Nel cuore della notte il Secret Service sveglia di soprassalto il Presidente per evacuarlo con la famiglia dalla Casa Bianca e portarlo subito in un luogo sicuro. Il Presidente viene informato della situazione: i satelliti geostazionari hanno appena rilevato la traccia termica del lancio multiplo di missili balistici intercontinentali verso obbiettivi americani.

Non si può far nulla per fermarli, né si può evacuare la popolazione civile, si può solo lanciare un immediato contrattacco.

Non si può far nulla per fermarli, né si può evacuare la popolazione civile, si può solo lanciare un immediato contrattacco prima che la propria capacità di risposta sia limitata, se non annientata.

Pochi minuti dopo alcuni abitanti di Capitol Hill alzano lo sguardo al cielo e notano una luminosa meteora cadere veloce verso la città, ancora pochi secondi, poi in un lampo di luce 100.000 persone cessano di esistere all’istante, dissolte in una palla di fuoco più calda del Sole, ma sono solo i più fortunati perché allontanandosi da ground zero, nei secondi che seguono centinaia di migliaia di altre persone periranno arse vive o spazzate via dall’onda d’urto e molte altre, ancora meno fortunate moriranno tra atroci sofferenze nei giorni e mesi successivi in seguito alle devastanti lesioni riportate o alla contaminazione radioattiva.

Mentre in superficie si è già scatenato l’inferno e le pareti del bunker tremano, il Presidente ha già autorizzato un attacco nucleare su larga scala, l’ordine viene subito dopo confermato dal Segretario alla Difesa da un altro sito protetto e i codici con l’ordine vengono inviati al Chairman of the Joint Chiefs of Staff. Pochi minuti dopo i missili Minuteman III e Trident II sono già stati lanciati dai silos e dai sottomarini SSBN e i bombardieri B-1,B-2 e B-52 sono in volo verso i loro obbiettivi, è appena iniziato un conflitto nucleare di vaste proporzioni e poche ore più tardi saranno già morte più persone che nell’intera Seconda Guerra Mondiale.

Questo che oggi potrebbe essere l’inizio di un b-movie catastrofista, è stato in realtà per buona parte della seconda metà del secolo scorso una paura più che concreta per milioni di persone.

Quando il Presidente degli USA (nome in codice POTUS) è lontano da un centro di comando come la sala operativa della Casa Bianca o Air Force One, è sempre seguito da un ufficiale militare, accuratamente selezionato, che porta con sé una valigetta blindata conosciuta come “football nuclear”.

La valigetta consente al POTUS di ordinare un attacco nucleare in qualsiasi momento, contiene i codici di lancio, la lista dei rifugi protetti, i piani di attacco, le procedure di emergenza e consente di contattare il Joint Chiefs of Staff. Solo in rare occasioni un Presidente è stato separato dalla “football nuclear”. Il Presidente russo ne ha una del tutto simile detta “Cheget”.

 

 

MAD

La Guerra Fredda si reggeva sul fragile equilibrio della mutua distruzione assicurata (MAD – Mutual Assured Destruction) eppure in più occasioni si è stati vicini ad un conflitto nucleare, che anche nelle più ottimistiche previsioni avrebbe causato milioni di morti e una distruzione paragonabile a quella dell’ultimo conflitto mondiale.

Verosimilmente solo nel peggiore degli scenari le testate sarebbero state usate direttamente su obbiettivi civili, quanto piuttosto militari e industriali, ciononostante una testata nucleare è tutto fuorché un’arma chirurgica…

La FEMA (in pratica l’equivalente americano della nostra Protezione Civile) stimò nel 1990 che un massiccio attacco russo verso obbiettivi militari e industriali americani avrebbe coinvolto direttamente oltre 47 milioni di persone, con un 24% della superficie degli USA soggetta ad un alto rischio di contaminazione radioattiva, soggetta ad un’esposizione di più di 6000 roentgens di radiazione ionizzante e con un 4% ad una esposizione di più di 15000 roentgens, anche se in questo caso le variabili in gioco sono molteplici e si tratta di stime approssimative si consideri comunque come termine di paragone che con un’esposizione di 6000 roentgens si assorbe una quantità di radiazione sufficiente a causare un forte malessere immediato e la morte certa in non più di 24/48 ore.

