Il 21 Ottobre arriva su Netflix l’attesa terza stagione di Black Mirror, distopica serie antologica dell’inglese Charlie Brooker, creatore del format nel 2011 per Endemol. A due anni dalla messa onda inglese dello spaciale White Christmas, Brooker torna con una produzione più americana, ma con una stagione che non delude le aspettative.
La tecnologia moderna e contemporanea ha ormai plasmato le vite di tutti noi. Sarebbe quasi del tutto impensabile riuscire a fare qualsiasi cosa senza almeno un minimo di supporto tecnologico. Ma dove si trova il confine tra necessario e ossessione? Quando, precisamente, abbiamo iniziato a essere schiavi delle nostre stesse creazioni?
Charlie Brooker sceneggiatore e produttore televisivo britannico, si interroga proprio su questo, e partendo da questa riflessione crea nel 2011 Black Mirror, una serie antologica composta da soli tre episodi di 60 minuti ciascuno (o giù di lì). Attori e personaggi diversi, storie diverse, registi diversi, ma un unico minimo comune denominatore: la tecnologia.
Attraverso l’uso della tecnologia, Black Mirror da un chiaro quanto cinico e disturbante quadro della nostra società attuale.
Quella schiava dei social, dipendente dai giudizi elettronici, vite falsamente perfette sullo schermo. Quella degli ostentamenti, dei canoni estetici e sociali autoimposti; la stessa del cyberbullismo, dei mondi virtuali, dei limiti da superare constantemente, dimenticando anche solo la paura della morte ma, soprattutto, cosa voglia dire sentirsi vivi.
Black Mirror è una parabola sulla vita che abbiamo smesso di vivere.
The National Anthem, pilot della prima stagione diretto da Otto Bathurst con protagonista Rory Kinnear, segna il momento più alto della televisione brittanica, diventando un successo mondiale. Brooker supera il confine tra cinema e serialità, portando un prodotto nuovo, magnetico e incredibile spaventoso.
Un format capace di far riflettere sulla nostra stessa esistenza, sui nostri usi e costumi, portandoci brutalmente di fronte alla realtà. Black Mirror delinea i nostri limiti e ci ripete, costantemente, di quanto ormai sia troppo tardi. Di quanto tutto questo sia dentro di noi.
Dopo una pausa di quasi due anni, Brooker tornò nel 2013 con una nuova stagione sempre composta da tre episodi. Per poi dedicarsi, un anno dopo, allo speciale natalizio White Christmas, diretto da Carl Tibbetts, con protagonista il “mad man” di AMC, Jon Hamm.
La notizia di una possibile collaborazione tra Netflix e Brooker, era arrivata solo un anno fa. Notizia che da un lato aveva esaltato tutti gli appassionati della serie, e dall’altro spaventato per il passaggio da una produzione inglese a una produzione americana.
Lo stile inglese di Black Mirror è sempre stato, indubbiamente, tra le sue carte vincenti. Freddo, minimale, tagliente. Capace di soffermarsi immediatamente sul fulcro dell’azione, della situazone, del tema. Il pericolo che Brooker potesse sbagliare strada, o fosse condotto a farlo, era molto alto.
Un budget più alto, volti più conosciuti. Eppure Brooker ha conservato alcuni dei suoi registi, confezionando una terza stagione fatta di ben sei episodi, tutti tra i 50 e i 60 minuti, escluso l’ultimo episodio, Hated in the Nation di James Hawes, dalla durata di 90 minuti, che si dividono in tre episodi americani e tre inglesi.
Il nostro Itomi, lo scorso 12 Ottobre, è stato all’anteprima europea a Londra dove hanno proiettato l’ultimo episodio di Black Mirror 3. Vi consiglio di leggere la sua recensione:
Ho dovuto aspettare qualche giorno, causa il lungo periodo di Festival, per potermi finalmente godere il lavoro di Charlie Brooker accompagnato dalla cara Netflix. Una domenica di immersione in un mondo che si riconferma essere disturbante, ansiogeno, carico di dettagli e particolari che riflettono, come uno specchio rotto, la nostra realtà.
Vediamo meglio, ogni episodio, nel dettaglio.
Ep.1 Nosedive
di Joe Wright
Regista inglese, attori americani, atmosfera universale. La parola chiave di questo primo episodio è decadimento. La distruzione dell’autenticità dell’essere. Brooker e Wright “elogiano” un mondo di sola apparenza, determinato da stelline, statistiche e punteggi.
Ogni individuo, ogni relazione sociale, viene determinata da un’app che permette di dare punteggi.
L’importanza di questo strumento è tale che viene utilizzato come se fosse un parametro di distinzione tra classi sociali. Residenze lussuose, voli in prima classe o con priorità, noleggio di auto, tutto è definito in base a un determinato punteggio. Andare sotto al tre vuol dire rappresentare la nullità, un rifiuto e scarto. Scendere al di sotto dell’uno è commettere reato.
Una follia che condiziona la maggior parte delle persone a comportarsi, sempre e comunque, con un’innaturale allegria, simpatia e comprensione del prossimo.
Nulla è più spontaneo e naturale, tutto ciò che facciamo e poi pubblichiamo viene fatto per un unico e specifico scopo: piacere agli altri. In questo universo non è più consentito fare qualcosa per il gusto di farla o perché la nostra personalità, il nostro essere, ci conduce in quella determinata condizione. Perdere il controllo, la pazienza, è una grave forma di mancanza nei confronti degli altri, con la conseguenza di scendere di un punto.
La protagonista di questa storia, Lacie (Bryce Dallas Howard), è totalmente divorata da questa smania verso la scalata alle cinque stelline, a tal punto da perdere qualsiasi contatto con se stessa, reprimendo tutto ciò che non tollera, che non ama.
Ma fino a che punto possiamo davvero reprimere la nostra natura?
Nosedive, con i suoi colori pastello, la sua atmosfera anni cinquanta e il finto zuccheroso aspetto di tutti i suoi personaggi, segna il perfetto contrasto con la perdita dell’autenticità dell’uomo e dalla sua totale dipendenza nei confronti del giudizio degli altri, dalle azioni ai vestiti, passando per il cibo.
La terza stagione di Black Mirror non poteva aprisi in un modo migliore.
Un episodio che colpisce nel profondo, una caduta nella disperazione che lo spettatore compie assieme alla protagonista, una straordinaria Bryce Dallas Howard da lasciare senza fiato.
Un episodio che porta le lacrime agli occhi, spingendo moltissimo sull’empatia con il personaggio. Fotografia pulita e chiara, montaggio lineare ma che, nell’arrivare verso la totale perdita di controllo, si fa più serrata. Una continua armonia tra storia e tecnica che non può non lasciare senza fiato. E questo è solo l’inizio.
Ep. 2 Playtest
di Dan Trachtenberg
Era un cazzo di Inception. Lo era?
Tra tutti gli episodi di Black Mirror, andando a toccare anche le stagioni precedenti, Playtest è quello dall’anima più thriller e horror, andando a giocare moltissimo sui piani del subconscio e della paura.
Una mescolanza di genere che, però, sa perfettamente unirsi ai toni della realtà, sembrando pertanto totalmente realistica, e che conduce il protagonista, assieme allo spettatore, in una spirale senza fine. Un gioco di scatole cinesi che farebbe invidia ai nostri Nolan e Lynch.
Sicuramente tra gli episodi più americani, non a caso la mano è di Dan Trachtenberg, regista americano di 10 Cloverfield Lane.
E già in 10 Cloverfield Lane avevamo visto come Trachtenberg fosse abile nell’unire i due generi, creando un qualcosa di unico, capace di lasciare lo spettatore totalmente rapito dalla scena. In un periodo in cui si produce molto horror, ma poco horror di qualità, Playtest è uno dei prodotti di genere meglio riusciti degli ultimi tempi. Adrenalina, ansia e brivido. Un mix letale che prende forma sotto le paranoie e le suggestioni di un gioco.
