Il film Eyes wide shut è l’ultima opera di Stanley Kubrick, sicuramente una delle più controverse. Quella che segue è un tentativo di comprendere non tanto il suo significato, bensì gli artifici attraverso cui essa riesce a esercitare un fascino straordinario, a suscitare curiosità e infondere a piene mani un’aria di profonda irrequietudine.

Non vi è né sinossi né trama, tuttavia alcune delle riflessioni enunciate si basano su elementi propri della storia e del suo snodo, pertanto è meglio evitarne la lettura se si ha premura di non incappare in spoiler.

 

 

Eyes wide shut: riflessioni

Un corpo nell’esercizio d’un moto armonico che sia sottoposto a una sollecitazione di pari frequenza, vede il suo oscillare molto amplificato; è il fenomeno della risonanza, i cui effetti costarono un ponte a Tacoma.

Analogamente, ciascuna anima, posta innanzi a oggetti, ravvisandone i semi con cui partecipano al rimpianto Iperuranio, mette nuove ali e desidera levarsi in volo, ma non essendone capace guarda in alto come un uccello, senza curarsi di ciò che sta in basso, con piglio quasi maniacale – così scrive Platone, nel 380 a.C., cominciando a riconoscere al soggetto un ruolo importante nel riconoscimento e nel godimento del Bello, evolvendo il camaleontismo gnoseologico di Empedocle; passando attraverso l’elitarismo degli stilnovisti, secondo i quali solo a chi ha un cuore nobile è dato d’intendere l’amore, questa rivoluzione soggettivistica dell’estetica compie passi da gigante con Edmund Burke, e l’introduzione della categoria del sublime, al fianco di quella del bello.

Non si dice nulla di nuovo, pertanto, ad affermare che è il soggetto, innanzi a un’opera artistica, a detenere gran parte della responsabilità sull’elicitazione di sensazioni annesse: sono le corde di ciascuno spettatore, ognuno col proprio background vibrano solidali con le stimolazioni offerte dalle opere.

Un esempio magistrale di questo processo è possibile ravvisarlo in Eyes Wide Shut, con tutto l’indotto di spiegazioni e interpretazioni che vi ruotano attorno, tutte, grazie all’arsenale eterogeneo presentato da Kubrick, piuttosto variegate, come se il regista abbia trovato la quintessenza dell’elicitazione della curiosità. Allora, forse, val la pena di scoprire – o, quantomeno, tentare di farlo, in qual modo si sia ottenuto questo risultato.

A volerlo analizzare altrimenti, a voler tradurre le simbologie di “Eyes Wide Shut” con qualche prontuario esoterico, come fosse un messaggio cifrato, l’opera di Kubrick altro non sarebbe che un suo rantolo mistico, affare da invasati seguaci di Crowley o qualche altra sorta di diavoleria occulta o presunta tale, da ninfomani (più o meno) eruditi.

Indagare il significato di “Eyes Wide Shut”, in altre parole, probabilmente, vuol dire approfondire una delle tante versioni di sincretinissime sette o psico tali, niente di lontanamente interessante.

Piuttosto, un’altra questione è decisamente più attraente: perché è così perplimente?

 

 

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Refrain e coazione a ripetere

Uno dei fattori principali per conseguire quell’effetto è, probabilmente, la ripetizione. Già Mr. Nobody e diversi film di Lynch e Aronofsky si cimentano in questo esercizio di prestiditigizzazione su referenti visivi e contenutistici; quest’artifizio appare particolarmente indicato per restituire immaginari surreali e scenari onirici, quei territori laddove l’inetlletto opera una rielaborazione di dettagli salienti, arredandovi nuovi contesti.

Si pensi, ad esempio, all’arcobaleno, alla fine del quale si propongono due modelle di guidare Bill, il cui spettro è disegnato sull’insegna del negozio di costumi, la cui policromia è richiamata dagli alberi di Natale. Impossibile, quindi, non esperire reminiscenze nel proseguire del film, mentre la mente indaga accorda disunisce, cercando di cogliere “l’anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità”.

