Tradizione e innovazione sono gli ingredienti che servono a realizzare un’opera di remake, la cui corretta miscelazione rappresenta l’ago della bilancia che può portare alla coerenza con l’opera originale o la sua rischiosa snaturazione.
Ormai, a mente fredda e ad un mese dall’uscita possiamo dirlo: Resident Evil 2 Remake è un capolavoro.
Il ritorno di uno dei capitoli più amati della famosa saga Capcom ha saputo conquistare critica e pubblico miscelando storia, personaggi, ambientazione e spirito del capitolo originale, con comparto tecnico, gameplay e inquadrature al passo coi tempi, in un riuscitissimo mix che ha vinto la sfida quasi impossibile di accontentare sia i vecchi fan sia i giocatori più giovani.
Se ce lo avessero detto prima che Capcom ci dimostrasse con Resident Evil VII di essere ancora in grado di fare survival horror, probabilmente avremmo visto scene di panico generalizzato fra i fan, timorosi di assistere alla dissacrazione di uno dei capitoli più amati della saga con meccaniche da anonimo shooter già viste nel quinto e sesto capitolo. E invece, fortunatamente, non è andata così; l’operazione remake è riuscita incredibilmente bene, probabilmente meglio di quanto i fan sperassero, diventando a tutti gli effetti il migliore intervento di restauro videoludico che la storia ricordi.
Insomma, Capcom dà lezione di remake agli altri studi, settando un punto di riferimento da imitare e raggiungere, e che probabilmente farà da apripista a tanti altri rifacimenti di opere del passato.
Fra questi, il primo che ci viene in mente e per il quale milioni di fan venderebbero la nonna pur di averlo, è senza ombra di dubbio il primo Metal Gear Solid.
Riproporre le vicende di Shadow Moses con grafica e meccaniche odierne sarebbe probabilmente l’unico modo sensato che resta a Konami, non solo per riconquistare l’amore dei fan dopo il divorzio con Kojima, ma anche per sfruttare appieno uno dei brand più potenti del settore dopo che la trama dell’intera saga sembra non aver bisogno di ulteriori aggiunte.
Spadone e capelli a punta
Ed ora arriviamo al succo della questione, al vero motivo di questa analisi preventiva, ad un titolo talmente delicato che basterà il solo nome dello sviluppatore per far capire appieno il concetto…
Square-Enix…
Cara, carissima Square-Enix…
Quando all’E3 2015 hai annunciato Final Fantasy VII Remake, il mondo si è unito in un unico esultante grido di gioia. Vedere Cloud, Barret e Midgar nello splendore di una veste grafica odierna è stato un vero orgasmo multisensoriale: uno dei titoli più importanti, influenti, amati e leggendari della storia pronto a tornare dopo anni e anni di attesa e speranze.
Però… già, c’è un però.
Nei mesi immediatamente successivi all’annuncio, Square-Enix rese noto che il combat system sarebbe stato decisamente più action rispetto all’originale, lasciando da parte la classica impostazione a turni in favore di un gameplay ben più veloce e dinamico.
Vista la piega action che ha preso la saga di Final Fantasy da quando Squaresoft ed Enix sono convolate a nozze, era facilmente intuibile che la scelta sarebbe stata la medesima anche per il remake del settimo amato capitolo, proseguendo quindi sulla linea dell’occidentalizzazione della serie dovuta alla crisi dalla quale il settore giapponese dei videogiochi si sta riprendendo.
Evoluzione o trasformazione?
A questo punto però una domanda sorge spontanea: un combat system in tempo reale è dunque l’evoluzione naturale del combat system a turni?
Una simile svolta di gameplay è paragonabile ai cambiamenti operati fra l’originale Resident Evil 2 e il remake? Non penso che in questo momento siano solo i matusa fan dell’originale Final Fantasy VII a gridare il loro accorato “NO”.
Combat system in tempo reale o a turni sono infatti alla base di due generi differenti e per quanto Square-Enix provi a venderla come uno svecchiamento delle meccaniche, tale operazione è terribilmente borderline fra il rinnovamento e la snaturazione di un capolavoro.
Se quindi il segreto della buona riuscita di un’opera di remake pare essere la coerenza con l’opera originale, perché cambiare genere ad una pietra miliare come Final Fantasy VII, per poi riproporre lo stesso combat system in Dragon Quest XI e Octopath Traveler?
La risposta è verosimilmente da ricercare nella fetta di pubblico che Square-Enix sta cercando di raggiungere con questo remake: ben più ampia rispetto ai sopraccitati JRPG e possibilmente fatta di un pubblico di giovanissimi.
È un po’ come se Vicarious Visions avesse dotato il remake della trilogia di Crash Bandicoot di una ben più attuale struttura open world invece del classico level design a binari: il risultato non sarebbe più stato il remake della trilogia originale di Crash Bandicoot, bensì un gioco completamente differente.
Ebbene, un platform a binari nel 2017 ha superato ogni record di vendite, lo avreste mai detto? No? Bhè, nemmeno Activision. Eppure è di quel Crash Bandicoot e del suo vetusto level design che il pubblico aveva nostalgia.
I precedenti tuttavia non sono incoraggianti, basti pensare ai già citati Resident Evil 5 e 6 o a Dead Space 3: tutti progetti che per “svecchiare” e rendere più mainstream le proprie serie hanno accantonato il genere survival horror di cui facevano parte in favore di meccaniche action risultate invece un enorme vortice che tutto snatura e standardizza, portando ad un conseguente crollo di gradimento la cui unica via d’uscita è il dietrofront.
Come se non bastasse, il compito di Square-Enix è ben più gravoso e complesso rispetto a quello realizzato per Resident Evil 2 Remake. Capcom, ha infatti potuto attingere da meccaniche già collaudate in numerosi e recenti survival horror, mentre per rendere più dinamico un JRPG senza snaturarlo in un action, richiederebbe lo studio e la sperimentazione di soluzioni e meccaniche potenzialmente inedite con il rischio che possano non funzionare a dovere.
Square-Enix da parte sua, nell’ultima decade non ha certo dato un’immagine rassicurante di sé.
Gli sviluppi decennali caratterizzati da cambi repentini e dietrofront di Final Fantasy XV e Kingdom Hearts 3, uniti al fatto che Nomura avrebbe imparato da un trailer di essere il director di Final Fantasy VII Remake, fa davvero sorgere dei dubbi sul reale stato organizzativo dell’azienda di Tokyo, e rende quanto mai lecito domandarsi quanto abbiano le idee chiare.
E mentre i fan di vecchia data (fra cui il sottoscritto) altro non vorrebbero che vedere i modelli poligonali super definiti di Cloud, Barret e Tifa molleggiarsi sulle ginocchia e aspettare pazientemente il proprio turno, non resta che sperare che Square-Enix riesca a trovare un valido compromesso in grado di rinnovare l’amore per quest’opera per i fan dell’originale, e far scoprire questa pietra miliare anche a chi, oggigiorno, non se la sente di cimentarsi in un’avventura con personaggi super deformed.