A poco meno di un mese dall’uscita di Wolfenstein II:The New Colossus ripercorriamo la storia che ha portato questo franchise nell’Olimpo degli shooter.
Era il lontano 1981 quando il primo Wolfenstein veniva rilasciato per Apple II , da quel momento sono passati ormai 36 anni, tempo in cui la serie si è evoluta, appropriandosi di nuove tecnologie e altrettante nuove meccaniche di gameplay. Il reboot, infatti, non è altro che il punto di arrivo di una gestazione lunghissima, un’evoluzione che ha inevitabilmente definito il genere degli shooter, forse ancora più di titoli del calibro di Doom e Quake.
Carichi di aspettative per il nuovo capitolo andiamo a scoprire le avventure di B.J. Blazkowicz, da Castle Wolfenstein fino al più recente The New Order.
Halt! Castle Wolfenstein
Beyond Castle Wolfenstein, e le origini della serie
Anno 1981: Castle Wolfenstein, primo titolo della saga, viene pubblicato e distribuito da Muse Software (non la nota band rock), sotto la guida di due grandi visionari del settore: Ed Zaron e Silas Warner. Inizialmente destinato a essere pubblicato esclusivamente per Apple II, fu convertito, visto il successo di vendite, anche per MS-DOS, Atari 8-bit e Commodore 64, raggiungendo la cifra (per i tempi) incoraggiante di 20’000 copie vendute in un anno.
Il titolo si configurava come un action in terza persona con visuale dall’alto, con la particolare caratteristica che lo sprite del personaggio giocabile – ai tempi non ancora noto come B.J.- veniva mostrato frontalmente come in un side scroller. La componente stealth era decisamente più accentuata rispetto alla controparte moderna, il giocatore era infatti portato a risparmiare proiettili e risorse e a indossare le uniformi tedesche per confondere gli NPC, vedendosi costretti a combattere esclusivamente in presenza dei soldati SS, più intelligenti e perseveranti.
Il sequel Beyond Castle Wolfenstein (1984) accentua ulteriormente la meccanica: viene inserito il pugnale come arma secondaria (molto più discreto rispetto alle armi da fuoco) e implementato un sistema di corruzione per superare le guardie. Il titolo, inoltre, presentava un primo risvolto di trama: lo scopo era infatti uccidere l’odiato Führer con una bomba, in una situazione che rievoca l’attentato del 20 luglio 1944 (…i più attenti ne avranno trovato riferimenti anche in The New Order). Questo secondo capitolo però mette fine al coinvolgimento di Muse Software, compagnia andata in bancarotta da lì a poco, nel 1987.
La svolta: Wolfenstein 3D e Mecha Hitler
Dopo circa quattro anni di oblio la serie torna alla ribalta, nel 1992, grazie a id Software, la celebre compagnia guidata da John Carmack. Fino al 1990 i fondatori della software house erano in realtà dipendenti di Softdisk – azienda dedicata alla vendita di software per corrispondenza – ma nei weekend e nelle ore libere sviluppavano tech demo che avrebbero portato a una nuova rivoluzionaria tecnologia: l’engine id Tech 0.
Il motore era infatti in grado di aggirare i limiti delle EGA, l’allora interfaccia video di IBM, e in qualche modo capace di gettare le basi per quelli che poi sarebbero stati Doom Engine, Quake Engine e id Tech 2. Il rendering era strutturato come una sorta di conversione da 2D a 3D dove veniva ampiamente utilizzato il fenomeno del ray-casting: l’ambiente, in partenza bidimensionale, una volta marcate posizione e visuale del giocatore, simulava poligoni pseudo-tridimensionali ,dando un senso di profondità. Effetti collaterali erano però visibili nell’assenza della rotazione sull’asse y e negli sprite, che rimanevano 2D.
