Mohenjo-daro è un’antichissima città della civiltà della valle dell’Indo, risalente all’Età del bronzo. E’ nota agli studiosi di paleoastronautica in quanto si pensa fu rasa al suolo al termine di una violenta guerra, terminata con un’esplosione nucleare: strano e intrigante, lo so. Ma siamo nella terra dei vimana, delle guerre degli dei, e l’uso di armi formidabili è raccontato anche da Zecharia Sitchin ne ‘Guerre atomiche al tempo degli dei’, per citarne uno. Una città quindi avanzata dal punto di vista urbanistico e culturale, e assai misteriosa. Questo breve racconto è ambientato poco prima dello scoccare della guerra che ne vide la distruzione.

Il sole rendeva brillanti i lapislazzuli del pettorale e degli anelli; dalla terrazza la Gran Sacerdotessa osservava silenziosa la città, appoggiando lo sguardo ben oltre le sue mura, irritata dal non trovare nulla capace di distrarla, la veste bianca mossa dal vento.

All’interno del tempio, nella dimora delle glorie, le luci dell’oracolo meccanico rimanevano spente, la volontà degli Altissimi ancora nascoste, il loro destino ancora ignoto; nessun ordine, nonostante le suppliche e i sacrifici, eppure… Si voltò verso la torre, là dove le guardie scrutavano gli orizzonti notte e giorno con la massima attenzione, in attesa del segnale che preannunciasse l’inizio di una guerra che nessuno in cuor suo desiderava. Fece per rientrare quando si accorse di qualcosa in un cielo sgombro di nubi, e si strinse alla ringhiera: una luce ondeggiava distante e sembrava avvicinarsi a forte velocità; aguzzò gli occhi e avvertì un brivido camminargli sulla pelle. No non stava sognando, ora il corpo celeste o qualunque cosa fosse era assai più vicino, rallentò, si fermò proprio sopra la città. Non aveva ordinato voli di addestramento per quel mattino. Si scosse, respirò a fondo e rientrò di corsa nel palazzo, scese le gradinate e convocò un’assemblea dei Brahmini. Quando la scia del suo profumo era ormai svanita l’oracolo meccanico emise una leggera vibrazione.

Lungo la strada polverosa la gente si voltava al passaggio di quel ragazzo, chi per conoscere com’era fatto un guerriero, chi per recitare una preghiera di protezione, tutti per poter dire di averlo visto ancora vivo; una madre abbracciò il suo piccolo coprendone gli occhi con una mano. Noncurante Neelam camminava spedito verso il grande serbatoio della città, seguiva le curve ad angolo delle case di mattoni, superava gli odori delle officine, il granaio. Quando in prossimità dell’area recintata le guardie lo fermarono impugnando le spade non si preoccuparono di avere dinnanzi un guerriero considerato mediamente valoroso; sapevano già quali fossero le sue intenzioni, e avevano ordini precisi in merito. “Vattene! Tu qui non entrerai più.” gli intimarono; altre guardie stavano arrivando. Mentre fissava le pupille di chi gli ostruiva la strada e lo allontanava dai suoi sogni, Neelam non poté non pensare alla prima volta in cui, in via del tutto eccezionale, era riuscito a ottenere il permesso di visitare la casa dei vimana posta al di sotto del serbatoio, il grande spazio invalicabile cui pochi avevano accesso; ma tali erano state le suppliche e le intercessioni del padre, assai vicino ai consiglieri dell’assemblea, che alla fine era stato accontentato. Quel che aveva quindi visto era ciò che pochi uomini in tutto il Grande Impero avevano potuto ammirare, essendo l’avvicinarsi ai sacri vimana non solo un onore ma anche una sublime benedizione: alti e grigi come le imponenti rocce sulle quali erano appoggiati, le forme arrotondate dalla celestiale perfezione, le bocche di fuoco, scorci di battaglie nella sua mente, di ciò di cui si narrava, del portento e di … Ecco, era stato allora che aveva cercato di occuparne uno e volare via. Almeno queste erano state le sue ignobili intenzioni, ubriacate da tanta estasi, da un desiderio mai prima reso manifesto a occhi che non fossero i propri.