Oppure, si presti attenzione ai personaggi principali di sesso femminile. Alice, Helena, Amanda, Domino, tutte contraddistinte dal rutilismo; tali personaggi potrebbero allora essere, come in diversi film di Kim-Ki Duk, componenti di un unico corpo attoriale, manifestazioni separate nella forma ma unite da una sostanza comune – la tentazione? Rosa de capei, golosa de osei, si suol dire, scoprendo un ampio campionario di superstizioni e pregiudizi associati alle persone dai capelli rossi, da cui è forse il caso di recuperare l’idea di un piacere promesso ma negato o, comunque, distruttivo.

Altro elemento ripetuto, sotto forma di diversi referenti tutti soggiacenti allo stesso campo semantico, è la figura dell’ufficiale della marina che, dopo esser stato rievocato da Alice, fa capolino quasi sincronico, diverse volte, offerto nel negozio di costumi, accennato dal copricapo di uno degli astanti al rituale, oltre che, sempre più privato della sua divisa, nelle fantasie ossessive di Bill.

Attraverso questa coazione a ripetere reiterata, comincia ad affiorare un senso o, meglio, il sentore che un’esegesi, a partire dagli elementi stressati, dalla loro conciliazione e dal loro incastro, sia possibile come se, come in un sogno, i referenti ripetuti, apparentemente senza senso, siano eruzioni declinate in diverse circostanze contingenti, di uno stesso sostrato, sia esso l’inconscio o, in questo caso, il suo significato.

Oppure, si pensi ai rapporti amorosi contratti da Bill, ciascuno interrotto prima di essere consumato; la prima volta per la richiesta d’aiuto di Zieglar; poi, a casa del defunto, con la figlia, interrotta nel suo amore disperato dal fidanzato Carl; ancora, con Domino, quando è salvato dalla tentazione solo dallo squillo del telefono; e poi ancora con la sua coinquilina, oppure nell’obitorio, quando si china sul corpo esangue di Amanda, quasi a lasciarle un bacio sulle labbra. In tutte queste scene, la morte sta sullo sfondo, ma si ritaglia spazi sempre maggiori, sino a fagocitare l’azione, e sopprimerla, e ciascuna di queste relazioni erotiche restano abbozzi, ammiccamenti, frustrazioni.

Su grossomodo stessa falsa riga, altro motivo ripetuto è quello della fortuna. “Lucky to be alive”, campeggia cubitale su un giornale, “siamo fortunati di esser usciti dalle nostre avventure senza danno”, parafrasa Alice, nel finale. Ella stessa, si trova a ridere, di una risata sardonica, sempre per deridere Bill, sempre in implicazioni amorose, così come Amanda è trovata morta, ridacchiando in uno stato quasi estico, dopo il rito erotico e mortale della setta.

In tutti questi refrain, è possibile cogliere le concezioni di ritardo, per Freud e Deleuze, rispettivamente Nachträglichkeit e retard, e assumerle a direttrici per comprendere il meccanismo che dietro vi è sotteso. In un testo del 1895, Freud descrive il caso di una donna con la fobia dei negozi di vestiti, sorto solo in età puberale, dopo che, durante l’infanzia, un commesso la molestò. Quell’evento, vissuto come spiacevole, ma all’oscuro delle sue implicazioni, per via dell’innocenza della sua protagonista, perduta all’imbocco della pubertà, quando acquisisce consapevolezza della sua sessualità e interpreta in chiave sessuale il vissuto, dandogli un senso traumatico, retroattivamente.

Deleueze critica questa tesi e ne espone una propria, che vede il prima e il dopo come due serie coincidenti: nell’esperire situazioni che somigliano a quella molestia, vive nell’inconoscio intersoggettivo della paziente una doppia linea di vissuto; in altre parole, un similare provoca una sovrapposizione tra averne fatto esperienza da bambina e averlo fatto da adulta, e in questa sovrapposizione risiedono le radici di quello struggimento.

