Nota: questo racconto è ispirato a fatti realmente accaduti a terzi, signor X compreso. Una certa fumosità, che nel bene e nel male potrebbe sembrare una scelta di stile, nasce primariamente dalla volontà di rispettare la privacy di persone e relative attività; in seguito è diventata una escamotage ai fini del racconto e della sua conclusione. In alcun modo si vogliono qui esprimere giudizi in merito ai temi proposti. Buona lettura.

Correva l’anno 2015, e il signor X era un lavoratore che faceva in più esattamente metà delle ore che gli sarebbero mancate per essere un Full time.

Si considerava ad ogni modo un Part time a tutto tondo. Per adempiere al suo contratto era solito sgusciare fuori dalla metrò dando una spallata alla porta di vetro, curvare a s in una zona di panchine frequentata da gente pensionata, ubriaconi o coppiette, e varcare l’apertura per pedoni di una cancellata automatica dipinta di verde. Faceva forza col pugno dove pensava che nessun’altra mano andasse a spingere, un’eredità dei primi mesi di contratto, quelli più diffidenti.

Poi seguiva un viottolo che si snodava fra siepi, vecchi alberi, fontanelle con pesci rossi o senza neppure l’acqua e statue, fino a ritrovarsi davanti un imponente edificio. Sei piani di mattonelle rosse e congegni anti piccione da santa inquisizione. Q

uasi un monumento architettonico alla città-fabbrica, quell’alveare di alloggi per metalmeccanici targati anni settanta non lasciava indifferenti. Dominava il parco circostante, svettando su querce e faggi, e a detta di alcuni era come una miniera d’amianto, che serpeggiava nelle pareti.

Il signor X lanciava un’occhiata e tendeva l’orecchio, affrettava il passo e si teneva umoristicamente pronto a incontri fortuiti d’ogni tipo. Doveva nascondere il distacco che percepiva ogni volta che entrava, intimorito dalla responsabilità del lavoro, ma quando ne usciva dopo 6, 8 o 11 ore, si lasciava alle spalle qualcosa di famigliare, aria di casa e voglia di ritornare. Però andandosene!

All’arrivo, superata la rampa di sedici gradini, ad aspettarlo oltre un paio di svolte e pesanti portoni, c’era l’ufficio. Al suo interno armadi, sedie e una scrivania traballante, che reggeva per miracolo non solo il monitor ma lo stesso pc, senza contare un numero considerevole di scartoffie e soprammobili, fra cui un artigianale porta penne di legno a intarsi e, di lì a poco, i suoi stessi gomiti.

Nelle mani spesso un mouse e l’alfabeto di una tastiera, se preso ad aggiornare il report di giornata, o una penna per appuntarsi un promemoria, o ancora un cordless per confrontarsi coi colleghi del piano superiore e rispondere a vari impiegati che per conto di enti territoriali pensavano di poter corrompere la deontologia del signor X.

Lui tergiversava e assecondava, facendo loro credere di aver abboccato, che era dalla loro parte, infine annunciando con gentilezza estrema l’impossibilità di incontrare le loro esigenze.

Alcuni colletti bianchi vanno in paranoia se per un giorno devono rimboccarsi le maniche a fronte di un imprevisto, rifletteva, altri pur di non diventare trasparenti si sporcano volentieri le mani, giusto il tempo di farsi un nome e avere una storia da raccontare.

La noia aveva orari prestabiliti, il primo pomeriggio del venerdì ad esempio, o la fascia 0.00-6.00 di domenica. L’altra faccia della medaglia era la pura, autoprodotta e non pianificata adrenalina.

Gli capitava di gestire situazioni drammatiche, o più vertiginose e di pericolo, dove al panico serviva una risposta creativa e pragmatica. In più occasioni era anche andato in pronto soccorso, dove il suo lavoro veniva puntualmente, anche se indirettamente, denigrato. Durante le pause dopo pranzo, chi voleva effettivamente attivare quelle pause, più sindacali che contrattuali, si riuniva nell’ampio seminterrato davanti alla macchinetta del caffè.

Nonostante le proprietà del locale, cioè un rimbombo a megafono e una probabile quanto silenziosa comparsa istantanea di chiunque, le chiacchiere vertevano su gossip interni, e prendevano pieghe seriose a seconda della giornata e dei presenti. Nei faccia a faccia più intimi non c’era tempo per spergiuri e dicerie, o forse la minore teatralità rendeva le informazioni più accettabili, persino utili.

Alle volte il signor X, insieme a una collega o a un direttore, si dilettava nell’attività del preoccuparsi dell’andamento della giornata, anche dell’ultimo mese o di faccende specifiche quali possono esserlo persone, progetti e carriere, sorseggiando tè o sostando sullo stipite di un portone con maniglia antipanico. Altre volte capitava chi cercava di togliersi alla vista il più in fretta possibile, come i topi e gli scoiattoli che circondavano la struttura.

