Dopo Jackie, Pablo Larraín arriva al Festival di Venezia con un film sensuale, violento, conturbante e fuori dagli schemi. Il regista cileno esce ancora una volta dalla sua comfort zone e ci sorprende con Ema, un piccolo gioiello senza tempo.
La danza. Arte elegante, portatrice di bellezza ed armonia. Ma a volte la danza può essere anche seduzione e caos, esattamente come negli ultimi anni ci hanno dimostrato registi come Luca Guadagnino e Gaspar Noé rispettivamente con magistrali pellicole come Suspiria – presentato proprio a Venezia lo scorso anno – e Climax.
Dall’infernale viaggio techno di Gaspar Noé Climax ai sabba e baccanali di Suspiria, arriviamo al rivoltoso, arrabbiato e feroce reggaeton di Ema, un viscerale dramma sociale che mescola il musical all’esasperazione di una donna, di una madre, di un gruppo di donne emancipate e rivoltose che urlano la loro indipendenza a suon di danza e lanciafiamme.
Ema (Mariana Di Girolamo), protagonista e datrice del nome dello stesso film, può essere rappresentata un po’ come quella pistola al napalm che stringe tra le mani con tanta forza e passione. Ema è fuoco liquido ardente. Una mina vagante. Impossibile dominarla. Impossibile metterla a tacere. Ema diventa la nuova musa di Larraín mentre lo spettatore si perde sulle linee del suo corpo sinuoso.
Ammaliatrice proprio come una strega, Ema è una bambina viziata, capricciosa e dispettosa.
Ema vuole troppo ma si stanca facilmente. Vuole essere considerata donna, ma è incapace di prendere le proprie responsabilità. Vuole essere amata ma anche odiata. Accetta ma anche temuta. E tutto questo il regista cileno ce lo trasmette fin dal primo secondo di film, quando vediamo la nostra Ema twerkare con grazia e violenza di fronte ad una palla di fuoco, un sole al neo che ingloba tutto e tutti, tranne lei. Lei sembra essere l’unica capace di contrastarlo, solo perché più splendente e letale di lui.
E si apre così la pellicola con un primo ballo sbalordivo. Una coreografia di corpi seminudi e danzati di fronte ad una folla retroilluminata e gli occhi attenti, seri e quasi tristi di Gastón (Gael Garcia Bernal), insegnante di danza e amante più grande di Ema.
Ecco che le tematiche del film iniziano a formarsi ed il contrasto tra giovinezza odierna e la giovinezza di un tempo passato
Ecco che le tematiche del film iniziano a formarsi ed il contrasto tra giovinezza odierna e la giovinezza di un tempo passato, probabilmente quella del regista, viene messa in evidenza proprio dalle musiche selezionate. Il reggaeton caotico, brusco, confusionario che come un loop sembra quasi voler lobotomizzare il cervello di chi l’ascolta; e dall’altra parte un rigore musicale appartenente ad una decade passata che sa già di stantio, puzza di morale e di vecchio, ovvero l’hip-hop latino di Gastón.
Tenuti insieme solo dal loro lavoro, Ema e Gastón sono il fulcro di questa narrazione. No, non è un film sulla danza. Non è neanche, alla fine, un film sui giovani e sui vecchi. È un film sulle persone. Su due persone. Un uomo ed una donna. Una coppia che si è amata talmente tanto da consumarsi ed ora, del loro folle amore, c’è solo un incendio di rabbia, odio e frustrazione.
Per poter riunire la coppia, i due fanno il fatele errore di adottare un bambino. Un bambino non semplice da gestire, soprattutto nella situazione dei due protagonisti. Un bambino che richiede tempo e pazienza e che poi sfugge a tal punto dal controllo dei due da essere rimandato indietro, come un cucciolo adottato e poi riportato al canile.
Ma Ema non è neanche contenta così e questo suo piccolo figlio diventa un’ossessione feroce e violenta. Un’ossessione che trascinerà entrambi a compiere sbagli e scelte esasperati, a tal punto da cadere a pezzi e trascinare con loro tutta la loro stessa vita.
I sorprendenti risvolti però non mancano. Ema è una mina vagante, appunto, è il suo piano è tanto astuto quanto folle. Un piano che fa gelare il sangue nelle vene di chiunque consacrando sul grande schermo un magnifico esordio alla recitazione come quello di Mariana Di Girolamo. Stupenda e meravigliosa.
Il suo taglio punk ossigenato entra già nella leggenda
Il suo taglio punk ossigenato entra già nella leggenda, nella storia. Lei diventa icona di un mondo, il mondo dei più giovani privi di valori e pieni di capricci. Ad Ema tutto è dovuto. È incapace ad accettare un no e come una bambina capricciosa sbatte i piedi a terra fino a quando non ottiene quanto le è dovuto. Non ci sono altre soluzioni. Ciò che Ema vuole, Ema prende. E questo lo stesso Bernal – straordinario come sempre – ce lo comunica benissimo in un monologo che sembra essere il succo dei nostri stessi tempi. Un monologo che non facciamo fatica ad attribuire alla stessa anima di un Larraín forse anche stanco dei tempi modermi, ma non per questo stanco del cinema e della sperimentazione.
Tra la vibrante colonna sonora del DJ Nicolas Jaar e la fotografia al neon di Sergio Armstrong, come recitato nel titolo, Ema è una grande pellicola, una grande prova di coraggio per il regista cileno Pablo Larraín che, ancora una volta, ci sorprende regalandoci forse uno dei migliori film del Festival di Venezia.