Spesso gli appassionati perdono di vista un fattore molto importante del panorama videoludico, ovvero che si tratta pur sempre di un mercato: c’è chi vende e chi compra. In questo approfondimento analizziamo i cambiamenti più significativi sui meccanismi con cui lo scambio economico avviene da un po’ di anni a questa parte.
Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho ancora viste. Perché si producono i videogiochi? Per fare soldi. Lo stesso motivo per cui si producono film e serie tv, musica e fumetti, pentole e quaderni. Ma lo scopo principale di pentole e quaderni – l’avete pensato tutti, non dite di no – è cucinare e scrivere. Sì, lo è. Per voi. Per la Ballarini che produce pentole dal 1889 state pur certi che è fare soldi, come per la Fabriano o per qualsiasi altra marca produttrice di quaderni.
Ecco, traslando questo concetto ai prodotti di intrattenimento non dovrebbe risultare difficile capire come questi, nonostante rappresentino l’espressione artistica, audiovisiva e ludica del lavoro e delle capacità di moltissimi soggetti, possono esistere solo in quanto suscettibili di valutazione economica, di un giro di denaro. E che giro di denaro! Vi basti la recente notizia del superamento dei 6 miliardi di dollari d’incasso per GTA V che lo rendono non solo il videogioco più redditizio mai creato, ma più redditizio anche di qualsiasi film. Se sommate gli incassi di Avatar e Star Wars: Il Risveglio della Forza siete comunque sotto di un paio di miliardi rispetto alla gallina dalle uova d’oro di Rockstar Games.
I videogiochi non sono più solo dei “giochini elettronici”.
Ovviamente non tutti i videogiochi incassano come GTA, che rappresenta tuttavia il caso più eclatante di una tendenza abbastanza diffusa: i videogiochi non sono più solo dei “giochini elettronici”, ma un’industria che riesce a piegare persino i super incassi (e anche i super budget) di Hollywood.
Lo si è detto e ripetuto in tutte le salse, eppure a qualcuno piace far finta che il fattore economico non esista, ai classici leoni da tastiera che senza neanche aver provato un prodotto sentenziano su come dovrebbe o non dovrebbe essere in base al proprio gusto.
Tralasciando l’evidente tristezza delle vite di chi non ha niente di meglio da fare che passare le giornate a insultare il lavoro altrui e/o chi lo apprezza, provo a fare un po’ di chiarezza su come si presenta il mercato dei videogiochi oggi, dopo un percorso che ne ha profondamente mutato l’aspetto.
Ho sempre odiato le etichette, in ogni ambito. Lo stilnovo come scuola poetica esiste solo nelle ricostruzioni dei critici, ma non è mai esistito nella storia della letteratura. Le poesie di Dante e Cavalcanti condividono di certo dei tratti di stile, ma queste analogie non bastano a legittimare l’etichetta di scuola che si applica comunemente a questi poeti.
Ma alla critica piace da sempre catalogare, schematizzare, incasellare ogni cosa all’interno di una definizione più grande. Gli stessi generi videoludici sono talvolta definizioni forzate di una delle tante caratteristiche che un titolo presenta, ma non voglio farvi un pippone infinito sulla mia avversione per le etichette, quanto piuttosto mettere le mani avanti se nel discorso che segue andrò ad accorpare in macro categorie giochi anche molto diversi tra loro.
Non si tratta di genere, né di target. Il metro in questo caso è dato solo dal modello economico con cui il gioco viene pensato.
Si stava meglio quando si stava peggio e non è dalla grafica che si giudica un videogioco, sì sì bravi, tutto molto bello. Ora mettete da parte qualsiasi preconcetto creato dalla vostra età, dalle vostre preferenze e gusti, da i giochi che avete giocato da piccoli ecc…e provate a guardare in modo oggettivo il mercato videoludico prima dell’arrivo del gioco online.
La verità è che il modello economico era uno soltanto: uno studio sviluppava il videogioco spendendo “x” e lo lanciava sul mercato sperando di guadagnare almeno “x + 1” nel breve-medio termine. Perché? Semplicemente perché il medio-lungo termine del tuo gioco è il breve-medio termine di quello di qualcun altro, magari molto più bello del tuo.
Massimizzare le vendite nel periodo d’uscita per un videogioco è importante quanto l’incasso al botteghino dei film. Un film ha successo e viene magari rinnovato per un sequel se ha successo al cinema, a nessuno frega niente di quanto guadagni in home video (e anche qui ormai potremmo aprire una parentesi infinita, ma non oggi). Poi l’implementazione dei servizi di rete nelle console.
