È una fredda giornata di fine ottobre del 1960. Un solitario satellite spia americano sta facendo il suo solito giro di controllo sopra il cosmodromo di Bajkonur. Gli strumenti automatici trasmettono come ogni volta una serie di immagini direttamente ai servizi segreti di Washington.
Una routine consolidata che va avanti da anni. Eppure questa volta le immagini sono completamente diverse dal solito. L’intera zona è completamente devastata.
Intanto le agenzie di stampa sovietiche sono sul piede di guerra, pare che sia precipitato un aereo con a bordo il generale Nedelin e che l’uomo sia morto nell’incidente.
Ma non è l’unica informazione incredibile, pian piano altri incidenti vengono riportati dalle agenzie russe, diversi alti ranghi dell’esercito sono morti in incidenti separati.
A collegare le notizie verrebbe fuori che sono ben 17.
17 persone che si scoprirà, molto tempo dopo, essere state presenti a Bajkonur, Kazakistan, il 24 ottobre 1960.
Le agenzie di sicurezza occidentali si interrogarono per molti anni su cosa fosse realmente successo nel principale cosmodromo russo quel giorno.
La vera storia verrà fuori molto tempo dopo, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica. La storia della più grande e terribile tragedia dell’era missilistica.
Preludio
Un Razzo Imperfetto
Siamo nella seconda metà degli anni ’50, il russi stanno prendendo a calci in culo l’occidente sfondando un primato dopo l’altro nella corsa allo spazio.
Uno negli assi nella manica del programma spaziale russo è l’affidabilissimo lanciatore R-7.
L’R-7 era un gagliardo esempio di ingegneria sovietica, solido, affidabile, ottimo per i voli orbitali e per portare attrezzature scientifiche su traiettorie interplanetarie.
Ma il programma spaziale russo non era che una costola del programma missilistico sovietico, ai militari interessava poco mettere cose nello spazio, interessava portare cose nello spazio e poi riportarle a terra intatte, preferibilmente se le “cose” erano testate nucleari, preferibilmente se la “terra” era una città sul suolo americano.
Furono studiati sistemi per riportare a terra una capsula intatta ma il tasso di fallimento era comunque dell’80%, un po’ troppo se contavi di vincere una guerra nucleare.
Inoltre vi era un altro grande vincolo: i tempi di preparazione.
Il buon vecchio R7 andava caricato a ossigeno liquido, operazione che richiedeva circa mezza giornata, inoltre, se il lancio fosse stato annullato il razzo andava scaricato e poi ricaricato.
Di nuovo, tutto ciò non è un gran problema se devi fare una missione spaziale, ma diventa un problema enorme se devi lanciare un contrattacco nucleare.
Ad aggiungere criticità vi era poi il fatto che gli unici siti in grado di lanciare gli R-7 erano i cosmodromi di Bajkonur e di Plesetzk, luoghi scarsamente difendibili: un attacco preventivo americano avrebbe potuto facilmente distruggerne le rampe di lancio privando i sovietici della possibilità di rappresaglia.
Un buon missile doveva essere armato e pronto al lancio in meno di 10 minuti, e doveva poter venir nascosto e conservato per mesi senza bisogno di manutenzione.
In parte i militari avevano aggirato il problema usano sottomarini nucleari e missili a corto raggio e sviluppato gli R-12 e R-14 che almeno fino all’Europa ci arrivavano, ma gli USA avevano già sviluppato i missili Titan-1 li avevano interrati un po’ ovunque con l’accortezza di puntarli sulla Russia e aspettavano solo che i russi facessero una mossa sbagliata.
Ci voleva un missile che riempisse questo enorme gap strategico.
Atto 1
Il Politico, il Generale e l’Ingegnere
Nel maggio del 1958 Khrushchev si incontrò con Mikhail Yangel per fargli sviluppare un nuovo vettore.
Khrushchev aveva già chiesto a Sergei Korolev (il padre della cosmologia sovietica) ma quest’ultimo gli diede picche (Korolev era un genio ma era anche un cane sciolto che sviluppava missili con i fondi dei militari ma li usava principalmente per la ricerca spaziale).
Yangel, che da tempo voleva scalzare Korolyov, accettò subito la richiesta e si mise a sviluppare un missile balistico secondo le indicazioni e le necessità dei militari.
I militari entrano in questa storia con la figura del generale Mitrofan Nedelin, colui che aveva convinto Khrushchev che la missilistica era l’arma del futuro: molte fabbriche militari e navali erano state riconvertite per la produzione missilistica e ora l’esercito si trovava indebolito e senza un’adeguata compensazione.
