Cry Macho – Ritorno a casa, la recensione: Take me home, messican roads

cry macho - ritorno a casa

Nel percorso filmico nato dalla collaborazione con lo sceneggiatore Nick Schenk, inaugurato dal meraviglioso Gran Torino nel 2008, Clint Eastwood ha raccontato il rapporto con la sua senilità, sviscerata in vari significanti / eco del suo pensiero cinematografico, rappresentati da vari personaggi differenti, ma sempre aventi un minimo comune denominatore. Questo percorso è accompagnato, in particolar modo, da una riflessione profonda e matura sulla parte reazionaria del pensiero politico americano e su una destrutturazione di quel maschilismo etichettato sempre di più come “tossico” al giorno d’oggi, ma che ha spesso identificato i personaggi di cui il cineasta è stato anche volto nel corso della sua lunga carriera. Non si può non partire da questo ultimo punto nella recensione di Cry Macho – Ritorno a casa, fuori concorso al Torino Film Festival 2021, e basta anche solo il titolo a capire perché, dato l’accostamento di due termini in naturale controtendenza.

Adattamento del romanzo omonimo del 1975 scritto da N. Richard Nash (scomparso nel 2000), frutto di un percorso travagliato, com’è stata travagliata anche la gestazione della sceneggiatura (più volte riadattata e più volte abbandonata, nonostante il successo che riscosse il romanzo), la 39esima pellicola diretta dall’immortale Eastwood sceglie una via diversa per affrontare il discorso, percorrendo una strada più cadenzata, intrisa di una dolcezza nostalgica, a tratti malinconica e sicuramente ironica, al posto di un’aggressività e una potenza molto marcata come quella di un altro straordinario titolo della sua lunga carriera come Gli Spietati.

Una pellicola che ha il suo cuore in una riappropriazione della figura del cowboy, spogliato del suo immaginario classico alla “strong and silent type“, come direbbe Tony Soprano.

Sullo sfondo sempre uno sguardo alla trasformazione del Sogno americano di oggi, più contradditorio, ricattatorio e ambiguo, al quale però le nuove generazioni non devono sottrarsi, a patto che qualcuno più anziano sia in grado di fornire loro gli strumenti adatti.

Al di qua e al di là del confine

Texas,1979. Mike Milo (Eastwood) è una vecchia gloria del mondo dei rodeo, divenuta, in seguito ad un incidente sul lavoro, un addestratore di cavalli di prima scelta, ultimo step prima di cadere nuovamente nel baratro a causa di un lungo periodi difficoltà, condito da abuso di pillole, alcool e tragedia familiare annessa. Tutto ciò che gli rimane e tutto ciò che ha conservato lo deve al suo scontroso capo, il ricco Howard Polk (Dwight Yoakam), il proprietario del ranch per il quale Mike ha sempre lavorato.

Come anche in Il corriere – The Mule, la sceneggiatura di Nash separa l’introduzione dal resto della vicenda con un balzo temporale, che ci porta in questo caso ad un anno dopo, quando Polk si presenta a casa di Milo chiedendogli di ritrovare suo figlio Rafo (Eduardo Minett) in Messico e condurlo da lui. Per il motivo sopra elencato il “cowboy” non può rifiutarsi e dunque parte alla ricerca, trovando un ragazzo sperso tra le debolezze di una figura materna che prima lo respinge e poi lo rivendica con violenza e un padre che non lo ha mai veramente voluto. L’unico suo reale compagno di vita è un gallo campione di combattimenti clandestini, che il ragazzo chiama Macho.

La prospettiva di andare negli Stati Uniti nel ranch alletta Rafo, dopotutto “It’s every boys’ dream!“, come dice anche papà Howard, ma il ritorno di fiamma materno complicherà e non poco le intenzioni della strana coppia.

cry macho - ritorno a casa

Il viaggio per uscire dal Messico si trasforma, come nelle migliori tradizioni, in un incontro/scontro generazionale, sullo sfondo di un paesino immortale.

La sosta poco prima del confine in quel pugno di case al di fuori del tempo si trasforma presto in quella terra promessa dell’immaginario western, la frontiera oltre l’industrializzazione, in cui sono le piccole cose che contano e in cui gli antichi valori ritornano ad essere quelli da recuperare, anche per le nuove generazioni. In perfetta armonia con la poetica di Eastwood, dopotutto.

