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La cucina napoletana è sempre stata molto povera ma clamorosamente saporita, nonostante tutto. Nei quartieri di Napoli, fino a qualche tempo fa, erano abbastanza presenti le [b]friggitorie[/b], piccoli stand ambulanti in cui venivano preparati e serviti caldissimi i fritti all’italiana (o per meglio dire alla napoletana), nel classicissimo e sempiterno “cuoppo” (cioè il cono di carta di giornale). Oramai ne rimangono poche in giro e trovare un prodotto di qualità è arduo, ma la ricerca paga.
Ai tempi, nel fritto misto trovano posto [i]crucché[/i], [i]pall’ ‘e riso[/i], panzarotti, [i]zeppulelle ‘e pasta crisciuta[/i], [i]scagliuozzolo[/i] e [i]tittolo[/i], [i]vurraccia fritta[/i] e per i più fortunati anche qualche [i]sciurillo cu’ ‘a pastetta[/i].
Ora, nei pochi stand ambulanti, è necessario accontentarsi di sole zeppole, panzarotti e scagliuozzole, dal sapore inconfondibile e, come da tradizione, incredibilmente salati.
Un breve riepilogo in approfondimento vi chiarirà le idee sulle ricette un po’ più famose:
[more]I [i]crucchè[/i], spesso erroneamente associati ai panzarotti, sono una variante delle crocchette di patate, piatto internazionalmente conosciuto. Patate, uova, burro, parmigiano, abbondante prezzemolo, pepe, sale e pangrattato per l’impasto e succosa mozzarella per il ripieno.
I [i]panzarotti[/i], molto presenti anche nelle altre cucine regionali, sono dei fagottini impastati con farina, sugna e acqua, ripieni di ricotta lavorata con l’uovo, mozzarella, salame e parmigiano, il tutto abbondantemente pepato. Una bomba di sapore spaventosa.
[i]Pall ‘e riso[/i] (arancini) e [i]Zeppulelle[/i] (zeppole di pasta) invece sono altre due specialità abbastanza famose, con ovvie e adeguate variazioni per sottolinearne la napoletanità come le alghe di mare nelle zeppole (NdYudoit).[/more]
Varrebe la pena lasciare spazio ai tre rimanenti piatti, oramai quasi del tutto sconosciuti e caduti in disuso.
[i]Tittul e scagliuozzole ‘e farinella[/i] sono nient’altro che polenta fritta. Un unico poverissimo ingrediente (farina di granoturco): si cucinava la polenta e quella che avanzava, il giorno seguente veniva tagliata in pezzi triangolari e fritta in abbondante olio di semi. L’arte di riutilizzare tutto ottenendo il miglior sapore possibile. In realtà ci sono state tramandate in realtà due accezioni differenti per i due termini: i [i]titull'[/i] sarebbero “piccole fette triangolari di pasta di granoturco fritta” mentre [i]’e scagliuzzole[/i] sono “piccoli pezzi romboidali di pasta di frumentone fritta in padella o cotta al forno”. Sfumature incredibili di una napoletanità arcaica e, ahinoi!, desueta.
[i]Vurraccia fritta[/i]. Il mistero si fa fitto. La [b]borragine[/b] ([url=http://it.wikipedia.org/wiki/Borragine][i]Borrago officinalis[/i][/url]) è una verdura selvatica ormai non più reperibile con facilità, data la scarsa richiesta. Il suo nome deriva dal francese “bourrache” o, meglio ancora, dal latino “burrago”. A Napoli era usata per frittate, pasta ripiena e altre prelibatezze, ma la sua espressione più tipica è nella frittura: le foglie giovani della pianta, opportunamente lessate, venivano rivestite di pastella lievitata e fritte. Non ho mai avuto la fortuna di assaggiarne un po’, mio malgrado.
Analogo procedimento è usato per i [i]sciurilli[/i], che nient’altro sono che i fiori di zucchina, ben lavati e asciugati, che vengono fritti in pastella lievitata con o senza ripieno interno (mozzarella o ricotta e salame). Una delicatezza assoluta, da annoverare a mio avviso, in tutti i manuali di cucina del mondo.
Arrivederci alla prossima postata!