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[i]La provocazione di una giornalista inglese del Daily Mail: “Da Dumbo a Hanna Montana, i protagonisti sono abbandonati a se stessi. L’animatore e cineasta forse traumatizzato dalla perdita della madre”. Ciotta: “Mettere il bambino al centro di tutto è stata la sua grande rivoluzione”[/i]

ROMA – “Quando progettiamo un nuovo film non pensiamo agli adulti e non pensiamo ai bambini, ma solo a quel meraviglioso e limpido luogo che è dentro di noi”, diceva Walt Disney. In quel meraviglioso luogo il genio americano teneva la risposta a tutte le domande che, negli anni, i critici si sono posti sui suoi capolavori. Perché Topolino è così infallibile? La strega di Biancaneve non fa troppa paura? La “diversità” di Dumbo e Nemo ha uno scopo pedagogico? E Fantasia non è un po’ troppo sperimentale?

L’ultimo punto interrogativo è firmato da Sonia Poulton, giornalista del Daily Mail, che in un articolo si chiede perché, nei cartoon e nei film del cineasta di Chicago, manchino quasi sempre i genitori. In effetti, la musa dei sette nani è senza famiglia e vive con una regina cattiva, Dumbo la mamma ce l’ha ma ne viene separato appena nato. Non parliamo di Bambi, che perde la madre uccisa dai bracconieri e incontra il padre solo da adulto, o del protagonista del Libro della giungla, Mowgli, abbandonato nella selva indiana e adottato da un branco di lupi. Non hanno i genitori né Peter Pan né Tarzan, archetipi di vitalità e indipendenza, e in Alla ricerca di Nemo il pasciolino un padre ce l’ha, ma impiega due ore di film per incontrarlo.

Ci sono poi i rapporti controversi: La sirenetta Ariel, ad esempio, con papà Nettuno non va affatto d’accordo, e non va meglio a Cenerentola, che viene affidata a una matrigna psicotica. La protagonista de La Bella e la Bestia è senza madre, Gli Aristogatti senza padre, Il Re Leone vede morire il suo in modo atroce e Red e Toby e Artù, de La spada nella roccia, sono direttamente orfani. Stessa storia quando i protagonisti sono in carne e ossa: l’idolo dei teenagers Hanna Montana vive col padre (la mamma è morta), e anche nel film Cambio di gioco alla piccola protagonista manca la figura materna.

La Poulton, che per il giornale britannico si occupa di società tradendo talvolta posizioni conservatrici, insinua che dietro le scelte di Disney ci sia il rifiuto per la figura genitoriale, originato dal trauma di aver perso la madre. Flora Call Disney venne trovata morta il 29 novembre 1938, asfissiata dal gas di un boiler difettoso, e Disney fu sopraffatto dal senso di colpa, perché era stato lui a regalare ai genitori la casa.

“Che la morte della madre abbia segnato la sua vita è vero – spiega Mariuccia Ciotta, autrice del libro “Walt Disney. Prima stella a sinistra” (Bompiani) – ma l’episodio è avvenuto quando gran parte della sua produzione era già stata avviata. Insomma: non c’entra nulla”. L’autrice, citando Walter Benjamin, ricorda che “tutte le fiabe sono viaggi di iniziazione” e che era proprio questa la filosofia seguita da Disney nella sua produzione artistica. “Il suo obiettivo – spiega – era quello di mettere il bambino davanti al mondo, da solo, pronto per il viaggio della vita. Senza perdere mai, come insegna Peter Pan, gli occhi dello stupore tipici dell’infanzia. In un cammino del genere non c’è spazio per i genitori”.

Quando sceglieva i classici da trasformare in lungometraggi, Disney attingeva quasi sempre da classici della letteratura, dai fratelli Grimm a Charles Perrault e Hans Christian Andersen. Non sempre, quindi, era lui a scegliere se dare o no genitori ai personaggi. “Ma sceglieva solo fiabe che racchiudessero il concetto di trasformazione – continua la Ciotta – Pur essendo considerato un reazionario, Disney era in realtà un grande sperimentatore. I suoi bambini sono quelli destinati a risollevare l’America del ’29, i suoi mondi fantastici (di cui il prototipo è Wonderland, L’isola che non c’è) sono il simbolo di un mondo nuovo, rivoluzionario, dove è possibile volare, perchè il volo è la metafora del cambiamento”.

Ma c’è proprio bisogno di orfani e matrigne nelle fiabe? E se sì, perché? Secondo Maurizio Brasini, esperto di psicologia infantile, “la necessità delle fiabe sta proprio qui: affrontano in modo simbolico aspetti problematici dell’esperienza del bambino e offrono delle soluzioni. In modo simbolico, ad esempio, una matrigna rappresenta la “parte cattiva” di ogni madre, cioè le difficoltà di rapporto, le incomprensioni, la sensazione che il bambino prova di aver subito delle ingiustizie, la paura delle punizioni, etc. Allo stesso modo, l’orfano rappresenta una condizione in cui il bambino si appresta a fare a meno del genitore, a tollerarne l’assenza e affrontare la vita senza il suo sostegno per conquistare la sua autonomia”.

L’esperto sottolinea che è proprio questo il motivo per cui il bambino ha bisogno della fiaba, per riuscire a padroneggiare la sua esperienza e le emozioni ad essa collegate. “Tutte le fiabe, non solo quelle di Disney – conclude – ricorrono in modo massiccio a questi motori narrativi, e non è affatto strano, considerato che la vita relazionale del bambino è incentrata sui genitori”. Ed è insomma proprio di questo che i più piccoli hanno bisogno, quando domandano: “Mi racconti una favola?”.

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