Una recente ricerca ha analizzato la disinformazione sui social nell’arco del 2020, identificando i molti limiti di Twitter e Facebook.
Che le fake news abbiano recentemente spopolato sulla Rete è cosa nota: tra pandemia, 5G ed elezioni presidenziali statunitensi, i divulgatori di fandonie hanno potuto racimolare tutte le attenzioni che volevano. Un’indagine della think tank americana German Marshall Fund ha tuttavia sottolineato come i principali megafoni promotori di disinformazione siano tutti dotati di profili social verificati.
Su Twitter, gli account con la “spunta blu” hanno raggiunto nell’ultimo trimestre del 2020 livelli record, nel diffondere articoli e contenuti estrapolati da siti notoriamente fautori di fake news. Su 155 milioni di tweet “bufalari” analizzati, 47 milioni sono stati diffusi da individui autenticati.
Seppur costituiscano un numero tutto sommato minoritario, questi profili sono anche quelli dotati di maggiore audience e sono in grado di diffondere disinformazione con la massima efficacia.
Anche se gli account verificati costituiscono solamente una parte dell’utenza di Twitter, molti di questi includono i profili più seguiti. Gli account verificati sono tra i maggiori vettori di disinformazione,
sostiene senza sfumature interpretative il report.
Per quanto concerne Facebook, la situazione registrata è diversa, ma non meno preoccupante. Il social fondato da Mark Zuckerberg ha sì imposto una stretta sulla condivisibilità dei siti di disinformazione, ma anche su quelli che invece sono riconosciuti come affidabili.
In pratica una limatura indiscriminata e che ha colpito interi poli tematici, con la sola differenza che le fake news hanno visto crescere significativamente il loro tasso d’interazione, tasso che rispetto al 2016 risulta oggi raddoppiato.
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