Pirati dei Caraibi – La Vendetta di Salazar: se una saga è rotta…

“Battere il ferro finchè è caldo”. “Mungere la vacca”. “Tirare la corda”. Questi sono solo alcuni dei modi di dire che possono venire in mente guardando Pirati dei Caraibi- La Vendetta di Salazar, il quinto capitolo della saga di casa Disney iniziata quattordici anni fa da Gore Verbinski con La Maledizione della Prima Luna. La magia dei titoli tradotti in italiano.

Il primo film era la classica operazione commerciale basata sul “Chi vivrà vedrà”: l’obiettivo era chiaramente quello di iniziare una saga a partire dalle atmosfere prese in prestito dalla celebre attrazione Pirates of the Caribbean presente nel parco divertimenti Disneyland, ma dando alla pellicola una parvenza di autoconclusività, così da non lasciare la storia aperta in caso di flop al botteghino.

Flop che, ovviamente, non è arrivato, facendo sì che qualche anno dopo uscisse il secondo capitolo, legato a doppio filo al terzo, rilasciato nelle sale nel giro di pochi mesi ed entrambi erano stati diretti come un film unico dal solito Verbinski.

Un po’ come era accaduto con la trilogia di Matrix, insomma. Dei primi tre film si tende a conservare un ricordo piacevole, anche se il terzo risulta essere per molti il più debole e ricco di difetti evidenti, ma nel complesso non si può negare che tutto, dai personaggi alle musiche di Hans Zimmer, sia entrato a pieno diritto nell’immaginario collettivo. La verità, però, è che di Pirati dei Caraibi sarebbe bastata la prima trilogia.

Quando nel 2011 uscì Pirati dei Caraibi- Oltre i Confini del Mare, diretto stavolta da Rob Marshall, l’accoglienza del pubblico fu freddina: non c’era mordente, si sentiva la mancanza della regia di Verbinski, mancavano alcuni dei personaggi più rappresentativi della saga e, come se non bastasse, Johnny Depp nei panni di Jack Sparrow appariva più stanco che mai.

 

 

Perché proseguire ulteriormente, dunque? Era evidente che ormai la ciurma di pirati più famosa del mondo non avesse più nulla di concreto da raccontare. ma si sa, il Dio Denaro a volte è più forte di qualunque buona idea, quindi ecco un quinto capitolo che, sulla carta, non aveva granché senso di esistere.

Ma è sempre giusto dare il beneficio del dubbio.

I problemi si notano fin dall’inizio, con un improsciuttito Orlando Bloom decisamente poco convinto che riporta in scena Will Turner, o,  per meglio dire, l’ombra del personaggio che ricordavamo, addirittura poco coerente rispetto a come avrebbe dovuto essere, se si pensa a come si era conclusa la prima trilogia.

Quello che probabilmente infastidisce di più è il fatto che per mesi abbiano insistito sul ritorno dei personaggi originali della saga, quando poi la loro presenza si limita a qualcosa che è poco più di un semplice cameo.

Un cameo utile alla trama, va detto, ma pur sempre di cameo si tratta. L’obiettivo è fin da subito quello di introdurre nuovi personaggi che riescano a risultare davvero interessanti, o quantomeno più di quanto non lo fossero l’Angelica interpretata da Penelope Cruz o il missionario e la sirena del quarto capitolo, che sono stati prontamente accantonati.

Quindi ecco l’ennesimo personaggio femminile forte ed indipendente in puro stile Disney ultima maniera, la convincente Carina portata in scena da una grintosa Kaya Scodelario, che tutti ricordiamo come Effy in Skins. Carina risulta fin da subito abbastanza intrigante, con la sua propensione verso le materie scientifiche, e presenta nel corso del film dei risvolti affascinanti. Un po’ meno mordace, invece, è Brenton Thwaites, reduce da The GiverGods of Egypt:

Il suo Henry Turner è simpatico, ma forse troppo poco approfondito psicologicamente, anche meno degli altri personaggi, che comunque devono già accontentarsi di una personalità sviluppata solo superficialmente. Da qui si capisce che forse, nelle intenzioni della produzione, questo film non sarà l’ultimo della saga come tanto si sente dire: sembra abbastanza evidente che con questi nuovi personaggi vogliano creare un’eredità che possano portare avanti magari tra qualche anno, sostituendo man mano quelli più noti.

