Questo racconto fa parte di una serie ambientata nel mondo dei Pokemon, che però costituisce soltanto lo sfondo narrativo, da cui cerco di partire per altre sponde. La serie, ambientata dopo gli eventi di Blu e Rosso, ha come protagonisti i personaggi principali del videogame.

L’oceano era un riflesso del cielo. Azzurro, interrotto da nuvole sottili che sgusciavano rapide verso l’orizzonte, sospinte dai forti venti della stratosfera. Allo stesso modo lo scuro volto del mare era intervallato dalla spuma nata dal moto ondoso, che ne rivelava un’energia altrimenti celata nel placido blu. Il bagnasciuga ondulava sulle sponde, trascinando con sé infinitesime parti di riva ad ogni sospiro.

Il bagnasciuga ondulava sulle sponde, trascinando con sé infinitesime parti di riva ad ogni sospiro.

Se valesse il paradosso di Zenone, pensò l’anziano signore in piedi ai confini fra l’acqua e la terra, questo posto non cesserebbe mai di esistere. Per quanti granelli di sabbia porti con sé ogni secondo il mare, ce ne sarebbe sempre uno in più portato dal vento. E come il corridore con la tartaruga, non riuscirebbe mai a raggiungerlo. Ma dopo aver portato a termine il proprio pensiero sospirò, perché la filosofia di Zenone non era sopravvissuta ai millenni, e non sarebbe bastata a salvare l’isola.

Se valesse il paradosso di Zenone questo posto non smetterebbe mai di esistere.

Il sole era alto sopra l’orizzonte, e si sa che a certe latitudini non è difficile ustionarsi. Ma il vecchio non ci fece caso. Non l’acqua, né il cinereo cielo, erano il suo elemento. Invece i raggi solari, e il fuoco, con cui la cute grinzosa era ormai più che adattata all’arsura delle fiamme. Anche troppo, rifletté, guardando la macchia marrone sul braccio.

Non aveva bisogno di farsi visitare per sapere di cosa si trattasse. Cinquant’anni prima, quando era poco più di un ragazzo, aveva visto suo nonno svanire così. Pochi anni dopo anche suo padre aveva lasciato quelle sponde allo stesso modo. All’epoca non c’era cura per quel male.

Oggi forse si, ma non se ne curava. Infine in qualche modo bisogna lasciare la propria terra. E come un capitano che affonda assieme alla propria nave, ora che non ho più nulla non combatterò la malattia del fuoco. Ma aveva ancora tempo, molto tempo. Ci sarebbero voluti anni prima di doversi arrendere al dolore. E la sua vita, lo aveva visto con l’esperienza, non ne avrebbe risentito fino quasi alla fine.

Non aveva bisogno di farsi visitare per sapere di cosa si trattasse.

Il lieve rombo alle sue spalle irruppe nel silenzioso frusciare del vento, sterzando il flusso dei propri pensieri. Che l’arido monte si fosse fatto infine più deciso? Non credo, pensò, anzi che ci vorrà più tempo di quanto non avessimo creduto in principio. Il rombo era la causa del silenzio dell’isola, che nel giro di un mese si era spopolata. Le famiglie erano state le prime a fuggire sul continente.

Poi i pescatori, senza più clienti cui vendere il risultato delle proprie fatiche. Nell’ultima settimana era rimasto solo lui. Lance in persona era venuto a trovarlo, e dopo ore di discussione era riuscito a convincerlo a trasferirsi sulle Isole Spumarine.

Blane aveva acconsentito, a malincuore, soltanto perché sperava di poter fondare una nuova città per i superstiti, in modo che lo spirito dell’Isola Cannella non venisse perduto. In cuor proprio sperava che l’eruzione non avrebbe distrutto l’isola.

Ma tutti gli scienziati erano concordi riguardo le segnalazioni. L’isola sarebbe stata spazzata via, e con essa la sua ultima speranza. Per questo se ne stava andando ora. Non vi è nulla di più doloroso, si sa, che covare dentro di se un miraggio irrealizzabile, lasciarlo crescere pian piano ogni giorno.

Si avviluppa alle membra, pervade il corpo di un calore finto, così che quando viene stroncata la sofferenza è insostenibile. Sono troppo vecchio per illudermi in questo modo, si disse. E i sogni degli anziani devono trarre linfa non dalla speranza del futuro bensì dai fasti del passato.

Anche se mi sostengo con l’idea di una rinascita non posso dimenticare quello che sono, pensò, solo un uomo al termine del sentiero che segue il sole nel suo viaggio verso le sponde dell’occidente.

Non c’è nulla di più doloroso che covare dentro di sé un miraggio irrealizzabile.

Anche questa giornata aveva incominciato la propria fine. Guardò in lontananza, cercando di distinguere dove il mare abbandonasse il cielo e viceversa. Questo orizzonte gli ricordò gli innumerevoli tramonti che aveva vissuto su quella spiaggia. Ma nella propria memoria non riusciva a distinguerli uno dall’altro, se non nei dettagli.

Gli sfondi nelle gallerie della mente sono sempre gli stessi. Quando si attinge al ricordo tutti i tramonti di colori diversi diventano un solo tramonto di un solo colore. Presto ogni cosa sparirà, pensò, e di tutto quello che ho fatto, tutto ciò che ho provato, non rimarrà che grigia cenere, sfumata dalla malinconia che con il passare del tempo rende tutto dorato.

Quando si attinge al ricordo tutti i tramonti di colori diversi diventano un solo tramonto di un solo colore.

Presto la luce sarebbe sfumata e il sole sceso dietro l’orizzonte. Si decise ad andare. Prima si chinò a toccare la tiepida sabbia nera. Il ricordo di una giornata di studi, in quello stesso posto, riaffiorò alla mente come una bolla strappata alle tenebre dell’oceano.

Non riuscì trattenere una lacrima. Voltò le spalle al mare, pensando a quelle parole, di come da bambino non fosse stato in grado di comprenderle. E ripetendole, lasciò la propria casa.

 

Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque…