Ave atque vale

Punto la freccia un paio di piedi sopra la sagoma del giovane cervo. Data la potenza dell’arco credo che alla distanza di un pletron dovrebbero essere sufficienti. Trattengo il respiro per un istante, poi scocco.

La freccia compie la sua parabola e colpisce l’animale in pieno torace.

Il cervo sobbalza, scarta e scappa.

Ma non può andare lontano… tra un paio di minuti al massimo i polmoni si saranno riempiti di sangue e morirà soffocato.

Con calma mi dirigo verso dove l’ho visto fuggire e comincio a muovermi in spirali sempre più ampie finché non ne trovo il corpo, una macchia marrone chiaro in mezzo al verde dell’erba.

Osservo i grandi occhi neri e vitrei che sembrano fissarmi.

Negli occhi di un lupo, o di un cinghiale, ho visto brillare intelligenza o astuzia, ma ho sempre pensato al cervo solo come a una mucca con grandi corna e incapace di dare latte.

Con uno strattone sollevo le zampe dell’animale e le lego con dei lacci di cuoio. Poi me lo carico sulla schiena.

Non è leggerissimo, ma nemmeno troppo pesante, e i pochi chilometri che mi separano dal castrum non dovrebbero costituire un grosso sforzo.

Mentre mi dirigo con passo svelto verso l’accampamento romano non posso fare a meno di ammirare il lussureggiante paesaggio, così incredibilmente verde. Prati e boschi a perdita d’occhio.

E con l’arrivo della primavera cominciano a sbocciare fiori ovunque. È molto differente dalla brulla e pietrosa Grecia a cui sono abituato.

Anche perché qui fa molto più freddo di quanto abbia mai provato nella mia civilissima Athênai… mi viene da sorridere pensando a quello che potrebbe dire mia madre vedendomi ricoperto di tante pelli e pellicce…

Ma nonostante il freddo, ancora non piove. Sono diverse settimane che aspettiamo oramai, per ora c’è solo una nebbiolina che ha l’unico effetto di aumentare la sensazione di gelo.

Passata una mezz’ora di cammino già scorgo le grandi torre d’assedio in lontananza. Ancora un po’ e sarò arrivato.

Ecco la palizzata in legno e la Porta Decumana.

I legionari di guardia mi fermano, ma mi faccio riconoscere e vengo lasciato passare.

Oramai quasi tutti sanno chi è “Il Greco”.

– Ave Stefanòs – mi volto, sentendomi chiamare per nome.
– Salve Centurio Cassius – saluto il comandante della centuria alloggiata vicino alla mia tenda.
– Anche oggi hai avuto fortuna, vedo.
– Non la chiamerei così… Sono sempre stato un buon cacciatore.
-In caso tu abbia problemi col mestiere di storiografo puoi sempre ripiegare sulla caccia allora- scherza

Sorrido.

– Beh, non si sa mai. Dopotutto chissà cosa può riservare la dea Tyche a un greco in un paese come questo.
– Di certo non ti farò concorrenza. Sono sicuramente miglior contadino che cacciatore. Vieni, ti aiuto a trasportare la tua preda. Da’ un po’ qua…
Sciolgo i lacci e gli porgo le zampe anteriori dell’ animale.

Ci dirigiamo verso la zona nord, passando attraverso i blocchi regolari di tende di pelli. L’ odore del grasso con cui sono unte satura l’aria.

Un castrum romano è un esempio di ordine e struttura, ben diverso da un accampamento greco, costruito secondo i ripari naturali offerti dall’ambiente. E questo è piuttosto grande. Vi sono stanziate otto legioni, e quattro o cinquemila tra irregolari e genieri.

– Questa volta non dovrei nemmeno perdere tempo offrendomi di spartire la preda, Centurio…
– Non ti preoccupare, greco. Noi non la vogliamo. Non è sufficiente per tutti. Aspettiamo il grano.
– Si ma sono quattro giorni che non arriva, e che non mangiate quasi niente. Non vedo ragione per soffrire ancora la fame.
– O tutti o nessuno, greco. Non esistono favoritismi tra i legionari.
– Ma…
– O tutti o nessuno. Il comandante ha già avvisato gli Edui, che ci stanno prendendo in giro da troppo tempo ormai con la promessa del grano, e Cesare non è certo uomo da lasciarsi trattare in questo modo. Lo ha addirittura chiesto a noi soldati.
– Chiesto cosa?
– Se volevamo levare l’assedio e andare a prenderci del grano o preferivamo aspettare. Siamo venuti fin qua per aiutarli, questi “alleati” Edui. Per portar loro un minimo di civiltà. E non fanno altro che mentire e ingannarci. Barbari di merda.
– Beh non hai pensato che magari questa campagna in realtà convenga a Cesare, e che loro non la vogliono, la vostra civiltà?
– Come sarebbe a dire che non la vogliono? Non hanno strade decenti, né ponti degni di questo nome. Non hanno olio… non hanno vino. Come fa un popolo a non avere il vino?
E comunque dopo il massacro di Cenabo che dovremmo fare? Meglio soffrire la fame che lasciare invendicati tutti i cittadini romani trucidati. A questo punto aspettiamo, sarà peggio per i Biturigi una volta che saremo riusciti a penetrare nella loro maledetta città fortificata…
– A parte la città è importante anche per il morale, oramai è quasi un mese che siamo bloccati.
– Si, Vercingetorige continua con le sue incursioni, cercando di tagliarci ogni approvvigionamento. Il Dux è stanco di questa situazione, ed è stato chiaro. Moriranno tutti. Donne, vecchi e bambini. Deve soltanto piovere…

Un brivido mi percorre la schiena.

