Demolition e l’amore platonico che stroppia

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Il nuovo Jean-Marc Vallée cerca di venderci m&m’s, Porsche Cayenne, il piacere di usare armi da fuoco e giubbotti antiproiettile, bulldozer della Case e una filosofia che spicciatamente ricondurrei a Platone e banalmente anche al meno noto Derrida.

Tuttavia l’estrema coerenza interna riesce ad amalgamare la lista controversa facendo sì che Demolition non diventi uno spot televisivo, come fu imbattibile a riguardo The night before (Jonathan Levine), bensì un film gradevole.

Jake Gyllenhall interpreta Davis, un inappuntabile e ben sbarbato uomo in carriera del settore finanziario, che diventa vedovo in seguito ad un incidente automobilistico nei primi minuti. Se le persone più vicine alla moglie defunta vivono un lutto ad effetto e come si deve – ad esempio il padre constata che non c’è termine per definire un genitore che perde la figlia semplicemente perché non dovrebbe succedere, rievocando la tenerezza e l’orgoglio di re Theoden (LOTR) – lui si inebetizza e l’attore fa quello che gli è sempre venuto bene fin dai tempi di Donnie Darko: recitare la parte fuori dal coro, a cavallo tra beniamino del pubblico e pura strafottenza.

 

 

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Pochi istanti dopo aver appreso che la moglie non c’è l’ha fatta, in ospedale Davis si imbatte in un distributore automatico capriccioso, e così al buffet funebre comincerà a scrivere la prima di una lunga serie di lettere di reclamo. Non si tratta di manifestare rabbia o pignoleria, come quella del falegname Greenberg (Ben Stiller) in Greenberg, che cercava di spezzare l’inerzia della vita aggrappandosi a ogni sintomo di società disonesta.

Davis alterna momenti tragicomici alla American Psycho a un effettivo bisogno di smontare tutto quello che non funziona

Davis reagisce in controluce e ritrova piuttosto la sua di onestà, in una inquietante presa di coscienza che diventa presto esilarante: nel tentativo di far aderire parola e verità, oppure pensiero e atto, alterna momenti immaginari tragicomici  (sullo schermo resi tangibili tanto quanto l’efferatezza in American Psycho ) a un effettivo bisogno di scatenarsi, ballando in mezzo alla folla e smontando tutto quello che cigola, perde, non funziona (diversamente dal pragmatico Tae-suk in Ferro 3 di Kim Ki-duk, Davis non intende riparare l’oggetto: è soltanto curioso di vedere cosa è importante).

 

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È all’apice delle aspettative, quando Gyllenhall si è ormai tolto le briglie, che la sceneggiatura getta le redini.

È qui, all’apice delle aspettative, quando semplici lettere di reclamo diventano irresistibile poesia e Gyllenhall si è ormai tolto le briglie in preda a un amore non consumato, che la sceneggiatura getta le redini e iniziano i problemi filosofici.

La logica del divenire (Platone) ha la mano pesante e il focus della trama si sposta di continuo, collezionando vari co-protagonisti (il suocero che ricerca in lui un Aragorn più rispettoso, la misteriosa addetta al servizio clienti dell’agenzia del distributore automatico, un giovanissimo rocker alla scoperta dell’orientamento sessuale), e allungando il saporito brodo cinematografico con l’acqua potabile della vita (ebbene sì, il ridondante sottotitolo italiano – Amare e vivere – stavolta è azzeccato).

 

 

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Proprio nei momenti di maggiore distensione, quelli che nel gergo delle serie tv potremmo definire filler, spuntano nuovi sottotesti

Eppure qua e là balenano alcuni indizi, ritardatari ma pur sempre provvidenziali, capaci di recuperare il filo del discorso partito per la tangente, dipanato verso un nulla di fatto: ricorrono la figura della moglie – percepita attraverso giochi di riflessi o in una sorta di memoria ottica che si sovrappone al presente – e la costante dell’elemento militare, che contribuisce a rendere ingombrante la star statunitense.

Si ha infatti l’impressione di uno zampino patriottico da parte sua (considerata la filmografia recente e il suo particolare attivismo) e che solo di traverso questo sia funzionale allo sfizio del personaggio di raccontare la verità radendo al suolo la menzogna o cercando sfrontatamente il brivido del pericolo. Basti dare una occhiata alla locandina che mostra un Gyllenhall in tenuta da pilota d’elicottero.

 

Jake Gyllenhaal as "Davis" and Judah Lewis as “Chris Moreno” in DEMOLITION. Photo Courtesy of Fox Searchlight. © 2016 Twentieth Century Fox Film Corporation All Rights Reserved

Jake Gyllenhaal as “Davis” and Judah Lewis as “Chris Moreno” in DEMOLITION. Photo Courtesy of Fox Searchlight. © 2016 Twentieth Century Fox Film Corporation All Rights Reserved

 

Al di là delle stonature e degli eccessi, vedi ancora la tentata demolizione della propria casa, ridicola e inopportuna, soprattutto se paragonata al recente 99 homes con Andrew Garfield (film-denuncia sul mercato dell’edilizia), non è possibile bocciare su tutta la linea il risultato. D’altro canto la metaforona legata al titolo, che ricorda tanto la Decostruzione di Derrida, è commovente.

Demolition sembra un grossolano adattamento del pensiero del filosofo francese,

imperniato sull’idea di reciprocità fra soggetto e oggetto nel continuum spazio-temporale e su una concezione della presenza che include la sua mancanza: a Davis serve un intero film non solo per rielaborare la perdita/assenza di una persona quasi mai amata – realizzando a posteriori come poterlo fare nonostante sia morta – ma anche per rivivere il desiderio più grande che aveva da bambino (ricordato all’interno di un divano-fortino grazie a un pizzico di marijuana).

Qui il sipario si chiude e la grande furbata di Jean-Marc Vallée ci lascia coi lacrimoni.

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