Ma se una sosta oltre il tempo può andare bene per un vecchio cowboy, lo stesso non può valere per un giovane che ancora deve scoprire se stesso. A lui è riservata la sfida del Sogno Americano, da affrontare lasciandosi alle spalle l’idea infantile e fuorviante di cosa significhi diventare uomini.

Un altro Eastwood

Clint Eastwood, baciato da una, ormai si può dire, forma molto rara di longevità artistica, torna sullo schermo ancora una volta, riappropriandosi di nuovo del suo pensiero / cinema nell’affrontare la senilità sullo schermo, soprattutto la sua personale, senza però disdegnare l’idea di sfondare i confini e renderla universale.

Il suo continua ad essere infatti uno stile quasi provocatorio, in cui non solo dimostra di essere assolutamente a proprio agio anche in passaggi poco credibili a livello recitativo per un attore della sua età, decide di ostentare, forzando quelle scene e quei passaggi, improvvisandosi, ironicamente, ancora latin lover, ballerino e domatore di cavalli. Un elemento che non stona perché inserito in una pellicola che ha una dimensione senile, non solo per il ritmo della narrazione, ma anche per l’asciuttezza della sceneggiatura.

Clint Eastwood

Non una pellicola testamento, perché più che di pellicola bisognerebbe parlare di periodo filmografico, ma una reinvenzione di un road movie di formazione, in cui la storia di un ragazzo si intreccia con quella di riscatto di un uomo anziano, disincantato e in cerca di una nuova dimensione.

Qui si innesta la destrutturazione del macho, topos tipico del cinema eastwoodiano, processo che trasforma il titolo quasi in un invito allo spettatore, evidenziato in modo esplicito solamente una volta, durante un monologo urlato come un un rimprovero per bocca del personaggio interpretato dal cineasta stesso.

Non una pellicola testamento, ma un altro titolo significativo nella carriera di Eastwood, perfettamente coerente nel suo insieme e con gli altri (con i suoi pregi e i suoi difetti), e che vanta un recupero metacinematografico di immaginari a lui molto cari. Ciò che stona invece sono alcuni passaggi di sceneggiatura, specialmente all’inizio e alla fine, deboli soprattutto nelle intenzioni, e la scrittura di alcuni personaggi, che ballano troppo su una schiettezza funzionale facilmente sfociabile in una monodimensionalità un po’ troppo estraniante.

Non una pellicola testamento, quindi, Cry Macho – Ritorno a casa, ma un’altra pellicola, perché ancora non siamo pronti a salutare Clint Eastwood, mente aperta, coraggiosa e giocosa, come poche.

Cry Macho – Ritorno a casa è al cinema dal 2 dicembre.

70
Cry Macho - Ritorno a casa
Recensione di Jacopo Fioretti Raponi

Cry Macho - Ritorno a casa, adattamento del romanzo omonimo di N. Richard Nash e presentato in Italia fuori concorso al TFF, è la 39esima pellicola di Clint Eastwood e la terza frutto della collaborazione con lo sceneggiatore Nick Schenk. Un road movie che intreccia un racconto di formazione giovanile con uno di riscatto senile, basato su una destrutturazione del maschilismo tipica del cinema eastwoodiano, sempre con una riflessione politica. Al centro del titolo un giocoso scontro generazionale in una dimensione da western senza tempo, che permette al regista/interprete di mettere in scena ancora una volta la sua vecchiaia in maniera ironica e provocatoria. Un film dal ritmo funzionalmente compassato, valido e coerente nella filmografia del cineasta, ma più debole dei recentissimi per qualche debolezza di troppo in sceneggiatura.

ME GUSTA
  • Un valido ulteriore tassello nel destrutturazione del maschilismo iniziata da Eastwood tempo fa.
  • Una messa in scena quasi provocatoria della senilità, affrontata con sfrontata ironia.
  • Riproposizione credibile della dimensione idilliaca del cowboy classico.
  • Il cinismo della riflessione politica e la dolcezza del confronto generazionale.
  • L'entusiasmo e la brillantezza di Eastwood non sono ancora tramontati.
FAIL
  • Qualche debolezza nella sceneggiatura, soprattutto nella parte iniziale e finale.
  • Monodimensionalità di diversi personaggi e non solo secondari.