Così si era venuto a sapere in tutta la città fino alle orecchie della Gran Sacerdotessa che la brama del giovane Neelam non era solo quella, comprensibile per un guerriero sebbene assolutamente vietata, di vedere da vicino un vimana, ma di pilotarne uno. Le risate dei piloti, quelli veri, appena saputa la notizia si erano amalgamate con le urla di rabbia di comandanti e consiglieri, con il pianto della giovane madre e lo sconcerto del padre appena appresa la notizia; infine con la delusione dello stesso Neelam, conscio che difficilmente avrebbe ottenuto un secondo accesso alla casa dei vimana. La guerra contro gli invasori era alle porte e a Mohenjo Daro tutti sapevano che sarebbe stata violenta e vittoriosa, così come doveva essere; il volere dei Devata e dei Signori della Luce avrebbe presto determinato i destini, ma ogni singolo guerriero aveva un ruolo, e solo per questo non era stato arrestato e degradato a ben altre mansioni. Ma da allora tutto era mutato per Neelam, per come la gente lo salutava, per gli scherzi e la derisione di cui era fatto oggetto e per le guardie del grande serbatoio che ora lo stavano sorvegliando mentre si allontanava, lento, mordendosi un labbro; si girò e rigirò più volte a immaginare ciò che sapeva essere custodito lì sotto, a sognare di librarsi in volo come un uccello, a disegnare traiettorie, lanciare fulmini e colpire nemici; gli stessi che presto avrebbe ucciso soltanto con banali armi affilate; niente rombi di tuono, bagliori portentosi ed esplosioni da mille soli concentrati. Uffa, pensava. Per questo decise che ne avrebbe costruito uno egli stesso: da solo, in qualche modo, un vimana tutto suo col quale, ne era certo, avrebbe colto gli eserciti di sorpresa, magari proprio nella fase cruciale della guerra, sì proprio così, avrebbe sorpreso i suoi comandanti, i consiglieri tutti e perfino la Gran Sacerdotessa sbucando fuori all’improvviso dalle regioni atmosferiche e abbattendo i veicoli nemici in volo, procurandosi le lodi, le meritate acclamazioni; chissà, anche le benedizioni degli Esseri Supremi. Avrebbe studiato da solo gli Shastra, conosciuto perfettamente i 32 segreti e le scienze dell’aeronautica, invocato i Mantra; sarebbe stato il primo guerriero a diventare pilota. Gli serviva solo un venerabile precettore disposto a insegnare; e sapeva già a chi rivolgersi. Con lo sguardo ora sollevato calpestò la stessa erba ancora piegata, lanciò un’occhiata al grande fiume quando il sole era alto nel cielo e il suo mattino di riposo ormai terminato. Il tempo degli addestramenti si avvicinava, e non avrebbe certo rischiato la punizione del suo comandante.

Ma proprio quando la sua casa apparve in lontananza ecco una piccola folla riunita, decisamente animata. “E’ così vi dico!” urlava uno, “E’ un castigo!” e indicava il cielo. Quaranta, poi cinquanta persone e altre ancora ne arrivavano, chi impaurite, chi curiose; proprio in cima alle loro teste una svastika grande quanto il granaio fiammeggiava e roteava, lenta, in senso antiorario; ben presto l’intera città aveva gli occhi al cielo e tutti temevano di essere inceneriti in un istante. Le officine dei metalli erano ferme così come quelle delle ceramiche, nei campi gli attrezzi appoggiati al suolo, gli animali vagavano liberi. “E’ una collera divina! Una punizione per tutti noi!” continuavano a gridare in molti; altri si disperavano in silenzio. Il tempo passava e il prodigio non scompariva, alcuni giuravano stesse addirittura rallentando il moto antiorario in vista del peggio. Nessuno sapeva che fare, dunque si udirono lodi e preghiere, genuflessioni e pianti, qualcuno vide in un giovane capretto lì vicino un possibile sacrificio di riconciliazione. Mai prima di allora si era vista una svastika di luce nel cielo, mai e poi mai roteare nella direzione sbagliata. Perché proprio ora? E perché tutti conobbero un brivido sconosciuto, un lieve formicolio sulla pelle?

Affatto spaventato Neelam si era nel frattempo avvicinato facendosi forza del suo status di guerriero, come se la sua presenza potesse contribuire all’interpretazione del fenomeno. Fu una vecchia signora dalle mani molto sporche che mai avrebbe avuto il coraggio di prendere parola che, come in preda a un raptus, scagliò la sua voce ben al di sopra di tutte le altre, le braccia aperte innalzate. “Silenzio! Vi dico che è lui! E’ lui la colpa di tutto questo, Neelam! E’ lui che ha sfidato i Signori del Destino e ci ha condannati! E’ lui che ha cercato di uscire dal suo rango, come se non fosse contento e non ci fosse di peggio! E’ lui che ha cercato di rubare il sacro vimana e va in giro a fare domande! E’ colpa sua, vi dico!”