Ad ogni modo, che si voglia sposare la visione di Freud o quella di Deleuze, si può osservare come, in Eye Wide Shut, i continui riferimenti e contrappunti, i richiami, le ripetizioni evochino eventi già avvenuti – fossero anche solo proton pseudos, riportandoli alla mente, facendoli figurare come inscritti, assieme alla scena presente, in una stessa cornice, affibbiandogli un senso a posteriori, trasmettendone una concezione di oscuri precursori, caricando gli spettatori di tensione e di aspettativa, generando la percezione di un significato forse accessibile, ma di fatto nascosto nell’atto di paventarne l’esistenza, il sentore che, riavvolgendo ancora e ancora la pellicola, e potendone interpretare gli elementi, sia possibile comprenderli, nell’accezione etimologica del termine, in un senso unitario, quello stesso sentore forse alla fonte di quella passione maniacale i meccanisnimi dell’elicitazione della quale è intento di quest’articolo indagare.

 

 

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Simboli

Tuttavia, Eyes Wide Shut non si può liquidarlo così, restano diverse implicazioni da dipanare e non si può non far menzione della sua estrema densità simbolica. Ancora una volta, rimando ad altri scritti una traduzione di quell’immaginario simbolico entro un significato: ciò è oggetto di quest’analisi è piuttosto la ragione per cui esse sono proliferate.
Leggendole, difatti, è possibile forse sentire gli squitii di quel garrulo monello di cui ebbe a scrivere Pascoli, il fanciullino che “ciarla intanto, senza chetarsi mai”, senza cui “non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo di solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle”, colui che “scopre nelle cose le somiglianze e le relazioni più ingegnose”. Sicuramente, lo strascico di significati nascosti (o presunti tali) dopo l’opera, è ottenuta con una squisita e attenta cura dei dettagli.

Innanzitutto, molti dei nomi menzionati hanno una coincidenza o una prossimità – semantica o sonora, con altre parole cui rimandano altri referenti, visivi; in questa serie di articoli, ad esempio, si riporta che Fidelio, la parola segreta, è un’opera di Beethoven la cui trama è in qualche modo ricalcata dai fatti accaduti nell’orgia, oltre a essere connessa al tema della fedeltà; inoltre, che la moglie, ritratta inizialmente di fronte a uno specchio, si chiama Alice, come la protagonista del noto libro di Lewis Carroll. Altri, hanno trovato corrispondenze con diversi elementi settari, o affini a teorie cospirazioniste. Per esempio, le luminarie a casa di Zieglar sono a guisa di forme davidiche o babilonesi, simboli di fertilità.

Ma se Eyes Wide Shut riesce a colpire anche chi non condivide integralmente l’immaginario riportato, evidentemente la causa del suo effetto non è nella natura del suo messaggio, bensì nel modo attraverso cui è riportato. Riempiendo l’opera di simboli, dal significato più o meno recondito, è facile che in molti ne colgano almeno uno. Fatto ciò, squarciato quindi il telo della rappresentazione figurativa, si apre in uno sguardo una profondità intuita ma non esperita, l’impressione che il compreso sia solo la punta di un icemberg, con tutta una serie di simboli da cogliere sotto la superficie.

In quest’ottica, in Eyes Wide Shut, Kubrick potrebbe non aver avuto nemmen bisogno di utilizzare simboli in modo coerente, per travasare un significato: è sufficiente trasmettere l’impressione che ciascuno dei dettagli inseriti sia passibile di detenerlo – o celarlo, che è lo stesso. Ecco allora al colonna sonora, con un piano che, lentissimamente e perentoriamente, segue eventi caricandoli di tensione, ecco le riprese lente, in piano sequenza, che consentono di indugiare su elementi senza staccare con dei fegatelli, suggerendo che essi debbano esser decifrati senza per questo esplicarli didascalicamente; tutto è acchittato ad arte per persuadere gli spettatori del nascodersi del significato, piuttosto che di esso.

