La nostra recensione di Tornare a vincere, il nuovo film di Gavin O’Connor con protagonista Ben Affleck, che qui prende le redini di un ruolo quasi autobiografico.

Scrivere la recensione di Tornare a vincere senza stendere un palese parallelismo con la vita privata di Ben Affleck è quasi impossibile. A partire dal titolo, e poi dal soggetto, il nuovo film di Gavin O’Connor si imposta – volente o nolente – come una estensione metacinematografica dell’interprete del suo protagonista.

Dopo una recente ricaduta nell’alcolismo, che è difficile non collegare anche alla ricezione del suo ruolo in Batman v Superman: Dawn of Justice e alla generale debacle di Justice League, l’attore infatti interpreta Jack Cunningham, un operaio edile alcolista trovatosi ad allenare una modesta squadra di basket di un liceo locale.

I parallelismi non finiscono qui, ed è facile pure fare collegamenti con il recente divorzio con Jennifer Garner, tra le altre cose, ma non siamo un giornale di gossip. Mi limito quindi a riassumere il discorso dicendo che Tornare a vincere è palesemente un film dove il confine tra Ben Affleck e il suo personaggio è più che sfocato.

Non a caso la sua performance convince e tiene in piedi una struttura costruita interamente sul suo ruolo, tanto centrale da non lasciare spazio ad altro nella sceneggiatura abbastanza scolastica e priva di particolari guizzi.

Prima di continuare con la recensione vi ricordo che Tornare a vincere ovviamente salta la sala vista l’attuale emergenza causata da COVID-19. Il film è quindi già disponibile digital sia per noleggio che per acquisto su Apple Tv, Youtube, Google Play, TIMvision, Chili, Rakuten TV, PlayStation Store, Microsoft Film & TV, mentre solo per il noleggio su Sky Primafila, Infinity e VVVVID.

 

 

In passato stella del basket del liceo cattolico Bishop Hayes, Jack Cunningham (Ben Affleck) è un operaio edile totalmente annichilito dal proprio divorzio con sua moglie Angela (Janina Gavankar) e dal trauma che lo ha innescato, ad appena un passo dalla completa autodistruzione. Proprio sull’orlo del baratro senza fondo di un alcolismo implacabile, Jack si trova offerto il ruolo di allenatore della stessa squadra in cui aveva un tempo giocato e vinto, ora incapace di conquistare una singola partita.

Fin qui tutto piuttosto standard per il genere: la squadra debole con qualche testa calda che affronta un percorso di formazione, il coach illuminato che risolleva il team da una sorte data per certa, e così via. E quella di una scrittura su binari già rodati non è un’impressione sbagliata, anzi.

Il racconto gioca sul sicuro e sa molto di già visto

Come ho anticipato prima, il racconto di Tornare a vincere è un qualcosa che sa molto, moltissimo, di già visto, dall’inizio alla fine, e anche i temi affrontati sul piano drammatico dopotutto giocano molto sul sicuro, evidenziando un lavoro di scrittura circoscritto al compitino. Eccetto un paio di soluzioni brillanti, che gestiscono al meglio la chiave di volta per la comprensione del protagonista, non aspettatevi nulla al di fuori dell’ordinario.

 

Tornare a vincere

 

L’ultima fatica di Gavin O’Connor rimane quindi nella safe zone di mille storie simili e non si sbilancia quasi mai, terminando però con un finale valido e malinconico (pure se compresso e accelerato) che regala un gran senso di chiusura e riflette un lento e progressivo ritorno alla vita, non riducibile ad una veloce e banale parentesi di riscatto.

Tutto quanto detto è in funzione esclusivamente della volontà di inquadrare al meglio la psicologia di Jack, vista l’evidente intenzione della direzione di O’Connor e della sceneggiatura di Brad Ingelsby di disinteressarsi quasi completamente dei vari comprimari o in ogni caso di qualsiasi distrazione rispetto alla corposa presenza scenica di Affleck. Quel poco che viene portato avanti al di fuori di Jack assolve all’unico scopo di scandagliarlo.

 

Tornare a vincere

 

Tornare a vincere sceglie di mettere a fuoco solo il suo protagonista

Tornare a vincere esiste per concentrarsi dunque solo sulla singola figura di un uomo a pezzi, con il grande merito di farlo evitando per la maggior parte eccessiva retorica e ridondanza. La caratterizzazione di Cunningham è ben centellinata e cadenzata; passa in primis per per i suoi tentativi di affogare il dolore, per una manciata di linee di dialogo, per il suo atteggiamento da allenatore/da educatore e per la ripetitività della sua routine da alcolista. Routine presentata come il resto da una buona regia, puntuale ed eloquente, specialmente nel rendere e sottolineare i momenti più rilevanti del rovinoso saliscendi dell’unico personaggio a fuoco nelle gerarchie del film.

Ben Affleck insomma è il vero pozzo gravitazionale di tutto quello che funziona nel lungometraggio di O’Connor e delle stesse intenzioni di una produzione simile. L’attore californiano chiaramente trasmette quella che è un’esperienza vissuta e sentita, e la sua ottima prova è senza dubbio il primo canale di empatia verso lo spettatore. Empatia che il film cerca perlopiù con l’accompagnamento (furbo) del sonoro e talvolta con qualche intuizione visiva, mantenendo la dignità di quanto rappresentato e scansando spesso (non sempre, per forza di cose) il “patetico”.

Vedere Ben Affleck interpretare sostanzialmente sé stesso in Tornare a vincere mi ha ricordato, con le dovute differenze, una partecipazione personale simile a quella di Shia LaBeouf in Honey Boy (scritto come parte della riabilitazione dell’attore), anche se la recitazione che ne consegue raggiunge decisamente un minore ordine di grandezza.

Se avevate poi dubbi sull’anima sportiva del film – almeno io li avevo, non seguendo il basket -, posso rassicurarvi dicendo che in realtà questa è solo una leva strumentale del film, dedito ad affrontare tutti altri punti e questioni. Non c’è insomma necessità di un vero e proprio interesse verso lo sport, qui solo un mezzo per approfondire sotto traccia il protagonista e la sua disperata volontà di tornare a vincere.