Ormai, dopo oltre 150 anni dalla pubblicazione dell’Origine delle specie (1859) e più di 200 anni da quella della Filosofia Zoologica (1809), ci dovremmo essere abituati a sentir parlare di Darwin e Lamarck quasi come fossero una cosa sola, un duo inseparabile come Tom e Jerry, Bud Spencer e Terence Hill o Linus e la copertina.

Nei libri di biologia, mascherando più o meno la cosa, si legge spesso di come il naturalista inglese, nei panni dell’eroe di turno che sconfigge le tenebre dell’ignoranza, abbia prevalso sul pensiero del vecchio professore del Musèum di Parigi.

La trama di queste vicende è famosa, quasi come quella di Star Wars; “Lord” Lamarck diffonde, prima in Francia, poi in tutta Europa, l’idea che gli animali si sforzino per raggiungere determinati scopi e, nell’esercitare l’utilizzo maggiore di una certa parte del corpo, ne migliorano l’anatomia.

Questi cambiamenti della morfologia che l’organismo accumula durante la sua vita, saranno consegnati ai suoi discendenti e a quelli dopo di loro. Si creerà, in questo modo, una linea ininterrotta di modificazioni tutte quante da intendere come positive, poiché ognuna di queste avvicina sempre un po’ di più al soddisfacimento di qualche bisogno.Nel 1859, sempre secondo le leggende, Darwin capisce che deve fare qualcosa e intervenire per ristabilire l’ordine nell’universo. Non è vero che le caratteristiche acquisite si ereditano da una generazione all’altra, ma è una forza misteriosa che produce le mutazioni, e queste sono totalmente casuali.

 

Poco importa, dunque che la giraffa si sforzi per raggiungere le foglie più in alto, i suoi figli non avranno un collo più lungo del suo, a meno che non vi nascano grazie a un colpo di fortuna.

 

Ma allora come funziona l’evoluzione?

Le variazioni di cui parla Darwin sono cieche, cioè non hanno una direzione e possono migliorare la vita dell’animale come peggiorarla.

Tanto per cominciare, le variazioni di cui parla Darwin sono cieche, cioè non hanno una direzione e possono migliorare la vita dell’animale come peggiorarla. Una volta che l’organismo nasce diverso dai suoi genitori, per una qualunque caratteristica, la natura lo seleziona. Se otterrà dei benefici dalla sua particolare anatomia sopravvivrà e avrà dei discendenti che con buona probabilità erediteranno quel particolare tratto, altrimenti morirà portandosi nell’aldilà la sua mutazione.

Questa sembrava essere la fine della storia (per risparmiare un po’ di tempo tralasciamo tutta la questione delle critiche dei contemporanei a Darwin), ma come succede per molti bei film, prima o poi qualcuno decide di girare il sequel.

 

 

Il secondo atto

Il secondo atto di questa battaglia inizia negli anni ’60, nel laboratorio di John B. Gurdon, futuro premio Nobel per la medicina.

Gurdon è un grande scienziato che fa degli esperimenti sulle cellule dei rospi.

Gurdon è un grande scienziato che fa degli esperimenti sulle cellule dei rospi. Un giorno decide, senza molte aspettative, di estrarre qualche nucleo dalle cellule epiteliali del suo compagno d’avventure John Malkovich, un esemplare di una specie di rospi africani.

Questi nuclei poi decide di inserirli all’interno di cellule uovo non fecondate, aspettandosi di non ottenere particolari sorprese. In realtà fu sorpreso eccome quando poco dopo nacquero dei girini in perfetta salute. Pareva proprio che qualcosa nell’ambiente della cellula uovo avesse cancellato la memoria del nucleo, eliminandone il passato “epiteliale”.

Era stato riprogrammato, e adesso poteva iniziare a dar vita ad un nuovo organismo.

Dunque c’è qualcosa che agisce retroattivamente sul DNA; qualcosa in grado di programmarlo a seconda della funzione che dovrà svolgere la cellula, e riprogrammarlo se la situazione lo richiede.

I risultati dovevano senza dubbio essere la dimostrazione di quello che Conrad Waddington, biologo britannico, qualche anno prima aveva chiamato panorama epigenetico (epigenetic landscape).

Man mano che la questione si faceva più intrigante, sempre più esperimenti sono stati fatti in questa direzione, indagando cioè quei meccanismi che si dimostravano in grado di agire sui geni, silenziandoli o potenziandone l’espressione.

Senza farla troppo lunga, sono state recentemente scoperte delle reazioni chimiche, come la metilazione della citosina (una delle 4 basi nucleiche del DNA) o l’acetilazione della lisina degli istoni (gruppi di amminoacidi intorno ai quali si dispone la doppia elica), che come ogni strumento di controllo, hanno il potere di regolare l’espressione genica. Il risultato di queste reazioni chimiche è quella che possiamo chiamare epimutazione, o mutazione epigenetica.

Per evitare di fare confusione, è bene chiarire subito che col termine “epigenetica” non si intende niente che vada contro le leggi di Darwin o quelle della biologia classica.

 

La definizione dell’epigenetica come «la branca della biologia che studia le interazioni causali fra i geni e il loro prodotto cellulare e pone in essere il fenotipo» è attribuita a Conrad Waddington, ma le sue origini concettuali affondano le proprie radici fino alla filosofia di Aristotele.

La definizione dell’epigenetica come «la branca della biologia che studia le interazioni causali fra i geni e il loro prodotto cellulare e pone in essere il fenotipo» è attribuita a Conrad Waddington, ma le sue origini concettuali affondano le proprie radici fino alla filosofia di Aristotele.