A quel punto, la mercanzia del trovarobato del senso aumenta esponenzialmente, perché la concezione di un contenuto nascosto dall’autore attraverso simboli esoterici ne risulta sfondata. Derrida, ne La Farmacia di Platone, scrisse:

“Un testo è un testo solo se nascondo al primo sguardo, al primo venuto, la legge della sua composizione e la regola del suo gioco. Un testo peraltro resta sempre impercettibile. […] Rischiando sempre e per essenza di perdersi definitivamente”; chi “credesse di dominare il gioco, di sorvegliare contemporaneamente tutti i fili illudendosi anche di voler osservare il testo senza toccarlo”, non potrebbe che “aggiungervi […] qualche nuovo filo”, “unica possibilità di entrare nel gioco, impigliandovi le dita”.

Forse sarebbe allora il caso di estendere tali definizioni anche a Eyes Wide Shut o a qualsiasi altra opera analoga, in cui autore e spettatore concorrono entrambi alla superfetazione di senso.

In conclusione, a Kubrick è bastato (per modo di dire) infarcire di somiglianze Eyes Wide Shut, per indurre gli spettatori in uno stato di ricerca, essa stessa culla, piuttosto che cava, in cui nascono interpretazioni, significati, tutti incrociati assieme a restituire un intreccio difficilmente estricabile, un angosciante groppo di senso, un’aura di mistero, come un enigma insoluto.

 

 

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Azzardi di esegesi

Quest’opera si può leggerla in tanti modi, ciascuno avvalorato da diversi elementi.
Eyes Wide Shut” può apparire un aneddoto coniugale, o un pezzo di analisi sociale, anche oltre le critiche espresse nei dialoghi ai pregiudizi sessisti da Alice, oltre il grottesco dei riti elitari e del flirt gratuito – vano, dell’ungherese, oltre l’indignazione a buon mercato del padre. “I medici sono più consapevoli… capiscono davvero le donne”, civetta una delle due modelle, “sì, capiamo molte cose…” gli fa coro sorridente Bill.

Eppure, tutta la sua sicurezza granitica, non tanto di se stesso, quanto di una nozione di donna (e di sua moglie) che la ritrae affidabile, fedele, dedita ai legacci familiari o famigliari, quasi prima che a se stessa, tutta la sua certezza viene sconquassata sin dalle fondamenta della confessione della moglie, che apre i suoi occhi su un’immagine di Alice, tanto fragile da farsi ammaliare da un solo sguardo, tanto forte da abbandonare tutto e tutti per perseguirlo, in un connubio distruttivo.

In questa coppia, da un lato, vi è Alice, licenziata, disposta a sacrificare suo marito, sua figlia – il suo futuro, pur di poter trascorrere anche una singola notte con l’ufficiale di marina dal charisma magnetico. La sua figura può essere quindi accomunata a Eveline, a Mrs. Bloom, a Jane Eyre, a tutte quelle donne cui la pietà filiale o comunque famigliare è vissuto come un ostacolo al pronunziare un corale e convinto “sì”, alla vita.

Dall’altra parte del talamo, Bill, carne dentro un simulacro fatto di nomi, soldi, referenze, quelli impressi sulle banconote che gli aprono vie ovunque o sul tesserino che sbandiera per accaparrarsi fiducia delle persone circostanti. È interessante, a tal proposito, soffermarsi sull’etimologia della parola umiliazione, e della sua singolare contiguità semantica con uomo e terra, congiunti nel latino humus.

Una situazione aberrante, che comincia a discendere in una china di depravazione, più o meno onirica, a sprofondare in un sonno della ragione, in cui Alice sogna uno scenario in cui la sua felicità è subordinata all’assenza del marito e che, poi, degenera in una fantasia sessuale degradante, inquadrabili nel cuckold, in cui nel bel mezzo di un’orgia, ella s’impegna a deridere Bill, mentre, quest’ultimo, dopo esser stato motteggiato da una gang di ragazzini per la sua virilità, al party, accerchiato si trova a tremare di paura, sovrastato, del tutto reticente ad assecondare gli ordini impartitigli e spogliarsi: era così incline a sfoggiare i dati anagrafici, ora così timoroso di mostrarsi per quello che era, completamente alienato nel prestigio della sua professione.

A mo’ di consulente matrimoniale, Kubrick inserisce anche una soluzione all’impasse: dopo lo scambio di qualche frecciatina, diretta all’altro dalla parte ferita della propria psyche, i due vivono un risveglio catartico e convengono che debbono fare una sola cosa, scopare.

