Pur partendo da un concept non particolarmente originale, Gemini Man di Ang Lee promette di perseguire percorsi tecnologici coraggiosi per il medium cinematografico, una sfida per la distribuzione e la stessa percezione del pubblico. Abbiamo visto 20 minuti del film in anteprima ed un Q&A esclusivo, cerchiamo di capirne di più.
Gemini Man è stato senza dubbio un film dalla produzione estremamente complessa; approcciato per la prima volta al termine degli anni ’90, accantonato da Disney per le pionieristiche tecnologie coinvolte, riscritto di continuo ed infine adottato da Skydance e Paramount solo di recente. D’altronde il concept del film ora nelle mani di Ang Lee prevede nelle intenzioni un clone interamente costruito in CGI, cosa ovviamente preclusa alla realtà venti anni fa ed ora resa finalmente possibile.
Assunto Will Smith come volto centrale dell’operazione – guidata anche da Jerry Bruckheimer, produttore tra gli altri del franchise di Bad Boys -, la pellicola ripristina ed amplifica le prospettive originali, accelerando a pieno ritmo sul maggiore impegno tecnologico possibile.
Attraverso una chiave esplicita quasi su un livello metacinematografico, Gemini Man sviluppa il tema del progredire scientifico tanto su un piano tecnico quanto su quello della scrittura, osando ai limiti di quanto permesso da una anestetizzata distribuzione. Sì, perché la nuova opera di Ang Lee verrà diffusa nelle sale aderenti in 3D a 60 frame per secondo, contro i 24 hertz usuali dello standard tradizionale.
Invitati da 20th Century Fox Italia, abbiamo avuto occasione di assistere ad un Q&A registrato esclusivo e provare il curioso formato con 20 minuti di clip . Il risultato è stato davvero sorprendente. Vi ricordiamo che Gemini Man arriverà nei cinema dal 10 ottobre.
Possiamo tranquillamente iniziare a descrivere Gemini Man come la scommessa tra le scommesse. In primis per il puntare sull’immagine stereoscopica, ostracizzata da esercenti e mercato in seguito a debacle costanti e limitata ad interventi mediocri in post-produzione. In secondo luogo per inseguire l’avvenirismo di Ang Lee nel portare avanti la necessità dell’high-frame rate (fluidità superiore ai canonici 24 hertz), che potrebbe apparire grosso scoglio per la diffusione della pellicola nelle sale. Per ultimo – ma assolutamente non per importanza – per l’immenso carico di lavoro ruotato attorno all’interpretazione di Will Smith, che qui si trova rappresentato in due versioni, attuale e ventitreenne, in lotta tra loro.
Partiamo dall’impressionante operato di computer grafica modellato su Smith, che qui affronta una evidente difficoltà, sorta proprio dalla volontà di costruire il suo modello più giovane praticamente da zero, senza servirsi della cosiddetta tecnica del de-aging. Non si parla dunque di un semplice ritocco in post-produzione votato al ringiovanimento del singolo attore (lo abbiamo visto con Samuel L. Jackson in Captain Marvel o con Finn Wolfhard in IT: Capitolo Due), ma una vera e propria modellazione digitale dalle fondamenta del personaggio di Junior, clone dell’ormai invecchiato Henry.
Durante ogni scena di azione con la sua controparte ringiovanita Smith si trova quindi a combattere contro uno stunt-man, al quale viene poi sostituto in CGI il modello sviluppato sulla base soprattutto di una successiva performance capture dell’attore, con il supporto di filmati risalenti a progetti precedenti (ricordiamolo ne Il Principe di Bel Air, ad esempio).
La resa di questo clone – di nome e di fatto, in questo caso – su un livello banalmente tecnico ha dell’incredibile, e come detto sopra denota il notevole impegno della produzione nell’intrecciare virtuosamente il fil rouge dei temi trasposti e la tela dei mezzi impiegati, in un unico sforzo di immaginario condiviso.