Roteando mazzi di chiavi scattavano su e giù per scale ed ascensori, chiamati a gran voce dal lavoro, spesso per nome. Una voce udibile ad ogni ora, che si ripeteva all’infinito e cambiava di rado, seguendo le stagioni. Non c’era il nuovo giorno, frutto della capacità rotatoria del pianeta di resettare la memoria dal tramonto all’alba, e di stordire il signor X come quando da ragazzino girava velocemente su sé stesso per poi lasciarsi cadere in un mondo sottosopra.

Oh cielo chi è arrivato, quella nuova è brava, quell’altro se ne va perché non regge, ma sai cosa ha fatto tizio? caio è diventato insopportabile.. C’erano pure degli imitatori spietatamente capaci. Una volta era girata una voce, riportatagli in forma di domanda, che lui stesse per andare in burn out. Sembra grave, rispose, aggiungendo che forse lo sapevano persone meglio informate di lui su sé stesso. Non ne era al corrente per davvero.

Effettivamente per un mese non aveva tenuto il saldo delle ore lavorate. Sono uscito ieri vero? Mi hai visto timbrare il cartellino? La tripla occhiaia ce l’ho da quando sono nato! Non era neanche sicuro del significato di burn out. A questo riguardo fu tempestivo un esempio nei giorni successivi, quando una collega del secondo piano si era chiusa in ufficio durante il turno di notte, fino all’alba.

Chi, presentandosi il mattino a darle il cambio, l’aveva trovata brancolante nella luce, scalza e impigiamata nell’aria ispessita dall’alcol e dal sudore, aveva assistito a un burn out dal vivo. Era anche sotto pasticche, qualcuno aveva spifferato alla macchinetta, scegliendo caffè lungo con triplo zucchero.

Era chiaramente una questione di performance, il signor X lo aveva presto inteso, e preferiva così stare fuori dal giro se poteva. La strategia prevedeva il limitarsi a lavorare, il che era più semplice a dirsi che a farsi, e di spendere i tempi morti contenendo lo stress al minimo concesso, sorseggiando un decaffeinato, sciacquandosi ripetutamente la faccia, facendosi gli affari propri senza dare nell’occhio. Basso profilo. Alto quando la responsabilità e l’emergenza o momenti chiave lo richiedevano.

Vivi e lascia vivere, ascolta e restituisci il consiglio, non cercare di controllare il fiume, nosce te ipsum. C’erano tanti modi filosofici per non andare in burn out, su tutti chiudere l’ufficio, e poi telefonare per quella faccenda ai piani di sopra, prendere un pò d’aria, restare sul pezzo. Era un lavoro da interpretare, e spesso farlo bene significava evitare di farlo troppo. Primo perché era vero, secondo perché il signor X soffriva le polemiche metodologiche degli altri turnisti, il più delle volte colti da invidia impanicata e routine minacciata. Competizione tra colleghi, ansia da prestazione. Tuttavia non veniva eletto l’impiegato del mese né c’erano straordinari pagati in base alla qualità degli obiettivi raggiunti, sempre che fossero misurabili. E quasi nessuno scappava.

Di tanto in tanto qualche nuova leva non faceva in tempo ad ambientarsi o intuiva a pelle che non faceva al caso suo, dandosela a gambe. Interessanti aneddoti condivano una realtà appurata ma mai con toni così drammatici o tragicomici. Come il caso di quel nuovo assunto che era giunto dall’altro capo dello stato e dopo 4 giorni era già sul treno di ritorno. Aveva lasciato il lavoro di punto in bianco. Fuggito, un’immagine che il signor X conosceva bene. E successivamente aveva rispedito il suo badge e il suo mazzo di chiavi, del quale nella fretta di filarsela non era riuscito a disfarsi. Se però una persona discretamente onesta rimaneva abbastanza a lungo da farsi l’abitudine, e adottava qualche sano trucco del mestiere, o meglio, imparava il mestiere, allora era fatta. Senza scuse campate forzatamente, senza scelte finali, senza esternalità che non dipendevano dal lavoro in sé, resisteva in questo lavoro, si impegnava, sopravviveva persino, e si sentiva eroica. Un buon motivo per pensarci due volte prima di lasciare baracca e burattini.

Il signor X era anche pagato nella media dei lavori dignitosamente pagati, non abbastanza per le responsabilità che ci prendiamo, diceva la grassa componente a difesa dei lavoratori (o al loro attacco), come non abbastanza era considerata l’evoluzione del contratto, ma l’appagamento e la sensazione di poter fare qualunque cosa, una volta percorsa la scalinata, la ghiaia, il parchetto, per tuffarsi nell’oscurità lampeggiante e nel frastuono della metrò, erano per il signor X impagabili: se ne andava stanco, un pò perchè era fine giornata un pò perchè qualcosa aveva fatto. Una profusione di energia mentale, un ponderare quasi latente le sue azioni, una prontezza dormiente, un acclimatamento nella giungla lavorativa, avendo un ruolo preciso, riconosciuto in quel ruolo, bistrattato in quel ruolo, sfidato in quel ruolo, rispettato infine in quel ruolo, in qualche modo, ogni tanto.