Mentre il SEGA Dreamcast falliva nel proprio progetto proprio perché dopo il buco causato alla società nipponica dal disastro di Saturn e le cifre gargantuesche spese per creare la loro macchina dei sogni e giochi di altissimo livello come i due Shenmue o Jet Set Radio, non arrivò nel breve-medio termine un riscontro economico da parte dei consumatori, il fautore dell’enorme rivoluzione dell’online era quella Xbox di Microsoft che vantava con il suo servizio in abbonamento Xbox Live un’infrastruttura che lo strapotere di PlayStation 2 poteva vedere solo col binocolo. Il resto è storia e non serve star qui a fare ripassi, ma tenete bene a mente quanto abbiamo appena constatato.
Il modello God of War
Per ragioni di sintesi prendiamo proprio il nuovissimo God of War firmato dai ragazzi di Santa Monica (di cui di seguito trovate la nostra recensione, qualora ve la foste persa) che pur non essendo ancora arrivato sul mercato sta già facendo discutere parecchio. Non mi dilungo sulle sterili e risibili discussioni nate da una media dei giudizi meritatamente alta, ma prendo questo titolo per esemplificare il primo modello economico di cui voglio parlare.
Si tratta dell’erede del modello unico del passato, un gioco ad alto budget che richiede un impegno costante e duraturo di tantissimi professionisti per anni. Un gioco che ha un inizio e una fine, che racconta una storia e punta a coinvolgere ed emozionare i giocatori, oltre che a divertirli. Come si è già detto nella recensione è un gioco che eredita in pieno tutto il know how delle produzioni di casa Sony, dagli Uncharted e The Last of Us di Naughty Dog al più recente Horizon Zero Dawn di Guerrilla. Ormai queste produzioni sono accomunate da un marchio di fabbrica che da ai giocatori delle certezze, sia qualitative che quantitative.
Tutto fa parte, tra l’altro, di una sapiente macchina del marketing che Sony sa mettere in moto ormai da anni e che crea aspettativa e hype negli appassionati, aspettative rispettate poi nel concreto con l’arrivo di questi giochi (nell’anno sono già previste altre due produzioni fortemente single player in esclusiva PlayStation, ovvero Detroit: Become Human e lo Spider-Man di Insomniac Games).
Questo è anche – con le dovute differenze – il modus operandi della maggior parte delle produzioni Nintendo. Tralasciando giochi come Smash Bros. o Splatoon 2, anche tutte le produzioni dell’universo di Mario o The Legend of Zelda sono titoli che puntano a vendere moltissimo già nel breve-medio periodo; non è un caso che Breath of the Wild sia uscito al lancio di Switch mantenendo però un piede anche nella, seppur minima, base di Wii U.
Rientrano poi in questa categoria anche produzioni third party, basti pensare a giochi come The Witcher III: Wild Hunt; non si tratta di un retaggio nipponico legato alle esclusive delle due major della Terra del Sol Levante in ambito videoludico, ma di un approccio che continua ad essere uno dei più apprezzati dai giocatori e che ha decretato in particolare, questo giro, il successo di PlayStation 4 e Nintendo Switch.
Anche in casa Microsoft esistono esclusive di questo tipo, pur latitanti ormai da un bel po’. Mi viene da pensare ad Halo e Gears of War, serie che hanno reso famosissima Xbox 360 nonostante presentassero un accentuata componente online. Xbox One è stata sfortunata sotto diversi aspetti, ma può annoverare nel proprio parco titoli anche esperienze single player di tutto rispetto come il Quantum Break di Remedy Entertainment.
Il modello Fortnite
Anche qui mi rifaccio per comodità al titolo per antonomasia che in questo momento va a identificare semplicemente il modello economico dei free-to-play. Fortnite non nasce come Battle Royale ma copia furbescamente la modalità che ha reso celebre PlayerUnknown’s Battleground e la declina in uno stile più accattivante ma, sopratutto, free-to-play.
Qui troviamo il concetto esattamente opposto a quello di cui parlavamo sopra: si tende a massimizzare i profitti nel medio-lungo termine, tenendo i consumatori sul proprio prodotto e incentivandoli a spendere sempre più in micro transazioni.