“Epi” dal greco significa sopra, pertanto il livello epigenetico è quello di regolazione e controllo dei geni. Questo sistema fa in modo che ogni cellula produca delle proteine adeguate alla funzione richiesta.

Poiché ogni cellula del nostro corpo racchiude in se tutto quanto il corredo genetico, cioè la totalità del DNA, sarà necessario che qualche “controllore” impedisca che le cellule del fegato inizino a riprodursi nel cervello e viceversa. Questo in poche (pochissime) parole è il ruolo del sistema epigenetico. Ben diversa è la questione quando si parla di epigenetica ereditaria.

Detto altrimenti, se una reazione chimica influenza in qualche modo il fenotipo (cioè l’aspetto esteriore) dell’organismo all’interno del quale si verifica, e la stessa variazione è presente nella prole, senza che il DNA sia differente, allora sì che andiamo al di là dei limiti della biologia darwiniana. Questo secondo modo di intendere il concetto non può che richiamare alla mente il nostro arcinemico Jean Babptiste Lamarck e la sua teoria dell’ereditabilità tra generazioni delle caratteristiche che vengono acquisite durante la vita.

Un caso di questa tipologia di mutazione è la variante Peloria (in biologia il termine indica un’anomalia botanica) della pianta chiamata Linaria vulgaris.

 

Confronto tra la Linaria Vulgaris (a sinistra) e la sua variante mutata (a destra).

 

Il mistero della Peloria ha interessato molti protagonisti del panorama evoluzionistico, a partire da Linneo e Darwin, che studiando la sua particolare conformazione, non riuscivano proprio ad inquadrarla:

La Peloria è una nuova specie, un incrocio oppure uno strano scherzo della natura?

 

Studiando la struttura molecolare di questa pianta i ricercatori hanno incredibilmente scoperto che il DNA di queste due piante era identico.

Studiando la struttura molecolare di questa pianta, la cui deviazione mutata si può cogliere ancora oggi, e confrontandola con la Linaria, i ricercatori hanno incredibilmente scoperto che il DNA di queste due piante era identico. Siamo di fronte, dunque, a due piante all’apparenza molto diverse ma con lo stesso corredo genetico che esistono simultaneamente.

Gli scienziati non poterono che concludere che la ragione di quelle differenze fenotipiche, anche così vistose, andava ricercata proprio nei meccanismi epigenetici. La mutazione fenotipica non veniva causata dal genoma eppure, molto stranamente, veniva trasmessa di generazione in generazione.

Molti altri esperimenti danno come risultato una trasmissione di questo tipo, si veda ad esempio il caso eclatante della carestia olandese durante la guerra, o gli esperimenti sul colore del pelo dei topi sottoposti alla metilazione del gene Agouti.

 

 

 

Il ritorno di Lamarck

Tutte le carte sono in tavola e Lamarck ha fatto la sua puntata.

Tutte le carte sono in tavola e Lamarck ha fatto la sua puntata. Ma si tratta veramente della vendetta del dimenticato nemico di Darwin? Chi si occupa di queste cose sa che è troppo presto per affermare la morte di Darwin; i dati a nostra disposizione sono scarsi e gli avvenimenti che si susseguono dalla riproduzione allo sviluppo dell’organismo sono incredibilmente complessi.

Direi che possiamo lasciar dormire Lamarck nel suo letto di ghiaccio ancora per un po’, scongelandolo solo quando saremo davanti a qualche certezza concreta e non a delle più modeste ipotesi di ricerca.

Per concludere, aggiungo che sia Darwin che Lamarck furono due scienziati esemplari, sempre in cerca della verità anche quando questa andava contro il senso comune e le loro credenze personali.

Il naturalista inglese, in particolar modo, vedendo molte delle sue ipotesi andavano eccessivamente contro la tradizione e vedendo opporsi molti suoi colleghi, fece mea culpa (ahimè sbagliando), proponendo altri meccanismi evolutivi paralleli alla selezione naturale.

 

Come scrive Gilberto Corbellini in un suo articolo sul sole 24 ore:

[…] noi umani non possiamo fare a meno di creare delle autorità in cui ci riconosciamo, e, allo stesso tempo, di distruggere le autorità che incarnano idee o valori che non capiamo o ci infastidiscono.

Difendiamo o attacchiamo le autorità socialmente costituite, spesso aderendo al semplice impulso di farlo. E questa dinamica dell’etologia umana non si applica solo ai leader politici, ma anche alle autorità scientifiche.

Detto questo,

quando si contrappongono Darwin e Lamarck rispetto alla questione dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti si aderisce a un luogo comune. Che, come gran parte dei luoghi comuni, è falso.

 

Se la ricerca scientifica avrà i dati per poter organizzare l’ennesima rivoluzione copernicana, l’accoglieremo a braccia – e mente – aperta. Tuttavia, sono abbastanza sicuro che i nuovi risultati non ci imporranno di gettare dalla torre qualche illustre personalità.

Nonostante la nostra indole ribelle, è molto probabile che se fossero ancora qui a lottare insieme a noi, anche il buon Charles Darwin, così come il nemico di una vita Jean Baptiste Lamarck, sarebbero entusiasti delle conoscenze che abbiamo raggiunto, a prescindere da chi reputiamo essere il vincitore.

 

Nota: Il resoconto dello sviluppo e delle sorti delle teorie di Darwin e di Lamarck che ho riportato non può che essere sbrigativo e romanzato. Per una ricostruzione più accurata suggerisco l’ottimo saggio di Giulio Barsanti intitolato: Una lunga pazienza cieca.