Dalle tre clip che abbiamo avuto modo di vedere, anche lo sforzo del buon Will Smith nell’immedesimarsi in una versione più inesperta di sé stesso è da applaudire, visto pure il notevole impegno necessario per addentrarsi (in alcuni casi) decontestualizzato in una singola scena dopo averla già affrontata con un altro ruolo speculare.
Ang Lee nello specifico – proprio riferendosi ai filmati con protagonista un Will Smith all’alba della sua carriera – ha quindi chiesto all’attore di indirizzare la performance di Junior verso derive meno solide ed istrioniche, accentuando il distacco con l’Henry cinquantenne, specchio di uno Smith decisamente maturato. Una frazione in particolare della terza clip mostrata ci ha davvero colpiti per impatto drammatico e qualità di realizzazione, facendoci ben sperare su una probabile prova sensazionale del celebre protagonista di Men in Black, Indipendence Day e La ricerca della felicità.
L’aumento drastico della frequenza dei fotogrammi si instaura tra tutto questo alla perfezione nel percorso di innovazione che si pone ad essere leitmotiv di Gemini Man. Continuando imperterrito oltre il fallimento di Billy Lynn: Un giorno da eroe, che utilizzava la stessa tecnologia di frame rate in tandem con lo stereoscopico, Ang Lee insiste su questa visione di estetica che vede nella maggiore fluidità uno sbocco in grado potenzialmente di scuotere l’industria.
Le clip a noi mostrate difatti giravano come accennato sopra in un 3D 60 Hz (per chiarire, 60 frame per occhio e 120 in totale), contro invece la convenzionale frequenza a 24 Hz, standardizzato nel cinema da tempi immemori. In verità, un effetto simile si ottiene in molte delle televisioni presenti negli appartamenti domestici, le quali offrono l’infame opzione del tanto discusso effetto soap opera, che va a compensare il tasso di 24 frame per secondo incrementandolo artificiosamente per diminuire il motion blur. Il risultato in questi casi è spesso irrispettoso del prodotto originale (che viene pensato difatti per un altro tipo di fruizione) e per questo disdegnato da buona parte di Hollywood e anche da colui che scrive.
Per Gemini Man invece è difficile risultare così radicali, da una parte perché il formato in HFR (High Frequency Rate, n.d.r.) è quello voluto e trasmesso da Lee, dall’altra perché – per il fatto di essere studiate e acquisite con fatica nativamente in questa ottica – le sequenze d’azione garantiscono in effetti un livello di dettaglio inedito percepibile. Se però nel videogioco la fluidità dell’immagine è diventato a tutti gli effetti un cardine nel godimento dell’esperienza, nel cinema crediamo che lo straniamento percepito possa ancora mostrarsi eccessivo per il pubblico mainstream, che potrebbe risentire di un così radicale aggiornamento di prospettiva.
Nonostante la mano non proprio chiarissima di Lee nell’azione (per le tre clip dell’evento di screening), non neghiamo in ogni caso che i movimenti di macchina acquistino tutto un altro connotato quando visionati a 60 Hz con un 3D nativo e studiato in parallelo alla fotografia (quindi non inserito come contentino in post-produzione), ma non siamo insomma così convinti di una facile accessibilità del contenuto agli spettatori delle sale. Dopotutto sembra davvero complesso comunicare il concetto di frame rate ad un pubblico generalista di media età in fase di marketing, amplificando le nostre preoccupazioni sulla risonanza commerciale di una pellicola che difficilmente potrà sfoderare con facilità i suoi punti di forza.
Altra pesante incognita risiede nella distribuzione omogenea del formato originale, che – a quanto ci è stato spiegato – richiederà (per via dell’HFR) software e licenze specifiche per i proiettori abilitati. Non è assolutamente scontato il supporto ad un progetto così sperimentale da parte degli esercenti locali, laddove con tutta probabilità per godere di Gemini Man al meglio occorrerà rivolgersi a multisala e catene più rilevanti.
Tanti punti di domanda, per ora poche risposte. Gemini Man risulta comunque un esperimento interessante, anche per il panorama italiano, vediamo nelle prossime settimane dove riuscirà ad arrivare.
Gemini Man arriva nelle sale italiane il prossimo 10 ottobre.