Il free-to-play è uno spacciatore che ti regala le prime dosi e poi ti lega a sé e ti induce a pagare sempre di più. Metafora troppo forte? Forse sì, ma credo renda l’idea. Di conseguenza il livello qualitativo di questi giochi – e il budget da cui partono – è di molto inferiore a quello di un gioco come God of War, così come il marketing non mira a far sì che i giocatori desiderino il prodotto per mesi fino a che non arriva il day one, ma che continuino a giocarci per mesi o anni dopo la sua uscita. Il fenomeno ovviamente esiste da anni ormai e interessa un’infinità di giochi tra cui quel League of Legends che è diventato anche uno dei vessilli del fenomeno collaterale degli e-Sports.
Dal momento che questi giochi non raccontano una storia, non immergono il giocatore in un mondo coerente con cui possa empatizzare, non puntano a lasciarlo a bocca aperta per il dettaglio artistico e tecnico, il focus è interamente spostato sull’immediatezza e sulla competizione. La macchina dei giochi free-to-play dunque si alimenta anche grazie a dei sostanziosi contributi esterni e per un indotto collaterale dato da fenomeni come Twitch ecc…
C’è senza dubbio meno arte in questo modo di fare videogiochi, ma pur sempre di videogiochi si sta parlando e, a scanso di equivoci, della fetta più profittevole del mercato. Persino GTA V ha fatto quei numeri, di cui parlavamo all’inizio, non già per la sua storia (di certo molto godibile e con un livello qualitativo notevole), quanto grazie alle micro transazioni di GTA Online.
Il modello Hotline Miami
Ho usato Hotline Miami perché a me piace in modo spropositato, ma avrei potuto usare Limbo come To The Moon, e se non s’era capito sto parlando degli indie. Ah gli indie…non riesco proprio a mascherare un sorriso ogniqualvolta sento riferirsi a un gioco come “indie” quasi fosse un genere.
Non lo è, e torniamo a quella maledetta smania di etichettare tutto. Gli indie possono essere avventure grafiche o testuali, platform, sparatutto, possono essere tutto ciò che è anche una produzione tripla A, semplicemente non hanno grossi budget o publisher noti alle spalle e si appoggiano ad altri meccanismi per emergere.
Questo fenomeno è esploso grazie alla possibilità di autopubblicarsi i giochi su Steam, ma ha conquistato pian piano anche il mondo console con tanto di programmi ad hoc sia da parte di Sony che di Microsoft, principalmente, per scovare i progetti più meritevoli e le menti più brillanti nel sottobosco delle produzioni indipendenti, che questo significa “indie”.
La situazione di questo modello è data dalla necessità. Probabilmente se chiedessimo a un qualsiasi team indipendente “ti piace essere indie o preferiresti avere un grosso publisher che ti cura tutta la parte noiosa e ti fa anche il marketing?” in pochi, pochissimi, avrebbero l’ardire di scegliere la prima ipotesi. Poi ci sono giochi che pur essendo sviluppati da quattro gatti e con quattro soldi (vedi Hotline Miami) riescono a sfondare, e altri che non arriveranno mai ad avere un successo commerciale. C’est la vie.
Il modello No Man’s Sky
La chiudiamo così, con una di quelle riflessioni che faranno incazzare più di uno tra voi (e un po’ ci spero) tralasciando i MMORPG o altri segmenti meteora più o meno duraturi, dal fenomeno Guitar Hero ai cosiddetti toys-to-life (Skylanders, Disney Infinity ecc…). Ci sono giochi che non hanno realisticamente una strategia commerciale sensata, No Man’s Sky ne è stato un esempio lampante (Sì, lo so che ora è molto più bello e molto più tutto. Ma se l’ho comprato a prezzo pieno al day one ho il sacrosanto diritto di giudicarlo male, ora e nei secoli dei secoli).
Con le dovute differenze, visto che in casa Microsoft era da un po’ che non piovevano critiche, il nuovo Sea of Thieves sviluppato da Rare (che fa strano pensare sia ancora la Rare che ci ha fatto sognare con alcuni dei titoli più belli dell’epoca Nintendo 64) riesce nell’intento di essere vuoto quasi quanto No Man’s Sky.
La sensazione, in entrambi i casi, è quella di avere tra le mani un engine in cui, col passare del tempo, forse inseriranno anche un videogioco. Tu intanto pagami, che poi ti faccio anche giocare, tranquillo. Dal canto mio spero che questo modello perisca entro l’anno scorso, cioè che chi ha pensato fosse una bella mossa mettere sul mercato un gioco così passi le nottate in un angolo a pentirsi nella speranza di trovare una macchina del tempo che gli permetta di non farlo.