Cooper (Wyatt Russell) è appena arrivato a Londra, ultima tappa del suo lungo viaggio prima di far ritorno in America. Rimasto senza soldi, e non avendo voglia di chiamare la madre per chiedergliene in prestito, diventa il beta tester di una famosa casa di videogiochi.
Il prodotto da testare, in questo caso, è una delle forme più evolute della VR, collegata direttamente alle reti neurali attraverso un “chiodino” applicato dietro la nuca del giocatore.
Il gioco è in grado di leggere all’interno della mente del giocatore, creando una realtà assolutamente perfetta e che gioca meschinamente con le sue paure più recondite. La pericolosità del gioco risiede proprio nella sua grande capacità di trasformare in realtà le suggestioni più profonde del giocatore, trascinandolo in un oblio di paure e di ansie. L’obiettivo di ogni giocatore è vincere e, nel caso degli horror, restare vivi. Riuscirà, quindi, Cooper a sopravvivere a se stesso?
Il primo pensiero che ha sfiorato la mia mente dopo che l’episodio entra nel vivo del gioco è stato: neanche per tutto l’oro del mondo. Playtest segna l’andare assolutamente oltre il limite di qualsiasi gioco. Definisce lo stato di noia delle generazioni di adesso e il cercare di ricreare realtà virtuali sempre più perfettamente realistiche e vicine alla nostra.
Trachtenberg è abilissimo nel farci entrare in una spirale dalla quale è difficile uscirne, rendendo impossibile distingue la realtà dalla finzione, apparenza e suggestione. Un perfetto dosaggio della suspense che porta a far balzare dal divano.
Predomina il colore più scura, quasi dark, contrapposto a momenti di luce più chiara e intensa, in cui il protagonista si trova in bilico tra due mondi. Dopo Playtest guardarete la VR con un occhio completamente diverso.
Ep.3 Shut Up And Dance
di James Watkins
E al terzo episodio arrivano gli inglesi e non ce n’è per nessuno. Shut Up and Dance, dopo una visione completa di questa terza stagione, è l’episodio più bello e migliore sotto molti aspetti. Il ritorno al primo Black Mirror, tipicamente british e dalle atmosfere disturbanti.
Alla fine di questo episodio sarà difficile trattenere la nausea, non sentire un senso di allienazione pervadervi il corpo e la necessità di buttarvi a vedere episodi random di My Little Pony.
Scherzi a parte, la capacità di Watkins risiede nello spiazzare totalmente lo spettatore, conducendolo verso una strada con i protagonisti dell’episodio, per poi colpirlo sadicamente e inaspettamente. Un colpo durissimo, difficile da immaginare e comunque impossibile da digerire.
Lo stesso senso di nausea e ansia che ci ha attanagliato nel primo episodio della primissima stagione, The National Anthem, ritorna in Shut Up and Dance, ma stavolta riservandosi un colpo ancora più diretto.
Kenny (Alex Lawther) è un ragazzino che, a causa di un malware sul computer, viene ripreso da degli sconosciuti, attraverso la sua web cam, mentre si sta masturbando. Il gruppo di sconosciuti minaccia Kenny di pubblicare il video online se non farà tutto quello che loro gli ordineranno di fare.
Inizia una corsa contro il tempo della durata di 12 ore. In questo lasso di tempo Kenny incontrerà altre vittime degli hacker, tra cui Hector (Jerome Flynn). Un gioco mortale, quasi in stile Hunger Games, dove in palio c’è tutto: la propria dignità, l’affetto dei propri cari, la propria vita.
Esattamente come nel caso dei personaggi precedenti, lo spettatore scivola nella mente del protagonista, vivendo un costante stato di ansia, paura e tortura interiore. L’episodio più snervante di tutta la stagione. Un senso di continuo malessere pervade la visione dell’episodio, caratterizzato da toni molto freddi tendenti al verde. Asetticco, cinico e imparziale. La durissima “legge” di Black Mirror colpisce con la sua ironia inglese, senza lasciare superstiti, senza fare alcuna distinzione.