Eppure diversi influenti consiglieri militari americani e russi sostenevano l’ipotesi di un conflitto limitato, un attacco preventivo a sorpresa che avrebbe colpito gli obbiettivi strategici militari, limitandone fortemente la capacità di risposta, se non del tutto almeno in gran parte.
Si dice che nel 1950, il grande von Neumann, divenuto uno dei più influenti consiglieri militari del Pentagono, abbia detto:

If you say why not bomb them tomorrow, I say why not today? If you say today at five o’ clock, I say why not one o’ clock?

In realtà non si sa se abbia mai realmente pronunciato queste parole, ma esse danno comunque una buona idea di ciò che pensavano una parte dei comandi e consiglieri militari americani, cioè che un conflitto sarebbe stato prima o poi inevitabile e che era fondamentale colpire per primi per eliminare la minaccia, anche al costo di riportare pesanti perdite.
Bisogna dire che per quanto assurdo questa strategia poteva avere un senso nei primi anni ’50 quando la superiorità nucleare americana era schiacciante, mentre a partire dagli anni ’60 si sarebbe poi sviluppato l’equilibrio della MAD (mutua distruzione assicurata) ed entrambe non avrebbero più avuto la possibilità di annientare il nemico prima che esso potesse fare altrettanto. Quando nel 1962 ci fu la Crisi dei missili di Cuba, uno dei momenti in cui si è stati più vicini a un conflitto nucleare, USA e URSS avevano ormai sviluppato la capacità di lanciare testate anche dai sottomarini nucleari completando quella che viene definita strategia  nuclear triad, cioè la capacità di lanciare armi nucleari da missili con base a terra, in mare da sottomarini o navi e dal cielo da bombardieri o caccia.
Si può pensare che la MAD sia stata una strategia efficace e sicura, ma in realtà aveva i suoi punti deboli.

 

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Si può pensare che la MAD sia stata una strategia efficace e sicura, ma in realtà aveva i suoi punti deboli.

All’apice della Guerra Fredda c’erano decine di migliaia di testate nucleari, di ogni genere e potenza, negli arsenali americano e russo, dispiegate in varie parti del mondo. Bombardieri erano costantemente in volo, i sottomarini pattugliavano i mari quasi impossibili da rilevare e silos bunker custodivano missili balistici ICBM di grande precisione pronti al lancio in pochi minuti.

Reti satellitari garantivano (e garantiscono) poi un immediata rilevazione di lanci nemici. I tempi di risposta erano di pochi minuti per forza di cose e forse proprio questo è stato uno dei maggiori pericoli: non c’era molto tempo per valutare la situazione, un’incidente (Broken Arrow) o un falso allarme avrebbero potuto innescare un rapido ed inarrestabile succedersi di eventi che avrebbe causato milioni di morti e una distruzione senza precedenti.

 

 

Il club nucleare

Spesso ci si riferisce con il termine colloquiale club nucleare agli stati che oggi possiedono un arsenale nucleare. La maggior parte delle testate nucleari oggi esistenti (più del 90%) si trovano negli arsenali di USA e Russia, nonostante entrambe dopo la fine della Guerra Fredda ne abbiano ridotto drasticamente il numero, a tutt’oggi ne possiedono in totale circa 14700, tutte termonucleari, di queste una parte consistente è operativa ma non dispiegata oppure si trova nei depositi militari, ciononostante sia USA che Russia mantengono tuttora circa 1800 testate ciascuno in stato di high alert cioè pronte al lancio in pochi minuti.

 

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USA e Russia mantengono tuttora 1800 testate strategiche ciascuno in stato di high alert, pronte al lancio in pochi minuti.

Possiedono armi nucleari anche gli altri 3 membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU: Francia (300), UK (250) e Cina (215).

