l’immersione. A me interessano solo loro due.

La regia di cui tu parli era in sceneggiatura. Francesca Manieri mi ha fatto annotare tutto in fase di scrittura: pensa che ci ha fatto scrivere 18 pagine di sceneggiatura in cui tutte quante le microcose erano dichiarate. Il risultato è stata una geografia fittissima di tutte questi dettagli. Un lavoro necessario se pensi che i conflitti erano dentro i gesti e dunque i gesti dovevano essere raccontati e filmati in maniera estremamente precisa.

Quanto c’è di autobiografico in questo lavoro?

“Autobiografico” è una di quelle parole che fuorviano sempre. C’è tanto di personale, questo si.

È la cosa più personale che ho fatto.

Si parte da un lato vero, che poi devi reinventare. Lo rigiri nel modo più funzionale possibile in base a quello che vuoi raccontare. Il dato vero è l’episodio a teatro, da quello siamo solo partiti per costruire tutto il resto.

I due protagonisti, Simone Evangelista e Mattia Rega, sono eccezionali e insieme funzionano alla perfezione. Mi puoi raccontare il processo di casting e il lavoro con loro?

Le Variabili Dipendenti ha segnato la prima volta in cui ho lavorato con dei direttori di casting.

Sai, la prima decisione che abbiamo preso è stata quella di fare un casting su dei ragazzini che avessero già avuto esperienze recitative, quindi ci siamo mossi tramite agenzie. Questo per due ragioni.

La prima era che avevamo poco tempo. Fare uno street casting e poi portare i ragazzini scelti a fare quello che hai visto richiedeva veramente toppo tempo e troppo lavoro. Abbiamo cercato dunque qualcuno che avesse una conoscenza del filtro e del registro, che sapesse cosa voleva dire fare l’attore: “uscire dai miei panni e vestirsi con quelli di un altro.”

La seconda è che il ruolo richiedeva anche lo sfondamento di una certa timidezza tipica di quell’età, soprattutto nelle manifestazioni sessuali. La cosa si complicava ulteriormente perché a farlo dovevano essere dei maschi. Il ragazzo tredicenne si nasconde e ha paura di raccontare qualsiasi cosa della propria intimità.

Abbiamo dunque incontrato parecchi ragazzi, sia in casting singoli che in coppia, e nel provare le scene abbiamo fatto esercizi e giochi, soprattutto per orientarci sul corpo e meno sul parlato. Alla fine Simone e Mattia mi hanno colpito da subito ed in più si sono scelti a vicenda e questo per me era importante.

Da lì li ho massacrati di lavoro e abbiamo provato tanto. Sul set abbiamo girato sempre con due macchine da presa in contemporanea e questo mi ha salvato perché mi ha permesso di rubare due cose alla volta.

Io mi sono divertito un sacco, spero anche loro.

Le variabili dipendenti

Foto di Angelo Palombini

Brevemente mi racconti il percorso produttivo de Le Variabili Dipendenti?

Girato a luglio 2021, cinque giorni di riprese. La preparazione è durata parecchio, tra il casting, le location ecc.. Un mese e mezzo tutto direi. Montaggio direi tre mesi buoni. Sono i tempi del CSC, ci mancherebbe.

La troupe era composta interamente da studenti. Io ho lavorato in gran parte con persone con cui avevo già lavorato, in primis con Mara Fondacaro, co-sceneggiatrice insieme a Elisa Pulcini, con la quale invece non avevo mai collaborato così come con il direttore della fotografia Simone Rossi. Con entrambi mi sono trovato magnificamente.

La parte bella è e rimane sempre e comunque la preparazione, in cui immagini, crei, fantastichi e ti autobombardi di film e stimoli.

Se ci sono, quali sono stati i tuoi riferimenti cinematografici?

Questa volta non li avevo o quanto meno non ho avvertito la necessità, nella fase di preparazione, di fare un riferimento specifico, anche a chi lavorava con me. Forse perché partivo da un materiale molto personale.

Mi è stata fatta notare una possibile influenza di Xavier Dolan, complimento che io prendo e porto a casa volentieri, ma anche se fosse non era voluto. Il film che mi sono visto molte volte nelle primissime fasi di lavoro è un film canadese chiamato Genèse di Philippe Lesage, soprattutto per le ottiche e per i movimenti di camera.

Qualcosa in cantiere? I tuoi progetti futuri?

Io e la sceneggiatrice con cui ho scritto sia A fior di pelle che Le Variabili Dipendenti, [la sopracitata Mara Fondacaro] abbiamo scritto il trattamento di un lungometraggio, che stiamo facendo leggere.

Quindi dita incrociate e speriamo bene.

Quindi sei diventato grande?

Spero di non esserlo mai.

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