Uscirne sani da questo episodio è davvero difficile. Non si può fare a meno di ammirare la bravura di Brooker e Watkins nella creazione di questo episodio, secondo solo a The National Anthem. Perfetto in ogni sua articolazione, dalla storia ai personaggi, dalla regia alla gestione dei tempi. Cinquatadue minuti di piena ansia, toccando tematiche che vanno dal cyberbullismo al pedopornografia, scivolando su argomenti meno chiari come il deep web e le insidie che si nascondono in esso.
In questo caso Black Mirror usa la teconologia a favore di qualcosa di più grande, facendo della critica e, al tempo stesso, chiarezza su argomenti importantissimi nel nostro tempo, ma che spesso vengono accontanati e non approfonditi come meriterebbero.
Ep. 4 San Junipero
di Owen Harris
Si continua in stile inglese, con un vecchio amico di Black Mirror, Owen Harris, regista di Be Right Back, primo episodio della seconda stagione, uno dei migliori di tutto il format.
Owen Harris e Charlie Brooker, insieme, riescono a creare storie affascinanti e magnetiche, giocando moltissimo con la sfera dei sentimenti.
Be Right Back è, senza ombra di dubbio, uno degli episodi più strazianti di Black Mirror, in cui al centro di tutto c’è il bisogno disperato di non perdere chi si ama, anche dopo la morte, portando la protagonista dell’episodio, Martha (Hayley Atwell), a trasferire la memoria del defunto compagno Ash (Domhnall Gleeson) in un clone. Se adorate le storie d’amore senza lieto fine, dovete vederlo assolutamente.
San Junipero parte da un concetto molto simile e che riguarda sia la vita che la morte. Un luogo di divertimento, simile a Ibiza, dove si può essere se stessi senza dover dar conto a nessuno. Un luogo molto particolare, racchiuso nel magico mondo degli anni ottanta.
Ed è proprio qui, uno dei tanti sabato sera, che Yorkie (Mackenzie Davis) e Kelly (Gugu Mbatha-Raw) si incontro. La prima timida e riservata, nascosta sotto una montatura di occhiali troppo grande, la seconda una vera pantera da discoteca, a suo agio nel suo corpo e con i suoi vestiti eccentrici.
La frequentazione delle due diventa un punto di riferimento fisso per ogni sabato sera. Yorkie, finalmente, inzia a sentirsi se stessa e per la prima volta nella sua vita sa di potersi lasciare andare. Ma cosa c’entra tutto questo con la tecnologia?
San Junipero è un paradiso intercambiabile, un luogo che prende sempre più sostanza man mano che la narrazione va avanti e che le nostre protagoniste iniziano a scoprirsi. Un episodio insaporito dalla musica anni ottanta, dai lustri e luci psichedeliche. Una storia affascinante e che ci conduce direttamente verso quel confine che c’è tra vita e la morte, andando addirittura a racchiudere in sè l’immortalità.
Un ragionamento filosofico, etico e morale, tipico di Harris e che si rifà moltissimo anche al precedente Be Right Back. Un episodio che preme nuovvamente sulle scelte difficili della vita, ma anche sul riscatto nei confronti dell’esistenza e del destino. Un episodio sulle seconde possibilità che risplende, come già detto, del brio degli anni 70/80 ingannando lo spettatore. Un giocare con i sapori nostalgici e malinconici, permettendo quasi di bloccare il tempo.
Eppure nonostante queste premesse ottime, le quali lasciano scorrere l’episodio facendo leva anche sulla straordinaria, e molto sentita, interpretazioni delle attrici, l’episodio non ha il mordente necessario per essere totalmente alla pari con gli episodi precedenti.
Nella sua parte più centrale si lascia andare allo scorrere naturale degli eventi, appiattendo un po’ la struttura generale dell’episodio, e quindi facendo calare l’attezione. Sicuramente San Junipero lavora moltissimo sulla sfera emozionale, facendo concentrare più su quello che sul quadro più tecnico, ma qualititivamente parlando resta molto debole, soprattutto se paragonato all’episodio precedente.
Un’intuizione molto interessante, soprattutto per come viene risolta sul finale.