La Cina sta tuttora sviluppando nuove testate e la propria capacità di lanciarle, potrebbe possedere già più di 200 testate di cui teoricamente 60 potrebbero essere installate su missili in grado di raggiungere gli USA continentali. Ciò che però più preoccupa l’intelligence americana è il probabile imminente sviluppo da parte cinese di MIRV, cioè testate nucleari multiple che da un singolo missile possono colpire bersagli indipendenti, come i Trident II americani o i corrispettivi russi e francese. Oltre a questi possiedono un arsenale nucleare India e Pakistan, unico membro islamico del club e Corea del Nord. India e Pakistan possiedono solo bombe A, a sola fissione, circa 100-120 ciascuno, con una potenza massima di forse “soli” 20-30 kt, comunque sufficienti a causare milioni di morti nell’eventualità di un conflitto regionale tra i due paesi.

La Corea del Nord invece possiede solo pochi ordigni a basso potenziale, certamente meno di 10 e comunque di dimensioni non adeguate ad essere installate sui propri missili balistici a medio e corto raggio, ha effettuato, o meglio afferma di aver effettuato 3 test, che però in 2 casi si sono probabilmente risolti in parziali o totali fallimenti, con un unico test confermato della potenza di pochi kt (2-8).

Caso a parte è poi Israele che ufficialmente non ha mai ammesso di avere armi nucleari, né di aver effettuato test, ma che possiede certamente abbastanza plutonio per circa 200 ordigni e un arsenale di almeno 80 testate nucleari, non pronte al lancio ma che potrebbero essere dispiegate in caso di necessità su aerei F-15, F-16 (F-35?), su missili Jericho II a medio raggio e missili cruise su sottomarini classe Dolphin.

Il Sud Africa aveva costruito 6 ordigni nucleari a basso potenziale ma li ha volontariamente smantellati (è l’unico paese ad averlo mai fatto), abbandonando il proprio programma nucleare militare con la fine dell’apartheid. Vi sono infine da menzionare gli stati che partecipano alla cosiddetta condivisione nucleare (nuclear sharing), tra questi vi è anche il nostro (Italia, Germania, Turchia, Olanda, Belgio), sono tutti paesi NATO che hanno accettato di schierare sul proprio territorio armi nucleari americane. In tutto dovrebbero essere circa 180 (negli anni ’70 erano più di 7000) e sono ovviamente sotto il controllo americano, che ne detiene i codici di attivazione.

Negli anni ’70 in Europa occidentale e Turchia erano dispiegate 7000 testate tattiche americane, oggi sono 180.

Tra le 80 “italiane” circa 20, quelle che si trovano nella base di Ghedi Torre sono state adattate per essere trasportate e lanciate da caccia italiani PA-200 Tornado.

Si sospetta poi che altri paesi aspirino ad entrare in questo club, in primo luogo l’Iran che da molti anni porta avanti un programma nucleare che ha destato notevoli preoccupazioni nella comunità internazionale, in primo luogo Israele, che teme che esso non sia indirizzato come dichiarano le autorità iraniane ad un solo uso civile dell’energia nucleare, ma alla costruzione di armi nucleari (come pare più che probabile).

Proprio in questi giorni però è stato raggiunto un accordo internazionale che in cambio di limitazioni significative al programma nucleare e ispezioni regolari della IAEA (agenzia dell’ONU per l’energia nucleare) in tutti i siti interessati, dovrebbe portare all’abolizione delle pesantissime sanzioni internazionali a partire dal 2016.

 

 

La Bomba A

Vediamo prima di tutto di capire che cosa è una bomba atomica (o nucleare). Gli ordigni nucleari sono le più potenti armi mai concepite e realizzate, a partire dal luglio 1945 l’uomo è entrato in possesso di bombe migliaia e poi milioni di volte più potenti di tutto ciò che aveva fino ad allora costruito.

 

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Per dare un idea di quanto sia immensa la quantità di energia rilasciata da queste bombe, basta pensare che un dispositivo del peso di poco più di 1 tonnellata può liberare in un istante tanta energia quanto quella liberata dall’esplosione simultanea di 10 milioni di tonnellate di TNT (nel caso di una bomba H).

