Avevamo smesso di parlarci. Lentamente, una frase in meno ogni giorno, fino al silenzio. La stavo lasciando andare, ma non c’era niente di nobile in tutto ciò. Non aveva niente a che fare con la storia di Zanna Bianca o con quelle di chi si lascia per il troppo amore. Semplicemente sentivo di non avere più la forza per mantenere in piedi un rapporto che non ero mai stato in grado di condurre. Sempre disponibile, sempre comprensivo, sempre cieco. Dormivo da solo nel nostro grande letto, quello che avevamo comprato insieme in quel mobilificio che inscatola arredamenti come fossero costruzioni. Io mi alzavo per andare in ufficio, lei rientrava sfatta e un po’ meno cosciente del mondo che aveva intorno.
Un paio di volte l’ho trovata collassata sulla tazza. Con i vestiti e tutto. Confesso che la seconda volta l’ho adagiata sul letto con poco amore ed un pizzico di ripugnanza.
La società mi stava diventando estranea. Non uscivo più di casa, non sapevo relazionarmi, passavo le mie serate sul divano a tormentarmi nel dolore e a sperare che tornasse a casa. Non succedeva mai prima dell’alba.
Una volta l’ho aspettata sveglio. Dalla finestra il nostro piccolo, orribile giardino cominciava a tingersi del color rosa dei cieli delle favole. Dio, quanto odiavo quel giardino.
Mia madre aveva smesso di venire a trovarci. Non ne sopportava la vista. Del giardino intendo. Sempre avuto un gran pollice verde mia madre.
Così la sentivo distratto nella pausa pranzo. Mangiavo davanti allo schermo, scorrevo notizie di cui non mi interessavo che riguardavano paesi e persone che non mi interessavano. A mia madre dicevo che tutto andava bene. Le dicevo che no, quella sera non saremmo andati a cena da lei, che avremmo cenato fuori.
Ero giovane e guadagnavo bene. Potevo permettermelo.
Avrei potuto permettermi tante cose. Forse il tempo mi difettava un po’. Sempre preciso, puntuale, anche se alcune sere, tornato a casa, desideravo restarvi.
Pensavo a lei tutto il giorno, tutti i giorni.
Non le bastava. Non le bastavano i regali, le cene fuori, la vita agiata ma tranquilla.
L’avevo sempre saputo. Non avrei potuto tenerla rinchiusa a lungo, non avrei potuto comprarla per molto.
Speravo di riuscire a cambiarla, ma in quella notte di febbraio capii che non ci sarei mai riuscito.
Quando rientrai era in bagno a prepararsi per uscire.
Indossava una t shirt bianca a righe blu orizzontali che ne metteva in risalto il fisico asciutto ed i seni proporzionati, ma ingrossati dal reggiseno imbottito.
Un trucco bianco le impallidiva il volto ed una bombetta le incorniciava i capelli corvini.
Arancia meccanica.
Mi sorrise dallo specchio. Sentii qualcosa sciogliersi nelle gambe. Se la Bellezza avesse avuto un volto, per me sarebbe stato il suo.
Era raro incontrarla sobria ormai.
Mi chiese cosa avrei fatto quella sera, quel martedì grasso, come lo si chiede ad un amico che non vedi da tempo.
Il mio programma era il solito. Intravedevo il divano che mi aspettava nell’altra stanza. Ma, nonostante tutto, non esisteva accessorio di arredamento che non avrei tradito per lei. Feci una doccia veloce e mi cambiai.
Niente trucchi per me. Indossai la maschera di tutti i giorni.
Percorremmo il vialetto in silenzio. Un leggero clic sul pulsante giusto del telecomando e la mia auto accese i fari, riconoscendomi.
Non parlammo per tutto il tempo del viaggio. Lei guardava fuori dal finestrino, l’aria assorta. Mi resi conto di intristirla. Inevitabilmente, quando era con me, qualche demone la rendeva pensierosa, meno leggera.
Io ero la sua zavorra.
Dopo aver parcheggiato ci dirigemmo alla festa della facoltà di Architettura. Tuttora non saprei dire perché storicamente gli aspiranti architetti sono in grado di organizzare feste migliori degli altri aspiranti a-qualche-altra-categoria –professionale. Tuttora non saprei spiegarmi perché alla soglia dei trent’anni mi trovavo ad una festa di universitari.
Mi accorgo tardi di non averla al mio fianco, fagocitata dalla festa, abbracciata da estranei, circondata da attenzioni che non sono le mie.
Esco sul balcone. Il palazzo in cui ci troviamo è una delle rare bellezze di questa città. La casa giusta per i futuri costruttori del domani.
Lei viene fuori a prendermi. La sua mano scivola nella mia. Mi porta dentro,mi presenta delle persone.
Magari se avessi provato a frequentare il suo mondo invece di imporle il mio…
Dormiamo insieme quella notte e facciamo l’amore.
Di colpo niente esiste più al di fuori delle sue labbra, di queste lenzuola, del nostro letto montato come una costruzione di piccoli mattoncini.
Non saprei dire cosa ci è successo o quello che ci succederà domani, non saprei dire se andremo a cena da mia madre in settimana o se passerò un’altra nottata ad aspettare che il nostro orribile giardino si tinga di rosa.
So che qui, ora, amo questa donna e lei ama me.
L’amore, in qualunque forma, è lo scherzo migliore che la vita possa farci.