Interessato dal talento del team, il publisher Apogee Software bussò alla loro porta. Il gruppo abbandonò così il proprio impiego e si mise in proprio, iniziando a lavorare su Commander Keen e, solo in secondo luogo, su Wolfenstein 3D. I lead designer di Ideas from the Deep – Romero, Carmack, Hall – nostalgici del titolo sviluppato da Muse Software, decisero di sfruttare il concept di base del vecchio Castle Wolfenstein per dare vita a un sistema immediato e frenetico, in grado di sfruttare a pieno le derive action possibili con il nuovo motore. Il lavoro incominciò velocemente e con tanta, tantissima frenesia; una combinazione di sinergie, idee spregiudicate e 3D contribuì a portare alla luce un gioco estremamente caratterizzato e – per usare un inglesismo – groundbreaking.
Il titolo in sé era un FPS impiantato su livelli, ognuno composto da corridoi e stanze in cui l’obiettivo del giocatore era raggiungere un ascensore, dopo aver superato cani, soldati, ufficiali (più o meno corazzati) e altri tipi di nemici. L’equipaggiamento consisteva invece in una pistola, un coltello e diversi tipi di mitragliatrici , raccoglibili, insieme alle munizioni, dai corpi dei nemici o esplorando l’area. La distribuzione era inoltre cadenzata in episodi, divisi a loro volta in dieci livelli, al termine dei quali c’era sempre un boss, come il celebre Mecha Hitler.
Non accontentandosi però di aver creato un gameplay frenetico e un design più che originale , Romero sviluppò anche un comparto narrativo, introducendo il soldato-protagonista B.J. Blazkowicz, una spia americana di origine polacca in cerca di un modo per annientare il regime nazista. La fiducia del publisher nel progetto si dimostrò alla fine ben riposta : il gioco vendette, come il suo spin-off prequel, Spears of Destiny , circa 100’000 copie, celebrato, per le sue meccaniche rivoluzionarie, da critica e pubblico.
L’incredibile successo portò il gioco a essere convertito per Super Nintendo, Mac OS, Atari Jaguar, 3DO, Apple IIGS, PC-98, fino ad arrivare a giorni più recenti, su GameBoy Advance, Playstation Network, Xbox Live Arcade e iOS.
Zombi, übersoldaten e multiplayer in Return to Castle Wolfenstein
Mentre nel 2001 nasceva Wikipedia, veniva presentato l’iPod e Microsoft lanciava Xbox, si preparava a tornare sulla scena anche sua magnificenza, B.J.Blazkowicz: Activision pubblica, infatti, un gioco che avrebbe definito il multiplayer shooter successivo, Return to Castle Wolfenstein. Sviluppato da due team, il titolo si presenta infatti diviso in due sezioni: Gray Matter Interactive sviluppò il lato single player mentre Nerve Software il multiplayer. I tempi erano decisamente cambiati rispetto al ’91 ma id Software si prese comunque la responsabilità di revisionare l’intero progetto. La qualità in effetti non mancava in entrambe le sezioni del gioco, ma a farla da padrone in questo caso era il multiplayer, ricco di nuove meccaniche, che convinsero tutta la stampa specializzata.
Precursore di ciò che poi sarebbe stato Call of Duty, il multiplayer di Castle Wolfenstein si strutturava in tre modalità: obiettivo, cronometro e checkpoint. Il primo consisteva in una serie di “quest” da completare per la propria squadra, il secondo è simile al primo con l’aggiunta della presenza dei round e dello scambio dei ruoli, mentre l’ultimo è un semplice cattura la bandiera. Le arene, invece, erano un riciclo-adattamento degli asset e delle mappe su più livelli della campagna principale, tuttavia estremamente funzionali all’azione richiesta. Il tutto veniva poi condito da un grande fase shooting e da un eccellente bilanciamento delle classi (ingegnere, medico, soldato e tenente).