Intrecciata indissolubilmente a questa storia, viene trattato il tema della conoscenza proibita. Bill, difatti, si trova invischiato, vittima della sua vana curiositas, in un affare decisamente più grosso di lui. Come un novello Atteone – cui richiama la memoria l’ungherese, con la sua citazione a Ovidio, egli insegue il suo vecchio amico, ma si ritrova nel bel mezzo di una pratica che ha tutte le sembianze di un rituale esoterico, a un passo dall’essere sbranato. Di contrappunto alla moglie, disposta a rinunciare alla sua vita matrimoniale pur di esser posseduta dall’ufficiale, Bill mette a repentaglio la sua stessa famiglia, non pago dei moniti della setta, incapace di chiudere gli occhi, dimenticare, fare finta di niente, senza addentrarsi più a fondo in quel mistero – nella sua rovina.

A casa di Zieglar, la posa di Bill, con la mano a coprirsi il volto, richiama quella di un personaggio del Giudizio Universale, di Michelangelo, emblema della punizione irrogata a seguito dell’infrazione di un sigillo divino imposto alla conoscenza. Nel frattempo, egli ascolta le rassicurazioni di Zieglar, che cerca di convincerlo che quella fosse tutta una messinscena. “Me ne andrò zitto tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto”, ebbe a scrivere Montale, ma nemmeno ciò basterebbe: non più Bill deve tacere a chiunque gli accadimenti, deve tacerli a se stesso: il fardello di esser stato la causa della morte del vecchio amico e di Amanda sarebbero un peso fin troppo gravoso da portare. Tuttavia, seppure non avrà mai modo di sapere la versione in merito puntualmente, egli proprio non riesce ad accettare quella versione, e sbatte in faccia a Zieglar un ritaglio di giornale; più si sa, più sono improducenti i tentativi di indorare la pillola della realtà.

Ancora, c’è chi ci ha visto una metafora visiva degli insegnamenti di Crowley, e del suo tantrismo approssimativo e orgiastico, in cui l’intreccio offre a Bill diverse opportunità di amplesso, ciascuna allo stesso tempo assicurata e negata dal suo status sociale: conseguita per la sua posizione, sfumata per analoghe ragioni. Da questo continuo tarpare di sbocchi in alto, quest’impossibilità di trascendere, Bill, sempre più aggressivo e dominante, pare fuoriuscire solo all’ultimo, con Alice che lo educe della necessità salvifica dell’atto sessuale. Altri ancora ci hanno visto un disvelamento più o meno chiaro di pratiche di iniziazione e di controllo; per farsene un’idea, c’è diverso materiale in rete, ad esempio quest’articolo.

Di certo, per arrischiarsi in un’analisi istologica, per sfilare chirurgicamente le direttive simboliche dell’opera, farne un fascio e mantenendone salda la presa, discernendo con una scelta di campo i fili in contraddizione, godendosi un’interpretazione o, più pretenziosamente, il significato, bisogna disporre di uno spirito d’osservazione talmente focalizzato – per sviscerare integralmente ciò che sottende alla pellicola, da essere cieco – per ignorare tutti gli altri elementi contrastanti; in tre parole, occorre avere, davvero, the eyes wide shut.

 

 

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Film poster for The Still Moving show at HUNTCLUB Studio © Kathryn Macnaughton

 

 

Conclusioni

Ovviamente, non si può prescindere dal parlare dell’impatto visivo di Eyes Wide Shut, con una fotografia generalmente incentrata sul contrasto tra rosso e blu, ovvero tra il vermiglio della veste del sacerdote all’orgia e l’azzurro dell’obitorio o della camera della figlia, che, oltre a restituire l’indice del calore delle figure e degli ambienti, restituisce un’idea di purezza e di desiderio, o potere, entrambi strettamente annodati nel talamo matrimoniale, ove i due colori si intrecciano.