 

 

È una tesi, questa, avvalorata anche dalla presenza di Golshifteh Farahani nei panni di una strega tanto misteriosa quanto interessante visivamente parlando, ma anche poco utile ai fini della trama e, soprattutto, davvero poco sfruttata, come se avessero voluto introdurla in attesa di ritornare su di lei in futuro, magari dandole più spazio accanto ai personaggi storici. E le note dolenti arrivano proprio qui, con le vecchie conoscenze che non sono state sfruttate al massimo delle loro potenzialità.

Johnny Depp, ormai, non ci prova nemmeno più.

Johnny Depp, ormai, non ci prova nemmeno più. Il suo Jack Sparrow è diventato una miserabile macchietta relegata a battute che definire puerili sarebbe un complimento, con pantaloni che gli cadono e gabbiani che lo usano come latrina per sottolineare la pochezza delle gag che lo riguardano.

Senza contare che sì, è anche vero che di fatto il motore della trama è lui, ma al di là di quello non compie alcuna azione che possa definirsi utile: è un comprimario che si ostina a voler essere protagonista. Se ben vi ricordate, nel primo film il buon Jack era uno dei protagonisti, ma non era il personaggio principale a cui si dava maggior peso ed è per quello che funzionava: era magnetico, affascinante, insolito e per nulla ingombrante.

Già dal secondo film la solfa aveva iniziato a cambiare, per virare verso il quasi disatro nel terzo capitolo, dove vedevamo il personaggio alle prese con dialoghi assurdi con versioni miniaturizzate di sè stesso. il camp, quello brutto. La prima scena in cui compare nel film è, ad esempio, una lunghissima sequenza certamente spettacolare, ma anche troppo lunga e tediosa, il perfetto degenero di ciò che avevamo visto con la memorabile scena della ruota di legno in Pirati dei Caraibi- La Maledizione del Forziere Fantasma, che già durava più del dovuto, pur rimanendo gradevole.

 

 

Aggiungiamoci poi che nel corso della pellicola il personaggio compie un’azione totalmente in contrasto con quanto mostrato in tredici anni di saga e capirete quanto si siano spinti troppo in là con la sua caratterizzazione, cosa abbastanza triste se si pensa che alla stesura del soggetto abbiamo ancora una volta Terry Rossio, sceneggiatore di tutti i capitoli precedenti, qui al suo secondo buco nell’acqua per quanto riguarda questa specifica materia.

Ma Jack Sparrow non è il solo personaggio ad essere stato scritto male ed interpretato peggio, dal momento che anche un comprimario esilarante come Mastro Gibbs ha perso tutta la verve che lo aveva sempre contraddistinto. Quel che è peggio è che, a risultare poco utile se non nella parte finale, è il Barbossa di Geoffrey Rush: probabilmente uno dei migliori personaggi, che non aveva vacillato nemmeno nel film precedente, a dispetto di tutto, qui quasi del tutto bistrattato.

La trama tende a dargli una certa importanza in alcuni momenti, ma si ha la costante sensazione che manchi qualcosa, soprattutto nell’interpretazione di Rush, decisamente sottotono rispetto al passato.  In tutto questo c’è da chiedersi se almeno il villain, quel Salazar che da il titolo al film- almeno nella versione italiana-, sia stato in grado di dare un senso al film. la risposta, per me, è un secco e perentorio NO.

Intendiamoci: Javier Bardem è sempre un grande attore e qui si deve essere divertito ad interpretare con un certo istrionismo il perfido (?) capitano spagnolo, ma il grosso difetto di Salazar è il fatto di risultare una pallida imitazione dei villain più rappresentativi dei film precedenti, come il Barbossa del primo capitolo o l’inimitabile Davy Jones.

Entrambi questi personaggi erano soggetti a maledizioni terribili che venivano spiegate in un modo accettabile e credibile, dato il contesto dei film. La maledizione che investe Salazar e la sua ciurma, invece, non viene propriamente spiegata e sembra quasi che il film non voglia darci alcun dettagli specifico perché si tratta di un fantasy e quindi certe stranezze si possono accettare di buon grado. Peccato che non funzioni così. Che si parli di fantasy o di fantascienza, deve sempre esserci una qualche spiegazione contestualizzata, altrimenti viene meno la capacità da parte dello spettatore di credere a quanto sta guardando, nonostante la famigerata sospensione dell’incredulità.