Il single player invece consisteva in una riproposizione delle atmosfere delle originale, specialmente negli ambienti del castello Wolfenstein: il senso del macabro e la cura nei particolari rimangono al centro del game design, supportati anche dall’evoluzione del motore id Tech 3. La narrazione vedeva quindi il nostro B.J. fuggire dal noto castello, fronteggiare ripetute orde di zombi in diverse location in giro per l’Europa, interagire con spiriti del feudalesimo tedesco e chi più ne ha più ne metta; per dirla con un termine poco elegante: una divertente “caciara” .
Ed è proprio il divertimento ciò che rende questa campagna interessante, un ritmo frenetico e adrenalinico sebbene in un contesto non tra i più originali e ispirati.
Dimensioni parallele e Operazione Black Sun in Wolfenstein
Dopo otto anni di silenzio assoluto Activision pubblica, per PlayStation 3, Xbox 360 e PC, il sequel del titolo del 2001, sviluppato da Raven Software ma non più supervisionato dai ragazzi di id Software. A metà tra operazione commerciale e riproposizione della formula di RTCW il gioco proponeva come al solito due modalità: una multigiocatore – simile, se non identica, a quella precedente – e una single player dove ci si trova a contrastare l’operazione nazista Black Sun, aiutati dalle capacità del Velo, dimensione in grado di fornire determinati poteri sia al nostro personaggio che agli avversari (rallentare il tempo, invincibilità ecc…) .
Il sistema di gioco, invece, nonostante una buona varietà di armi e nemici e una buona integrazione delle quest con il comparto narrativo – questa volta più “free-roaming” dei precedenti – mancava di personalità. La dinamica del Velo non era risultata abbastanza interessante, mentre le fasi esplorative erano accompagnate da scialbe sezioni di enigmi ambientali. A tutto questo va poi sommato un comparto tecnico non proprio aggiornato (utilizzava il motore di Quake III, id Tech 4 ) e un IA non tra le più efficienti, andando quindi a definire il quadro di un’esperienza decisamente dimenticabile.
Wolfenstein: The New Order
La sublimazione della saga
Siamo finalmente giunti all’ultima tappa di questa lunga storia, un ultimo capitolo che ha dato una nuova spinta vitale all’intera serie, inserendosi tra i must di questa generazione; il videogioco in questione è Wolfenstein: The New Order. Sviluppato dai talentuosi Machine Games, è stato impostato dal publisher Bethesda come titolo ponte tra l’attuale e la scorsa generazione di console, arrivando sul mercato il 20 maggio del 2014.
Dal punto di vista tecnico si nota in effetti una certa arretratezza (texture non definite, modelli non eccellenti ecc…) ma nonostante tutto ciò l’ultima fatica della casa svedese si dimostrò (e si dimostra tuttora) un vero e proprio capolavoro. Riprendendo e reinterpretando tutto ciò che di buono era stato fatto nelle iterazioni precedenti, The New Order è di fatto una summa di più generi e di differenti stili, correlati, questa volta, a un buon comparto narrativo, mai sconclusionato e adatto a svilupparsi in eventuali sequel.
Venivano quindi implementate fasi action e stealth (qualcuno ha detto Castle Wolfenstein?) una accanto all’altra, dando la possibilità al giocatore di scegliere approcci differenti per completare la quest o il livello. L’inserimento dei comandanti, in grado di chiamare rinforzi, è un forte richiamo al silenzio e alla strategia (uso di coltelli e pistola silenziata) ma una volta che questa categoria di nemici viene eliminata, le dinamiche da shooter tornano più forti che mai. La presenza dell’opzione doppia arma e la scelta di un feeling estremamente dinamico per lo shooting non fanno che confermare questa sensazione, che sfocia presto in adrenalina e rabbia cieca. Tuttavia un level design non troppo complesso ma ben definito, un buon roster di nemici e pattern dell’IA piuttosto impegnativi costringono sempre il giocatore a ragionare, garantendo quindi un equilibrio tra strategia e deriva action.