Ci fu un prolungato silenzio, molto prolungato, durante il quale Neelam non seppe che fare e fu stranamente tentato di dare ragione alla vecchia signora ingobbita, i cui occhi sembravano uscire dalle orbite e il cui animo, in quel preciso frangente, si faceva allarmato dall’aver osato incolparlo pubblicamente. Poi un impeto di follia, e purtroppo per Neelam si trattava di consenso: fu preso, strattonato, le vesti rosse strappate, arrivò un ceffone poi un altro, calci e sputi finché non rovinò per terra, dove col favore del momento i più deboli e indegni ebbero modo di sfogare quella e altre rabbie represse.

“Fermi!” gridò una donna da lontano, “Che fate? Lasciatelo stare. Abbiamo altro di cui preoccuparci!” disse indicando il cielo dove ancora roteava quella stessa svastika che fino a quel momento avevano solo e sempre conosciuto come simbolo solare, propizio, ma che muovendosi all’incontrario incuteva un cupo timore.

Un attimo, una distrazione e Neelam con uno scatto si liberò e corse via con tutta la forza delle sue giovani gambe, sparì nei campi lasciando la folla ancor più spaurita, stretta come avvolta da un’unica fune.

 

vimana

vimana

 

I Brahmini e i consiglieri affollavano la terrazza della Gran Sacerdotessa. Com’era possibile che proprio loro che studiavano i cieli non avessero previsto il sopraggiungere di un tale fenomeno?

Occorreva una rapida spiegazione, quel prodigio luminoso era ancora lì col suo mistero, e presto sarebbero scese le tenebre; il sole si indeboliva e la ruota fiammeggiante pareva acquisire più luce, quasi ne assorbisse dall’astro naturale. La Gran Sacerdotessa era furiosa, minacciava di tagliar teste e maledire per mille anni se presto non avesse ricevuto spiegazioni, che nessuno era in grado di dispensare. “Mia Signora, è chiaro che ciò che potete ammirare è un segno propiziatorio. I Mahadevata sono con noi, ci proteggono ancora, e presto dovremo dimostrare la nostra fedeltà. Preghiamo quindi, e prepariamoci.” disse un brahmino anziano da una certa distanza, ottenendo miseri consensi.

“Ditemi perché la sua direzione è ostile, perché suscita terrore nella mia gente, perché noi tutti avvertiamo questo brivido sconosciuto.” disse la Gran Sacerdotessa portandosi le mani ai fianchi.

Non ci fu risposta, solo sguardi bassi, attivati da un rumore improvviso, l’urlo di una guardia poi una seconda, quando si udirono gemiti e lame e ceramiche infrante, e un ragazzo irruppe accigliato brandendo una spada.

“Tu sei Neelam!” esclamò un consigliere. “Che tu sia maledetto! Come ti permetti?” gridò un altro.

“Guardate!” disse un terzo indicando ciò che teneva stretto. Era l’oracolo meccanico, e le sue luci con grande stupore dei presenti stavano lampeggiando. Si dovevano inchinare, e dovevano farlo tutti e subito, ma non potevano lasciarlo in quelle sudicie mani; dovevano, ma non potevano.

“Voglio un vimana!” urlò Neelam circondato dalle guardie, scavalcando la ringhiera e minacciando di gettare ciò che di più sacro l’intera città possedeva, il legame sonoro tra l’uomo e gli Altissimi.

“E’ impazzito!” fu l’unanime condanna, e parte di quel delirio raggiunse presto i consiglieri.

“Non l’avrai mai! Arrenditi e ti perdoneremo.” disse allora la Gran Sacerdotessa sfiorando le pietre azzurre del pettorale, una alla volta, recitando le invocazioni.

Neelam guardò le lame avvicinarsi, poi l’intera assemblea negli occhi, la svastika nel cielo, sospirò e si lanciò nel vuoto.

L’oracolo meccanico rovinò in minuscoli frammenti luccicanti, presto bagnati dal sangue.

Dalla torre si avvertirono grida di allarme.

 

Nel romanzo ‘Bruciate lentamente’ i temi dei vimana, della paleoastronautica, dei segni della Fine dei Tempi, dei misteri delle antiche civiltà, di dove stiamo andando e del perché le cose non sono quello che sembrano sono approfondite con dovizia di particolari, in uno stile umoristico a tratti visionario.