La nudità, inoltre, non è trattata piattamente; un’attenzione all’ob-scenus è forse dimostrata da Zieglar che copre, involontariamente, col capo, le pudenda di una donna ritratta da un quadro, mentre corpi integralmente nudi sono mostrati nel livello reale della pellicola, molto spesso: è come se sia avvenuto un capovolgimento di senso, e i quadri appesi ai muri siano le forme originali, da trattare pudicamente, copiate dalla carne, da quell’infinita fame / d’amore, dell’amore di corpi senza anima, che Pasolini imputava alla madre e che emerge in ogni momento di quelle scene in cui quelle brasuole di porco che in fondo sono gli umani, si intrattengono in accoppiamenti animaleschi, senza alcun implicazione trascendentale: per questo, cessa qualsiasi necessità di censura, poiché Eros è bandito, e in questo modo è possibile immergersi in quei pannelli di carne in movimento volitivo e famelico resi magnificamente da Eyes Wide Shut.

Ma al di là dei lati tecnici, che non c’è tempo di interrogare appieno, è possibile trarre qualche conclusione, al termine di quest’analisi. Leggendo parellelamente – certo, coi dovuti distinguo, Ouspensky, Montale e Schopenhauer, è facile imbattersi, tra le loro pagine, in un sentimento trasversale – quello della derealizzazione, il percepire che, “al di là della sottile pellicola di falsa realtà”, fuori della “campana di vetro”, oltre il velo di Maya, esista un’altra realtà, un quid definitivo, in cui tutto sia congiunto; penetrarvi, è un miracolo, laico, perché si è abbracciata la certezza secondo cui, a un livello superiore di comprensione, sia possibile apprezzare il substrato del solito inganno, il principio volitivo del mondo volubile (o, in questo caso, di Eyes Wide Shut), o quantomeno il suo arché unificatore.

Anche William Blake, eccelsamente si espresse a riguardo, in quella nota frase ripresa da Huxley e, poi, da The Door: “se le porte della percezione fossero purificate, le cose ci apparrebbero come sono, infinite”. Eppure, imbracciando gli studi sulla percezione condotti dalla Gestalt, tale concezione dovrebbe essere rovesciata. La siepe, in sull’ermo colle di Recanati, non nasconde allo sguardo interminati spazi o suovrumani silenzi; è la siepe, piuttosto che, mutilando la sguardo, spinge Leopardi a fingerseli, nel suo pensiero: il significante dell’illimitato è il limite, come chiosa Musashi in La via del Samurai.

È la regola della buona continuazione, insita nell’euristica dei soggetti percipienti, attraverso cui essi assimilano l’esperienza. Ed ecco che, celate, le cose passano per infinite e, i tanti elementi simbolici di “Eyes Wide Shut”, differiti oltre lo schermo d’un’opera complessa e difficilmente accessibile, acquisiscono una parvenza di unità, vanno a costruire un livello remoto di comprensione unitaria, avvertito, forse, ma sicuramente non raggiunto.

Infine, è forse il caso di affermare che Eyes Wide Shut sia un sommo esempio di opera intensivamente volta a elicitare negli spettatori stimoli piuttosto complessi. È possibile fingersi, allora, che tutta la vicenda non si svolga che in uno specchio, e che i personaggi alla stregua degli spettatori siano vittime di Kubrick. Come Dioniso, nel mito riportato da Giorgio Colli, essi si riflettono in uno specchio, in cui vedono raffigurato il mondo mentre vengono smembrati: è forse piuttosto l’atto di specchiarsi uno smembrarsi, allora, di guardare per un attimo uno scorcio di verità o, meglio, il pre-sentimento di essa, dell’aspetto terrorifico di se stessi e della società, con un’occhiata fugace alla perversioni delle elite o una rapida immersione nelle proprie quasi incofessabili fantasie per Bill e Alice, nell’assorbimento della durata del film in una voragine di profondità, un’infusione di una sensazione di mantica sul trapassato. In quello specchio, si vede il complesso del mondo, di se stessi: è una tacita epifania, inspiegabile, solo percepibile, come un groppo alle meningi che consente di andare avanti, chissà come, con della consapevolezza in più ma, soprattutto, è il caso di ripeterlo, con gli occhi spalancatamente chiusi:

The eyes wide shut.