Accadde che una mattina gli fu chiesto dal coordinatore di recarsi di sopra perchè ai colleghi del secondo piano serviva qualcuno che parlasse bene inglese. Il signor X la prese come una prova del fuoco. Per un attimo si sentì stimato senza ancora aver detto hello. Era ancora agli esordi e la sua unica colpa era aver scritto nel curriculum di padroneggiare un certo livello di inglese, il che col dovuto spolveramento era abbastanza vero, tuttavia rimase calmo e disponibile, oltre che impolverato. Sono qui per questo pensò. Una svolta da accogliere, qualcosa di concreto.

Raggiunse l’ufficio del secondo piano, la porta era aperta. C’erano tre sagome in controluce ma riconobbe i colleghi, in piedi, mentre una terza gracile figura sedeva su di una vecchia poltroncina girevole. Mentre si avvicinava al centro del locale, i primi due cominciarono a parlare, spiegandogli la situazione e chi fosse l’ospite, uno con espressione grave in volto, l’altro con uno sguardo che il signor X non seppe dire se sovrappensiero o solenne. Doveva mediare tra loro e la terza persona. Avrebbe dovuto fare domande e tradurre. Seduto sulla poltroncina sgualcita, giocando stancamente col suo meccanismo rotante, stava un ragazzino siriano. D’aspetto un pò spaurito, il modo di fare invece tranquillo, gli occhi spalancati. Il signor X l’aveva già salutato entrando. Ora che lo aveva di fronte si rese conto di dover fare un colloquio sì in inglese ma secondo una professionalità mai sperimentata. Erano in rapporto tre a uno. Cominciò col sedersi a sua volta. Doveva scoprire le condizioni di viaggio, famigliari e personali del ragazzino, e mentre si caricava quel peso che presto avrebbe dovuto scaricare su quell’altro capì di rappresentare tutti e nessuno in quella stanza. Doveva mediare. Era roba seria. Lo scenario era stato costruito apposta per esserlo, da prima del suo arrivo. Lui arrivava per metterlo in moto ma decise di distruggerlo per ricrearne un altro.

Dimenticò tutte le cose che i due colleghi volevano chiedesse al ragazzino e cominciò nel modo più semplice, salutandolo nuovamente e chiedendogli il nome. Di dov’era, da quanto tempo era lì, se stesse bene e se avesse fame, mostrandosi interessato più che inquisitorio, dando importanza alla storia che prendeva forma. Non serviva un inglese complesso e la cosa era chiara a tutti i presenti.

Così, pur lasciando le manovre al signor X, gli altri due intervenivano a sprazzi per sollecitare la richiesta di una informazione o l’altra, spiegare al ragazzino la realtà comunitaria, perché i carabinieri lo avevano portato lì, il fatto che non fosse una prigione, l’aiuto che poteva trarne. Il dialogo si fece drammatico, quando venne fuori che aveva visto annegare il fratello.

Si mise a piangere, restando composto. Uno dei due colleghi commentò in italiano che poteva essere anche una bugia di contorno per impietosire, dicendo che alcuni usano mentire tanto per darsi un tono da vittima o un alibi, alibi per cosa il signor X non lo volle capire. La comunicazione non seguiva più uno schema preciso e compilativo. Le varie perché sei venuto qua, cosa cerchi, quali sono i tuoi piani, chi sei, in fondo, pensò il signor X, derivano da un’unica domanda, quella che ha fatto migrando, la migrazione stessa.

Lui rispose che la sua città era stata distrutta ed era scappato da lì coi famigliari. Ingenuamente X, assorto nell’enigma di colui che stava narrando di morte, dolore e altri fatti a lui stranieri, chiese il nome della città e chi erano i distruttori, insistendo, da chi siete scappati? Lui disse più volte Daesh. Il signor X non capiva, non aveva mai sentito quella parola prima. Un collega, quello che aveva suggerito la possibilità di un resoconto romanzato, disse che era il termine arabo con cui loro si riferivano all’Isis.

Il ragazzino parlò poi di un indirizzo che doveva raggiungere, di parenti, di numeri di telefono e mappe. Hanno una rete di contatti immensa, disse il collega dal cipiglio torvo. L’ospite scappò il pomeriggio stesso, forse diretto oltreconfine per raggiungere altri profughi siriani.

 

Foto di Matteo Bastianelli