Era il 1997 quando uscì I vesuviani, film collettivo, nato dallo sforzo di diversi autori napoletani che voleva sancire la rinascita del cinema partenopeo, rivendicando per esso una nuova centralità nella cultura cinematografica italiana del periodo. Cosa poi neanche troppo lontana dalla realtà. Registi, sceneggiatori, nomi che poi proseguirono i rispettivi percorsi scrivendo storie di carriere anche profondamente diverse. Mario Martone era uno di loro. Lui attirò attenzione di critica e pubblico già prima con Morte di un matematico napoletano (debutto sul grande schermo di Servillo) e toccò poi una prima vetta artistica con Noi credevamo, film che sancì la consacrazione della sua visione non solo autoriale, ma anche della sua idea di cinema come mezzo di divulgazione popolare. Ci pensò Teatro di guerra a fugare i dubbi sull’altro suo grande amore, che portò a Venezia due anni fa con il non riuscitissimo Il sindaco del rione sanità (fondamentale però per la sceneggiatura del film di cui parliamo, scritta con moglie Ippolita Di Majo) e che ripropone quest’anno, a Venezia78, in un contesto molto azzeccato.
Nella recensione di Qui rido io, un uscita nelle sale il 9 settembre vi parliamo della seconda vetta della carriera di Martone. Biopic anomalo sulla famiglia De Filippo/Scarpetta, incentrato sulla figura titanica di Eduardo Scarpetta (non lui, ma quello che venne prima), interpretato dal bravissimo Toni Servillo, e sul suo famoso contenzioso con il vate, Gabriele D’annunzio. Trovata narrativa che permette alla pellicola di diversificare obiettivi e sentieri e a Martone di tornare al suo modo di fare cinema, riflettendo sul linguaggio teatrale, sul peso della maschera, sui cambiamenti culturali nelle questioni di genere, sulle ipocrisie di alcune istituzioni, sulle etichette artistiche. Sempre informando. Mezzo cinematografico come documento storico, materiale didattico (non come Il giovane favoloso, fortunatamente).
Tutto bilanciato, tutto meravigliosamente cinematografico e splendidamente teatrale. Una commedia per raccontare una tragedia, come facevano i De Filippo, parlando però di ciò che non si vede e non si è mai visto. Di ciò che si cela dietro le tende e le porte di palazzo Scarpetta e le quinte del palcoscenico, magari quelle del Teatro San Carlino, dove cedette il cuore di Petito.
“Io l’agg ucciso, ‘a Pulcinella”
Tra la fine del 1800 e l’inizio del secolo dopo Eduardo Scarpetta era un titano del teatro italiano. Il commediografo di maggior successo del nostro Paese, nel privato, un accentratore e un divoratore, di talenti, di anime, di vite e di donne. Un personaggio dal successo famelico nonché assassino di Pulcinella, la maschera del teatro napoletano che, con la scomparsa di Antonio Petito, fu soppiantata e poi rovesciata da Felice Sciosciammocca. Colpo di stato coincidente con il passaggio dal teatro di maschera a quello di carattere.
Martone inizia subito da lì, dal tributo all’attore, al teatro e alla maschera (santissima trinità), portandoci direttamente sul palcoscenico, dove la compagnia di Scarpetta sta mettendo in scena Miseria e nobiltà, ma non senza aver lasciato spazio ad una introduzione ancora più significativa, un preambolo più “moderno”. Come una minaccia (o una promessa) da un futuro prossimo, sempre lì a Napoli, di cui si riparlerà nel finire dell’era. Giusto in tempo per renderla immortale.
Nel gioco a rincorrersi dal teatro alla vita viene narrata la figura di Scarpetta e la sua, numerosissima famiglia, composta dai 3 figli legittimi, sua moglie e le sue due amanti, entrambe tra l’altro parenti della prima, con la rispettiva prole, tra cui anche Titina ed Eduardo De Filippo (solo dopo arriverà uno straordinario Peppino).
Una corte dei miracoli che gira intorno al talento di un uomo che non finisce mai di essere Sciosciammocca, pur non svestendo mai del tutto i panni di Scarpetta. Un concetto trasferito anche nel linguaggio cinematografico, tramite una messa in scena di interni, una regia quasi da camera e una recitazione volutamente enfatizzata, rimandante a quella sul palcoscenico.
Leitmotiv che da modo al film di riservarsi un ulteriore spazio, prettamente cinematografico, oltre il teatro, elevando il mezzo filmico a lente includente di un dietro le quinte spesso intravisto, ma mai nascosto, in cui possiamo vedere l’uomo nel momento in cui la maschera cade definitivamente.
Uomo egoista, maschio molestatore, padre indisponente e non accogliente, attore e datore di lavoro dispotico e soffocante.
