Alla 14ª edizione della Festa del Cinema di Roma abbiamo avuto il piacere di vedere il film biografico dedicato all’ultima parte della vita di Judy Garland, più nota per il ruolo di Dorothy ne Il mago di Oz. Un’interpretazione mozzafiato è la linfa del racconto di chiusura di una parabola tra miseria e successo.
Quest’anno, in quell’Auditorium che ogni anno ospita la consueta celebrazione romana del cinema, abbiamo trovato due film tra loro molto imparentati; estremamente differenti nel linguaggio visivo, nelle performance, tuttavia allo stesso tempo calibrati in parte sulla stessa anima e riflessione. Honey Boy e Judy sono entrambi lungometraggi diretti a trattare del costo della celebrità, dei suoi connotati tossici, delle sue ripercussioni sul tessuto familiare e personale, nel primo caso da una prospettiva moderna, nel secondo addirittura partendo dal remoto periodo precedente al secondo dopoguerra e ai cambiamenti della New Hollywood.
Al posto di Shia LaBeouf, Judy – diretto da Rupert Goold – ruota tutto intorno ad una logorata Judy Garland, ben lontana dal celeberrimo ruolo di Dorothy ne Il Mago di Oz o dal suo ritorno in A Star Is Born (una delle diverse iterazioni dello stesso soggetto, in questo caso del 1954), costretta ad abbandonarsi ad una vita perlopiù nomade e mano a mano solitaria.
Accompagnate da una Renée Zellweger in prossimità di una candidatura agli Oscar, le note di una delle maggiori celebrità della storia di Hollywood raggiungono il loro personale epilogo. La disperazione di una madre, la catarsi del palcoscenico, l’ingenuità infantile del sogno di amore e speranza, da qualche parte, oltre l’arcobaleno.
1969, Judy Garland (Renée Zellweger) è solo uno spettro di un tempo ormai scomparso, uno star system preistorico che l’ha rigurgitata, marchiata ed abbandonata, ridotta ad elemosinare cifre ridicole da piccoli spettacoli notturni e addirittura a coinvolgere i due figli nelle proprie esibizioni. I tempi della Dorothy di Over the rainbow appaiono lontani anni luce, e l’attrice è costretta dunque ad abbandonare i propri figli al precedente marito, per imbarcarsi in un viaggio in Europa, in Inghilterra, per guadagnare le risorse necessarie a rimettere in sesto una vita deragliata.
Complici un forte abuso di sostanze ed un umore quantomeno instabile, il tour londinese va incontro a numerosi inciampi, alternato nella schizofrenia tra esaltazioni improvvise e profondi abissi di depressione, causati da aspettative quasi impossibili da rispettare e dalle cicatrici di un’infanzia semplicemente assente.
Per sottolineare questa relazione tra ciò che era e ciò che è, il montaggio introduce frequenti stacchi centrati sugli abusi psicologici perpetrati sulla piccola Judy Garland, costretta ad assurde privazioni di sonno ed alimentazione e forzata ad un’esistenza alienata, il tutto per il benestare della avida Metro – Goldwyn – Mayer.
Organizzato su questa suggestione temporale, Judy è un biopic che sì vuole rendere merito al cristallino talento di una delle maggiori figure dell’intero intrattenimento, ma si orienta anche e soprattutto a scandagliarne la statura umana, limitando le brillanti e pompose frazioni di canto a parentesi nell’economia del racconto. Sono questi i momenti tecnicamente più virtuosi di un’estensione appena inferiore al paio d’ore.
Grazie a movimenti di macchina graduali e una fotografia eloquente, Goold mette al centro dei riflettori l’interpretazione di Renée Zellweger, che qui canta direttamente le tracce della diva e riesce nell’impresa di fare da tramite tra messa in scena e pubblico.
Non ci vergogniamo nel dire di aver gettato qualche lacrima sulle ultimissime battute, vista anche l’intelligente volontà della sceneggiatura di mantenere il meglio del repertorio per la chiusura. Siamo davvero certi della candidatura della Zellweger ai prossimi Oscar 2020 come migliore attrice protagonista, e siamo anche disposti a credere nella possibilità di vittoria dell’ambita statuetta.
Nel caso di Darcy Shaw, la piccola Judy Garland, non si raggiungono certo i livelli della controparte adulta, ma vivono in ogni caso tutte quelle sfumature di innocenza che a sprazzi emergono dall’ingenuità di una donna al termine della propria carriera. Matrimoni improvvisati, errori reiterati, un’emotività spezzata da precedenti eccessi ed assurde abitudini comportamentali, la Judy del 1969 è il riflesso di quella – al vertice – del 1939, la prima intrappolata dal proprio passato, la seconda ingabbiata dal proprio futuro. É un cane che si morde la coda, un ciclo destinato a consumarsi, senza colpevolezza, eppure incapace di una definitiva interruzione.
Colei che un tempo si immedesimava nella Dorothy del magico mondo di Oz, ora splende come un simbolo di speranza sul viale del tramonto, ancora tuttavia capace di indurre il sogno in qualsiasi individuo, specie chi in cerca di una luce per emergere dalla più tetra oscurità.