 

 

 

 

Salazar, dunque, rimane un villain di superficie, spesso troppo sopra le righe, anche se decisamente notevole dal punto di vista visivo: il carisma, almeno esteticamente, non gli manca. Il che rende il fatto che la sceneggiatura non sia riuscito a renderlo memorabile ancora più triste. Per riassumere tutto il discorso in poche parole, questo film manca di un impegno alla base sia da parte della maggior parte degli attori che da parte di Rossio nel soggetto e di Jeff Nathanson nella sceneggiatura, forse perché non ci sono più storie interessanti da raccontare a riguardo.

In effetti, a ben guardare, la trama è pressoché inesistente e si può parlare più che altro di un’idea di trama, una linea guida continua che i personaggi percorrono stancamente spostandosi dal punto A al punto B con uno scopo ben preciso e, purtroppo, banale. Non parliamo poi del ruolo imbarazzante della marina navale britannica, che non gode nemmeno per sbaglio dell’importanza che ha sempre avuto nei film precedenti, al punto da domandarsi se non sarebbe stato meglio evitare di inserire personaggi che la rappresentassero e, soprattutto, di far interpretare uno di questi a David Whenam, il cui contributo nel film è quasi pari a zero, narrativamente parlando.

Persino le musiche di Geoff Zanelli paiono un debole tentativo di emulare i temi creati anni orsono dal ben più dotato Zimmer, non risultando altrettanto epiche nell’esecuzione. Una domanda che mi sono posto in continuazione durante la visione è stata: “Come sarebbe stato questo film se alla regia ci fosse stato nuovamente Verbinski?”.

Casualmente il tracollo della saga è avvenuto proprio dopo l’abbandono del regista, che ha sempre saputo come spettacolarizzare ogni scena action, soprattutto le battaglie navali. Verbinski, che nel corso della sua carriera ha diretto film iconici come i primi capitoli di Pirati dei Caraibi e The Ring. è un autore che ha saputo mantenere viva la propria poetica pur muovendosi nell’ambito del cinema commerciale di larghissimo consumo, cosa non facile.

Non si può dire altrettanto di Joachim Ronning ed Espen Sandberg, i registi norvegesi di questo quinto capitolo, noti per aver diretto Bandidas Kon Tiki, film candidato all’Oscar come miglior film straniero qualche anno fa. Se nelle pellicole dirette precedentemente i due avevano dimostrato un certo talento, qui hanno deciso di dirigere questo blockbuster con mestiere, ma niente di più: molte scene sono senza dubbio spettacolari, ma non grazie ad un sapiente utilizzo della macchina da presa o delle inquadrature.

Tutto ciò che rende emozionanti i pochi momenti veramente degni di nota sono gli strabilianti effetti visivi, che, paradossalmente, erano la cosa che più mi aveva preoccupato guardando i trailer, temendo che fossero eccessivamente ingombranti come spesso accade con i film Disney degli ultimi anni.

Gli effetti digitali sono presenti massicciamente, è vero, ma sono suggestivi al punto da farti dimenticare il loro utilizzo quasi esagerato, lasciandosi immergere nelle atmosfere fantasy estremamente affascinanti. Ecco, affascinanti sì, ma meno piratesche rispetto a quanto ci si aspetterebbe da un film sui pirati. O, comunque, da un Pirati dei Caraibi.

 

 

In sintesi, quest’ultimo film della saga è privo di uno svolgimento narrativo interessante, con un ritmo estremamente discontinuo che può portare lo spettatore alla noia, personaggi poco caratterizzati in profondità che vengono introdotti in un lasso di tempo decisamente esagerato.

Con il risultato di appesantire la prima parte, e un villain che non riesce a convincere fino in fondo come si sarebbe sperato.

Per Jerry Bruckheimer e la Disney, forse, è giunto il momento di preparare il cappio al progetto. Ma si sa, i morti, quando si tratta di questa saga, possono tornare in vita. Attendiamo l’ennesimo seguito fuori tempo massimo, magari sorseggiando mestamente una bottiglia di rhum.

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