Martone dona ad ognuno dei personaggi una grande valenza nella pellicola e una grande fetta di scrittura, dalle donne della casa ai figli, andando dal primogenito, Vincenzo (ci sarebbe anche Domenico, ma per lui vale un discorso differente) fino ai più piccoli, interpretati alla meraviglia dai giovanissimi attori (ennesima conferma, se non fosse bastato Anna di Ammaniti, della grande fucina di nuovi talenti italiani). Una menzione speciale va ovviamente però a Servillo, bravissimo, ma questa non è una novità, e anche perfettamente nel film, mai esuberante, mai sopra le righe (un eufemismo per la mimica che occorre a portare a casa il suo ruolo), un equilibrista tra maschera e uomo.
“Gli stati” dell’arte
Il biopic di Eduardo Scarpetta diventa nelle mani di Mario Martone anche un modo di portare in scena l’evento che frenò la carriera del commediografo, cioè la causa per plagio intentata contro di lui da D’annunzio dopo l’uscita della parodia della sua opera, Il figlio di Iorio. Una causa che durò 3 anni e che diede modo di riflettere sulle differenze in merito alla visione dell’arte in quel periodo, quando tantissimi nuovi scrittori ed autori, anche molto importanti, come Salvatore Di Giacomo o Roberto Bracco, si schierarono più contro il teatro di Scarpetta che contro l’uomo in sé, etichettandolo come vile arte popolare che doveva fare spazio ad una espressione più impegnata, più cervellotica e quindi, di riflesso, più meritevole.
La bravura di Martone e della Di Majo è di creare questo corto circuito con il presente, portandolo sullo schermo non solo tramite le accuse di D’annunzio e accoliti, ma anche attraverso l’atteggiamento stesso di Scarpetta verso la sua arte, da subito caricato di un senso di rivalsa che tradisce insicurezza nei confronti di un futuro alleato solo se controllabile (vedi: frigo francese).
Il tutto ancora nella cornice cinematografica, resa nella sua forma più alta e democratica, perché in grado di raccontare e di andare oltre le differenze. Una denuncia / riflessione sulle logiche della censura e sulle classificazioni puramente teoriche tra linguaggi di serie A e serie B, sottolineata, suo malgrado, dallo stesso Benedetto Croce (Lino Musella), che difenderà Scarpetta, ma inchiodandolo alle colpe di un tempo tiranno, che però non per forza è nel giusto. Il tempo si può ingannare.
La salvezza è il teatro ci dice il giovane Eduardo, ma è anche il cinema, ci dice Martone, perché entrambi si rifanno alla vita.
Una battuta equivoca sul palcoscenico può raccontare la realtà di una eredità faticosa, così come può raccontarla la divisione delle porzioni a tavola. Mezzi per raccontare appunto, ma anche per non dimenticare. La vita poi incombe sempre e sempre sembra poter sfuggire a ogni rappresentazione, ma non può prescindere dall’arte (tutta l’arte), sua compagna adorante, per essere da lei reinterpretata e per essere da lei fissata. Per sempre. Dante è eterno no?
La celebrazione di un trionfo, così concludiamo la recensione di Qui rido io, uno dei film più belli del cinema di Martone, arrivato in un momento e in un festival particolarmente topico per il movimento napoletano. Una pellicola intelligente, che parla di tante cose e non sbaglia quasi mai nei modi e nei toni in cui decide di farlo.
Qui rido io è al cinema dal 9 settembre con 01 Distribution
Potrebbe anche interessarti:
Segui la 78esima Mostra d’Arte Internazionale del Cinema di Venezia, dal 1 all’11 Settembre, con noi sull’hub: leganerd.com/venezia78
Qui rido io, l'ultima pellicola di Mario Martone, presentata a Venezia78, segna un altro apice della carriera del regista napoletano, il quale, portando in scena un biopic di Eduardo Scarpetta, mette in piedi una riflessione sul teatro attraverso il mezzo filmico. Titolo emozionante e brillantemente scritto, improntato su di una figura titanica, a metà tra maschera e umanità, a capo di una delle famiglie più importanti per l'arte drammaturgia italiana e, attraverso di essa, in grado di interrogarsi su quale sia il valore dell'arte e in che modo può essere etichettata o limitata. O se è lecito. Protagonista un sempre splendido Toni Servillo.
- La riflessione sul teatro attraverso il mezzo cinematografico.
- Ottimo tutto il cast, specialmente i più giovani e il protagonista, Toni Servillo.
- La scrittura di Scarpetta, diviso tra dimensione umana e maschera.
- Le soluzioni visive che accompagnano la dimensione teatrale sul grande schermo.
- Il discorso che nasce dalla causa per plagio come ottimo corto circuito sulle diversificazioni dell'arte.
- Chi si aspetta che il focus sia la scrittura delle commedie rimarrà deluso.
- Il film dà per scontate delle conoscenze nella narrazione della storia della famiglia Scarpetta/De Filippo.
- Ci sono un paio di momenti in cui la regia esce dal registro adottato per tutto il film.