Khrushchev era furibondo per questo e Nedelin sapeva che l’unica speranza di salvare la faccia era avere disponibile un missile intercontinentale adeguato.
Nacque così il progetto R-16.
Il missile aveva due stadi e utilizzava nuovi motori che bruciavano ipoazotide e dimetil-idrazina asimmetrica, due composti estremamente tossici e volatili, ma che avevano il vantaggio di essere liquidi a temperatura ambiente (e quindi facilmente stoccabili) e di accendersi al semplice contatto: una volta aperte le valvole il razzo partiva, semplice e affidabile.
Il razzo era un po’ meno potente dell’R-7 ma era in grado di starsene interrato per mesi senza problemi, essere armato nel giro di pochi minuti e sganciare un confettino nucleare da 3 tonnellate sugli Stati Uniti… che poi era tutto ciò che i militari volevano.
Atto 2
Il Test
Sotto tutta questa mole di pressioni il progetto dell’R-16 bruciò le tappe. Nell’ottobre del 1960 il primo prototipo venne costruito e preparato per i test.
Benché l’industria missilistica russa fosse abituata a fare anche le cose in fretta (anche se sempre molto bene e con molta attenzione), in questo caso, a causa della posta in gioco, si lavorò in un clima decisamente tirato e molti protocolli di sicurezza vennero ignorati.
Diverse persone che lavoravano al progetto riportarono successivamente che non avevano mai visto così tanta fretta e così tante violazioni dei protocolli pur di arrivare al lancio in tempi brevi.
Il sistema di guida non venne nemmeno testato dopo il trasporto, diversi sistemi elettronici erano privi di tutti i collaudi necessari e tutti i problemi venuti alla luce durante i test preliminari vennero ignorati per ordine della Commissione di Stato che autorizzò a proseguire senza investigarne le cause.
Così, la sera del 23 ottobre 1960, il missile era sulla sua rampa pronto a partire, intorno a lui decine di tecnici si affannavano a sistemare gli ultimi dettagli in attesa del lancio.
Venne quindi dato l’ordine e le valvole pirotecniche dei serbatoi esplosero in sequenza connettendo i compartimenti dei due combustibili.
Eppure il missile non si accese.
Dopo i primi minuti di sgomento si cercò di capire cosa fosse successo.
L’ipotesi più probabile era che una o più valvole non fossero scattate e di conseguenza la reazione non si era innescata.
Il missile non aveva controlli automatici per capire se le valvole fossero scattate o meno e i tecnici nella zona non erano sicuri di quante ne avevano sentite effettivamente esplodere.
La Commissione di Stato si riunii per discutere il da farsi.
Era necessario sostituire le cartucce esplosive e forse anche la centralina del primo stadio (che poteva avere dei problemi anch’essa).
Purtroppo però alcune valvole erano scattate e i componenti, altamente corrosivi, stavano consumando le guarnizioni e quest’ultime non potevano reggere più di un giorno. Bisognava agire in fretta.
D’altro canto però la procedura di svuotamento dei serbatoi era una cosa lunga e delicata: una piccola perdita avrebbe potuto scatenare l’inferno.
La Commissione stabilì che l’unica strada veramente sicura fosse quella di far esplodere le valvole di isolamento dei serbatoi così da metterli in sicurezza, disattivare le centraline di primo e secondo stadio per evitare che mandassero comandi errati, svuotare i serbatoi, pulire le tubazioni, sostituire i pezzi difettosi e ripetere il test.
In questo modo si sarebbe evitato qualsiasi rischio.
Atto 3
L’Incidente
Il generale Nedelin bocciò le conclusioni della Commissione.
Per seguire tutto il protocollo ci sarebbero voluti giorni, un ritardo inammissibile, per cui pretese che le riparazioni fossero fatte con il razzo in assetto di partenza così da ripetere il test l’indomani mattina.
Dopo un’animata discussione Nedelin impose le sue richieste e le riparazioni iniziarono.
Per tutta la notte, alla luce delle fotoelettriche i tecnici lavorarono attorno al colosso di metallo carico e pronto al lancio con i militari che supervisionavano le operazioni.
Al mattino del 24 ottobre, temendo che anche la centralina del secondo stadio fosse difettosa si decise di far esplodere tutte le valvole di sicurezza preventivamente così che, appena il primo stadio si fosse sganciato, la centralina avrebbe acceso il secondo stadio con un comando singolo ignorando ogni altra condizione.
