Esilarante in modo imprevedibile I don’t feel at home in this world anymore è il titolo perfetto del fresco vincitore del Sundance 2017. Tale è lo stato d’animo di Ruth – un’assistente infermiera che viene derubata in casa e vorrà rintracciare i responsabili – impersonata da una Melanie Lynskey fenomenale, che passa credibilmente dal prendersi cura dei geriatrici allo scazzottarli con una valigia piena di argenteria.
In guerra può succedere..
Così tenta di rincuorarla il quasi-vicino di casa Tony, un Elijah Wood che fa letteralmente faville, riuscendo a coniugare bontà, stravaganza e comicità involontaria-alla-Galifianakis in un personaggio che forse lo consacra definitivamente come attore-cult (considerata la serie di progetti imbroccati negli ultimi anni).
Torna un Elijah Wood più instabile che in Wilfred e meno esaurito rispetto a Dirk Gently. L’attore si fa attendere nella prima e anche nell’ultima parte di una storia in cui cercano di spuntarla i timidi e gli onesti, e dove per guerra s’intende il tentativo di essere buoni e sistemare le cose at home in this world.
Solo Ruth saprà esprimere meglio di lui questo postulato di vita, in risposta a un rozzo “che cosa vuoi” e utilizzando altrettanta concisione anche grazie al termine inequivocabile per eccellenza: assholes.
Il duo, composto da emarginati persi nei loro pensieri e assorbiti dalle routines, è l’incontro impacciato di un uomo e di una donna erranti nel quotidiano. Presto scopriranno di avere uno scopo in comune per il quale erano preparati da tempo, come fu per Jeff nell’indimenticabile Jeff, Who Lives at Home dei fratelli Duplass.
Esemplare come tutto prenda il via dallo sbandamento civico-personale-famigliare, presentato in chiave illuminante in modo da non farne un dramma clamoroso, bensì un accostamento febbrile di immagini e suoni. Di fortissimo impatto la scena d’apertura basata sul contrasto Ruth che trinca la birra sotto la volta celeste muta / chiacchiericcio serale del vicinato festoso a suon di posate.
Quella che diventerà a tutti gli effetti una giustizia privata (ogni riferimento a film esistenti o a fatti giuridici realmente accaduti è puramente casuale) per alcuni è pura rivalsa sui propri demoni, mentre per altri è l’unico sentiero percorribile nel brivido dell’ignoto.
Lontano da coloro che preferiscono ascoltare versioni radiofoniche di sé stessi, chiudendo i microfoni al pubblico, Ruth e Tony ballano, derapano e firmano piccoli atti di coraggio. Il riverbero che ottengono non sarà leggendario, nulla a che vedere con Defendor o Kick-Ass, ma rischia comunque di montare la testa a uno dei due protagonisti.
Escrementi di cane altrui nel giardino, furti in casa, polizia svogliata burocratizzata e antidepressivi: per Ruth si tratta di uscire dal suo guscio
(cantava un Vasco più tautologico che mai ‘tu sei chiusa nel tuo guscio ma la cosa non potrà durare ancora molto‘). E anche di indagare, chiedere spiegazioni, performare la propria cittadinanza attiva con ogni mezzo lecito e non.
Da vittima ad artefice del proprio destino. Dai piagnistei all’amicizia con un infallibile lanciatore di shuriken dalla favella molto geek per quanto riguarda la spiritualità – un mix di orientale e cristiano – e le relative tecniche del mestiere: preghiere e arti marziali.
Macon Blair (qui ha scritto e diretto e comparsato) per quanto mi riguarda ha fatto tripletta. Dopo Blue Ruin (attore/produttore) e Green Room (attore), e nonostante il cambio registico (Jeremy Saulnier per i primi due), c’è il produttore Neil Kopp a far da filo conduttore per quella che potrebbe configurarsi come una proper trilogy.
Infatti..
per nessi, tematiche e schemi non ha nulla da invidiare a celebri trilogie come quelle del dollaro, del cornetto o della vendetta.
Abbiamo: semplicità cruda che rasserena e sorprende, personaggi innocui che la forza di volontà trasforma in bombe ad orologeria, buoni e cattivi che assaggiano gli uni i ruoli degli altri. E ancora, soggetti periferici fuori dai giochi vuoi per incapacità, per incolumità o perché stanno nella zona franca della normalità (quasi esterni al film stesso). Infine trame ad imbuto, dove figuranti e incastri gradualmente si avvicinano, andando a risolversi del tutto o quasi in abitazioni e luoghi al chiuso. Invece la distensione avviene in luoghi all’aperto, quasi sempre una foresta.
Insomma sembra che la squadra Blair-Saulnier-Kopp abbia qualcosa da dire, una poetica tutta sua da sviscerare, tra stile anticonformista (un pò telefonato ma anche un pò autentico) e aroma di denuncia sociale. Certo non si parla di Io, Daniel Blake o Deathgasm.
Resta il fatto che rimarrò sintonizzato. E se aprendo Netflix troverò di nuovo un loro gioiellino, possibilmente con Elijah Wood e la stessa Melanie Lynskey in prima linea, non passerò mezz’ora nell’imbarazzo della scelta e ci cliccherò sopra senza indugio.
I don’t feel at home in this world anymore è disponibile su netflix.it