Intrigante e che porta lo spettatore anche a domandarsi cosa farebbe in una situazione del genere, ma poco equilibrato con gli episodi precedenti e con l’ultimo. Invece, tecnicamente superiore rispetto al quinto e penultimo episodio.
Ep.5 Men Against Fire
di Jakob Verbruggen
Men Against Fire è l’episodio che ho meno apprezzato, molto americanizzato nelle tematiche, e molto lento nello snodo centrale.
Si parla nuovamente di società, cercando di muovere una critica, neanche delle più leggeri, nei confronti dei governi, in particolar modo a quello americano.
Il piano sul quale si sviluppa l’episodio è la propaganda, il terrorismo e la fobia nei confronti dello straniero. Il plagio della mente dei comuni cittadini, indottrinati dai continui messaggi subliminali, portati a provare un forte senso di disprezzo verso chiunque possa essere un potenziale nemico, invasore e attentatore.
In questo mondo degradato, i militari son addestrati per eliminare i parassiti: degli esseri umani mutati genicamente, molto simili ai vampiri del fumetto 30 Giorni di Buio di Steve Niles e Ben Templesmith. Qualsiasi cosa tocchino questi esseri va assolutamente bruciata, proprio perché contagiosi. La loro eliminazione è fondamentale per poter impedire al gene di diffondersi e rischiare, con le generazioni future, di avere bambini sempre più deformi e simili ai parassiti.
I militari sono dotati di una speciale mascherina, che serve a sconvare i pericolosi obiettivi. Ma qual è la reale differenza tra un parassita e un essere umano? Perchè dobbiamo considerare l’uno diverso dall’altro? Questo è l’interrogativo che inizia a muovere Stripe (Malachi Kirby), subito dopo la sua prima missione. Stripe inizia a porsi del domande, ossservare il mondo in modo diverso, chiedendosi se i veri mostri non siano i parassiti ma, bensì, chi li vuole morti.
Men Agaist Fire è la chiarissima rappresentazione del mito della caverna di Platone applicata alla propaganda militare americana. L’episodio punta il tutto su ciò che gli altri vogliono che noi vediamo, muovendo il suo protagonista a interrogarsi sempre di più sulla vera natura di quella guerra.
La realtà non è quella che gli altri disegnano per noi e nemmeno ciò che noi vogliamo vedere. La realtà è ciò che oggettivsmente si palesa di fronte ai nostri occhi.
La corsa all’eliminazione del terrorismo viene qui identificata, come spesso sta accadendo adesso al cinema, come un escamotage per aver il controllo su tutto e tutti.
Definire un nemico e portare il popolo a odiare, come se ne valesse della sua stessa vita. Concetto molto affascinante e sul quale poterci ricamare all’infinito, dove la tecnologia da solo man forte al grande poter della suggestione che persone più carismatiche e influenti possono esercitare sugli altri.
Per quanto interessante e con un inizio molto particolare che gioca moltissimo sulla voglia di scoprire le fattezze dei parassiti e la loro provenienza, l’episodio si lascia moltissimo andare. Salvandosi solo sul finale, con un bellissimo monologo di Michael Kelly – il Douglas Stamper di House of Cards -, Men Agains Fire è l’episodio meno convincente e più piatto di Black Mirror.
Certo non tutte le ciambelle possono uscire con il buco e capitò anche a Carl Tibbetts con White Bear, secondo episodio della seconda stagione di Black Mirror, di dirigere un episodio interessante ma poco efficace.
La narrazione diventa ben presto pesante e poco stimolante. Si perde velocemente il contatto con il protagonista, rompendo la magia dell’empatia tenuta ben alta fino a quel momento. Nulla riesce veramente a colpire lo spettatore, lasciandolo piuttosto indifferente di fronte alla scena.
Ep.6 Hated in The Nation
di James Hawes
La terza stagione di Black Mirror si conclude con il suo episodio più lungo e, sicuramente, il più televisivo. Viene mantenuto lo stile inglese di Shut Up and Dance e di San Junipero, equilibrando però elementi della serialità più crime e polizieschi.