Un terribile azzardo per passare sopra a eventuali altri difetti.
Inoltre, per la stanchezza, nessuno si ricordò che la centralina del secondo stadio non era spenta e priva di alimentazione ma era ancora alimentata dalle sue batterie interne.
A trenta minuti dal lancio i sistemi vennero resettati e a quel punto la centralina del secondo stadio, che era rimasta attiva, entrò in funzione settandosi su 90 secondi e, mentre i tecnici controllavano gli ultimi parametri, diede il via al conto alla rovescia.
Un minuto e mezzo dopo l’orologio raggiunse lo 0 e la centralina diede il comando di attivazione del secondo stadio.
I controlli ausiliari vennero bypassati in quanto le valvole di sicurezza erano già state fatte esplodere, il comando attivò quindi i sistemi automatici che accesero i motori del secondo stadio.
Solo che il missile non si trovava a migliaia di metri da terra, si trovava ancorato alla rampa di lancio.
La potente fiammata investì il primo stadio, le paratie metalliche resistettero pochi secondi prima di essere distrutte e riversare decine di tonnellate di carburante esplosivo e tossico sulla rampa.
Il carburante si incendiò immediatamente a contatto con le fiammate del secondo stadio sprigionando una vampata di 3000° gradi che si espanse come una muraglia di fuoco incenerendo qualsiasi cosa nel raggio di un centinaio di metri e bruciando vive le decine di persone che ancora erano intorno al missile.
Lo stesso generale Nedelin venne incenerito all’istante.
Insieme a lui decine di tecnici, operai e soldati trovarono una morte orribile consumati dalle fiamme. Il numero delle persone bruciate vive probabilmente non si conoscerà mai.
Le fonti più attendibili (i rapporti ufficiali declassificati nel 1994) parlano di 74 morti e 27 feriti, altre fonti arrivano a contare fino a 130 decessi.
Epilogo
Un Incidente Mai Avvenuto
Appena saputo dell’incidente scattò il cover-up da parte del governo.
Tutti i militari morti furono sepolti in una fossa comune poco lontano dal cosmodromo, le salme dei 17 rappresentanti di alto rango furono fatte rientrare e vennero creati dei finti incidenti per spiegare la loro morte.
A tutti i superstiti fu intimato il silenzio.
Eppure le notizie di un devastante incidente iniziarono a trapelare molto presto grazie alle notizie raccolte dai servizi di intelligence occidentali.
Rimasero però notizie estremamente confuse sia sulla portata del disastro sia su cosa fosse effettivamente successo.
Dubbi che vennero fugati solo quando i documenti ufficiali vennero infine declassificati.
Conclusioni
Ogni anno, il 24 ottobre, gli studenti delle scuole elementari della vicina città di Leninsk si recano a Bajkonur a deporre fiori e rami di abete vicino al memoriale eretto in ricordo della tragedia di Nedelin.
Per quanto oggi possiamo stupirci della serie di decisioni folli che hanno portato all’incidente dobbiamo sempre ricordarci che l’era della missilistica, che oggi ci permette gli incredibili successi come la missione Rosetta, è nata e si è sviluppata come modo per distruggere le nazioni avversarie.
Il missile sulla rampa era progettato per incenerire una città di milioni di abitanti su suolo americano e per proteggersi (tramite la paura di rappresaglia) da un’eventualità simile su suolo sovietico.
Quindi era normale che si agisse in gran segreto e a volte sacrificando le norme di sicurezza: si stava testando un’arma di distruzione di massa.
Come ogni incidente nella storia della missilistica anche questo ha insegnato qualcosa per il futuro.
Oggi, quando un razzo è sulla rampa pronto al lancio e pieno di combustibile, viene eretto intorno un cordone di sicurezza che non può essere oltrepassato da nessuno se non per operazioni di massima urgenza, un accorgimento che di sicuro ha salvato molte altre vite.
Il disastro di Nedelin ha permesso, pur nella sua tragedia, di migliorare sulla strada che ha portato l’umanità nello spazio, i razzi che usiamo oggi sono i figli di quelli pensati per distruggere le nostre città.
E non sono i Russi o gli Americani o gli Europei ad andare nello spazio, è l’umanità nel suo insieme a farlo. E coloro che sono morti nella corsa allo spazio, sono morti per tutti.
I morti di Nedelin vanno ricordati anche per questo.
- Il mistero dei cosmonauti perduti di Luca Boschini
- Nedelin catastrophe (wikipedia.org)