Apple avrebbe rinunciato ai suoi Dogmi per far felice la Cina

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Un approfondito e interessante report del The New York Times sottolinea come Apple abbia del tutto rinunciato ai propri Dogmi di difesa della policy e della privacy, per quanto riguarda i rapporti con la Cina. Era ben noto che l’azienda avesse consegnato per vie traverse le chiavi del suo iCloud locale al Governo di Beijing, tuttavia lo spaccato offerto dal quotidiano aggiunge elementi che fino a ora erano passati inosservati, elementi che descrivono un rapporto di profonda sudditanza.

L’elemento più interessante dell’indagine ci viene offerto fatalmente da Guo Wengui, losco individuo di cui abbiamo scritto appena ieri. Guo è un imprenditore cinese auto-esiliatosi a New York che ha fatto della misinformazione il suo core business, occupando una parte significativa del suo tempo ad attaccare il Partito Comunista Cinese con accuse di corruzione estremamente accattivanti.

L’uomo mira a raggiungere – e mesmerizzare – i dissidenti cinesi, nonché ad attirare l’attenzione dei contestatori interni alla nazione che si dimostrano assetati di letture opposte a quelle offerte dall’establishment.

Nella sua battaglia per l’attenzione, Guo ha cercato di lanciare sull’App Store cinese un’applicazione dedicata. Non ha fatto in tempo a compilare i carteggi che la l’Amministrazione del Ciberspazio della Cina ha provveduto a contattare Apple, chiedendo che lo strumento digitale venisse sradicato sul nascere.

Nel febbraio del 2018, il nome di Guo Wengui è stato inserito in una “pagina wiki delle rimozioni dal App Store cinese”, ovvero in una lista che include una lista di argomenti che vengono considerati taboo e che meritano l’immediata bocciatura di qualsiasi software. Nell’elenco presenziano anche il Dalai Lama, la piazza Tienanmen e l’indipendenza del Tibet.

L’imprenditore, il quale non manca certo di furbizia, ha ripresentato la medesima app a distanza di qualche mese, ma con altro nome, svicolandosi dalla censura. Tre settimane dopo, Trystan Kosmynka, individuo a capo della sezione App Review, era furibondo.

“Colpevole” di una simile leggerezza era un certo Trieu Pham il quale, interrogato dai superiori, si è difeso facendo notare che l’app non violasse alcuna policy, suggestione che il superiore ha scartato calorosamente, facendo notare che l’autore fosse critico nei confronti del Governo e che, quindi, non potesse essere approvato. L’applicazione è stata rimossa e Pham è stato licenziato a causa del suo “scarso rendimento”.

Stando a Phillip Shoemaker, dirigente dell’App Store dal 2009 al 2016, Apple ha schierato in Cina un team di avvocati con cui insegnare ai dipendenti quali argomenti evitare, argomenti che, almeno all’epoca, erano selezionati per intuizione e non erano necessariamente legati agli obblighi di legge.

La situazione è così estrema e automatica che la censura delle app partiva agilmente, bastava solamente che il Governo alzasse la cornetta del telefono. Secondo alcuni hacker, la realtà sarebbe ancora più drammatica: Patrick Wardle, ex agente della National Security Agency, riporta che gli iPhone cinesi crashassero non appena si fosse fatto uso dell’emoticon della bandiera taiwanese.

 

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