– Uccidere i propri nemici va bene, ma non c’è onore nell’ uccidere civili… Non ti vergogni Centurio? Non hai una moglie, una madre o dei figli? Non hai una famiglia?
– Che discorsi, certo che ce l’ho. A Roma. Ho moglie e due figli piccoli.
Il sangue mi ribolle e non posso non alzare la voce.
– E allora come puoi parlare di uccidere donne e bambini? Come puoi anche solo pensare di macchiarti di un crimine così grave? Gli Dei vi puniranno duramente per questo.
– Ma cosa dici? – mi risponde con tono di scherno – Dopo che un legionario ha giurato il Sacramentum, è il comandante il responsabile delle azioni dell’ esercito. Noi rispondiamo a lui, e lui e lui soltanto ne risponde agli Dei e al Senato.
Una cosa è la nostra vita a Roma da cittadini e Pater Familias, un’ altra, ben diversa, è la vita nella Legio. Noi serviamo la
Res Publica non come individui ma come qualcosa di più grande.
– Io sono stato educato da guerriero, ma …
– Noi non siamo “guerrieri”, greco. Noi non giochiamo con la guerra e non facciamo duelli, per quello ci sono gli schiavi gladiatori nel Circo Massimo. Noi siamo soldati. Non ci nascondiamo dietro delle parole o delle belle storie, noi obbediamo agli ordini. Se c’è da soffrire il freddo, la fame o la fatica…-
– O se c’è da portare un tronco…-
– Non capisco cosa ci sia da scherzare.
– Non ho mai saputo di nessun popolo i cui soldati si portassero ognuno un tronco sulla schiena.
– Eppure mi pare così semplice. Ogni sera ognuno di noi prende la propria pala, scava la propria buca e ci mette il proprio tronco.
Ognuno dà il proprio contributo alla protezione degli altri.
E così abbiamo un accampamento fortificato. È solo questione di disciplina. Eccoci arrivati alla tua tenda. Ti devo lasciare. Buon appetito.
– Grazie Centurio – rispondo, sollevato dal poter interrompere una conversazione che rischiava di scaldarsi troppo.

Ogni tenda, ogni Contubernium, è una piccola famiglia composta da otto soldati che vivono insieme, preparano insieme i propri pasti e mangiano insieme.

Invece io ho il raro privilegio di stare per conto mio.

Il che significa anche che devo essere del tutto indipendente.

Sbatto il cervo su una stuoia a terra, e con il coltello recido uno dei tendini sopra una zampa posteriore dell’ animale.

Afferro la pelle e tiro, scuoiandolo dapprima fino alla coscia e poi privandolo completamente della pelle. Poi squarto appena sotto l’anca, e appendo il resto. Per oggi la coscia mi basta.

Sarebbe meglio lasciare a macerare la carne una notte nel vino, o a frollare per qualche giorno, ma ho troppo fame, lo stomaco mi gorgoglia e accendo un piccolo fuoco per arrostire il mio pranzo.

Sarà duro come legno, ma direi che la cosa non ha tutta questa importanza.

Per tutta la durata del pasto rimango all’interno della mia tenda per evitare commenti e battute di eventuali passanti.

Ho cacciato e ucciso il mio cervo da solo, mi sono offerto di spartirlo, ma dovrei sopportare occhiate di disprezzo quasi fossi un ladro, perché non voglio soffrire assieme a loro.

Dopotutto non sono e non sarò mai uno di loro.

Di famiglia nobile, istruito e abile guerriero, subisco lo stesso trattamento di un qualunque barbaro non romano.

Finito il pasto, levo la corda al mio arco di tasso, e lo ripongo insieme a faretra e frecce accanto alla mia panoplia, e prendo il materiale per la scrittura.

Dopotutto è questo che sono venuto a fare, e anche se ancora dura quest’ assedio della città di Avarico materiale da scrivere non mi manca.
Il tempo passa senza che me ne renda conto, faccio fatica a leggere ormai, guardo fuori dalla tenda e mi accorgo che è giunta la sera e la luce è ormai poca.

Un brivido mi percorre la pelle …l’aria si sta facendo ancora più fresca.
Il cielo è coperto e non si vedono le stelle.

E all’ improvviso comincio a sentire il ticchettio sordo di gocce di pioggia contro la pelle della tenda.

Mi affaccio all’entrata. Un improvviso fervore pervade l’accampamento. Le bùccine cominciano a suonare.
Piove. Il momento è arrivato.

Vedo apparire di nuovo il centurione Cassius.
– Ave Centurio – saluto un’ altra volta
– Ave atque vale, greco – mi risponde. Lo sguardo eccitato è quasi quello di un folle.

Quasi non c’è bisogno di gridare nessun’ ordine, nel giro di pochi minuti le coorti sono formate, gli stendardi con le aquile sono levati.

La pioggia ormai battente rimbalza su elmi, su corazze e su scudi di plotoni in assetto da guerra.

In un angolo all’ interno della mia tenda giace la mia panoplia.
La mia armatura, il mio scudo, la mia spada e la mia lancia. Passate a me da mio padre.

Potrei vestirmi e combattere con gli irregulari o prendere l’arco e unirmi ai sagittari, ma mi rendo conto di essere diverso, di essere troppo individuo per voler far parte di questa macchina da guerra.

La sofisticata Atena adesso lascia il passo al brutale Ares, la strategia al bagno di sangue.

Piove, e stanotte il fuoco non potrà fermare le macchine d’assedio.

Piove, e stanotte Avarico cadrà.

E con lei tutti i suoi abitanti.

Uomini e donne. Vecchi e bambini.

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