Un intrigante thriller ambientato in un mondo dove le api non esistono più e per non squilibrare il nostro sistema – anche perché nel caso contrario sarebbe la fine del pianeta – sono state create delle api robotiche il quale unico scopo è impollinare.
Il tutto si apre con il presunto omicidio di una giornalista presa di mira dai social per un articolo troppo sarcastico nei confronti di una persona disabile. Del resto, possiamo essere odiati dai social quanto vogliamo ma, fino a questo momento, Twitter non ha ucciso nessuno.
Brooker e Hawes ci tolgono questa sicurezza. Jo Powers (Elizabeth Berrington) è solo la prima di una serie di vittime ad opera di un hashtag letale, #DeathTo. Una volta divenuto trendtopic, il nome più odiato della giornata muore in circostanze misteriose.
Karin Parke (Kelly Macdonald) è l’ispettore di polizia assegnato al caso che più che una semplice sequela di omicidi sembra un grattacapo molto più grande di quanto voglia sembrare. Assieme alla sua assistente Blue (Faye Marsay), Karin si adentra in un mondo che non immaginava neanche lei di poter conoscere. Un’esistenza segnata dai continui giudizi della gente, arrivando al punto che un tweet possa davvero portare alla morte di qualcuno.
L’ultimo e più lungo episodio di Black Mirror, un film a tutti gli effetti, racchiude in sè il pensierio più critico e tagliente di Charlie Brooker nei confronti di questo mondo sempre più simile al nostro.
Una società divisa tra popolari e impopolari, tra like e cuoricini, stelline e visualizzazioni. Una società che non bada più ai valori della vita, alla sua autenticità e originalità, ma che pensa come un gregge. Un branco di finti lupi impazzinti, soggiogati dal delirio di onnipontenza. Un falso potere derivante direttamente dai social network e che ci permettono di essere giudici per gli altri. Ma a quale prezzo?
In un periodo in cui il cyberbullismo è diventato sempre più letale; in cui la viralità di alcuni post, insulti ad opera dei leoni da tastiera, ha portato moltissime vite a spezzarsi, cosa distingue davvero i giusti dai non giusti? Tra insultare qualcuno da una psiche fragile – si, perché il più delle volte nessuno si chiede mai davvero chi ci sia dall’altra parte delle schermo – e farsi delle foto porno, quale delle due dovrebbe avere le conseguenze peggiori? E chi delle due ha davvero, ingiustamente, la conseguenza peggiore?
Brooker porta a riflettere sul significato delle nostre scelte e delle nostre azioni, rendendoci conto del peso delle conseguenze. Ad ogni azione, per forza di cose, corrisponde una conseguenza, positiva o negativa che sia; eppure, sembra che a nessuno importi più quale sia davvero il prezzo, perché non c’è nessuno che faccia davvero pagare quel prezzo.
La follia scatenata in questo episodio è disarmante. Hated in the Nation è la sintensi più pura di ciò che siamo, premendo moltissimo, però, sulle conseguenze.
Un episodio che porta lo spettatore a immergersi nella ricerca, nel mistero alla base della struttura, ma anche a confrontarsi su quella società che ritrae Brooker e quella nostra. Si possono davvero riscontrare delle differenze?
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Black Mirror si conferma, ancora una volta, un prodotto non solo dalla qualità eccelsa, ma dall’intelligenza disarmante.
Pur spostandosi da una produzione tipicamente inglese, come quella di Channel 4, a quella americana di Netflix, Black Mirror riesce a mantenere intatta la sua natura. Un prodotto audiovisivo scomodo, assolutamente necessario.
Un mix di storie differenti che si rispecchiano, a modo loro, nel nostro mondo. Una narrazione che porta constantemente al confronto, alla riflessione, lasciando un costante senso di nausea e angoscia. Disturbante.
Charlie Brooker ce la fa ancora una volta a spiazzare il suo spettatore. A costringerlo a una doccia fredda di parole e azioni. Possiamo tranquillamente affermare che il legame con Netflix funziona, anche molto bene, e non ci resta che aspettare l’anno prossimo per la quarta stagione!
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Black Mirror è disponibile dal 21 Ottobre su Netflix.