Le bombe atomiche si possono suddividere in due grandi categorie: le bombe A , a sola fissione, che furono le prime ad essere costruite e le bombe H, ordigni termonucleari che sfruttano anche il processo di fusione nucleare. Gli arsenali attuali di USA e Russia sono interamente costituiti da ordigni termonucleari (bombe H).

La bomba A sfrutta la fissione nucleare, incontrollata, di nuclei atomici molto pesanti: gli isotopi uranio 235 o plutonio 239.

La reazione è la stessa che viene utilizzata nelle centrali nucleari per la produzione di energia elettrica, dove però si deve mantenere ovviamente una reazione controllata e si utilizzano masse sub-critiche di materiale fissile (con uranio non arricchito a livello militare) e moderatori (ad esempio “acqua pesante” e barre di grafite), che rendano impossibile una reazione incontrollata e quindi un’esplosione nucleare.

Per ottenerla è infatti necessario avere una massa critica, una massa di materiale fissile tale che una volta innescato il processo a cascata, questo divenga incontrollato e inarrestabile liberando una spaventosa quantità di energia in meno di un millisecondo. Il processo di fissione consiste nella scissione di nuclei atomici pesanti in altri più leggeri, un neutrone, con una certa energia, colpisce il nucleo atomico pesante che lo assorbe, diviene fortemente instabile e decade in nuclei più leggeri, liberando energia ed altri neutroni che propagano a cascata la reazione.

La somma della massa dei nuclei più leggeri e dei neutroni derivati dal processo è leggermente inferiore a quella iniziale, questo perché una piccola frazione di massa si è appena trasformata in un’enorme quantità di energia, secondo la celebre formula di equivalenza fra massa ed energia E=mc².

In una bomba nucleare il materiale fissile viene sempre conservato in masse sub-critiche, che vengono compattate solo al momento dell’innesco, questo ovviamente per prevenire esplosioni accidentali. Esistono 2 metodi d’innesco: il primo quello utilizzato per Little boy, la bomba che distrusse Hiroshima è il gun-triggered, dove un cilindro cavo di U 235 viene sparato da esplosivo ad alto potenziale contro un bersaglio dello stesso materiale, cilindrico, grande quanto la cavità del primo e che contiene l’iniziatore (polonio e berillio) che sottoposto ad un’enorme pressione libera i neutroni necessari per l’innesco della reazione.

ne_21Questo metodo è poco efficiente e fu rapidamente abbandonato in favore di quello a implosione, più complesso, ma che permette di provocare la fissione di una maggior frazione del materiale fissile della bomba.

Erano dispositivi ad implosione a plutonio quello di Nagasaki, ma anche il primo in assoluto, The Gadget fatto esplodere nel test Trinity. Il sistema ad implosione è molto più complesso ma permette di ottenere la fissione nucleare di una percentuale maggiore del materiale fissile contenuto nella bomba.

Little Boy (Hiroshima) conteneva più di 60 kg di U 235 di cui solo l’1,5% subì fissione, per confronto Fat Man (Nagasaki) utilizzò 7 kg di plutonio con un’efficienza del 15% e una potenza risultante superiore. Il nocciolo della bomba viene contenuto in un tamper di uranio 238 o berillio che per un tempo nell’ordine dei microsecondi deve limitare la dispersione dei neutroni necessari al processo, nel sistema a implosione questo viene ottenuto anche tramite un più efficiente confinamento inerziale.

Bastano pochi kg di plutonio per costruire una bomba, forse addirittura poche centinaia di grammi per una a basso potenziale.

Un nucleo sferico cavo di plutonio, con al centro l’iniziatore in polonio e berillio, è circondato da esplosivo ad alto potenziale che detonando secondo una geometria e tempistica molto complessa fa implodere simmetricamente il plutonio, facendogli raggiungere una massa supercritica e innescando la reazione incontrollata. Bastano pochi kg di Pu 239 per costruire una bomba, forse addirittura poche centinaia di grammi per una a basso potenziale.

Il range di potenza di una bomba A, va da meno di 1 kt a circa 500 kt (il più potente ordigno di tale tipo testato).

en-plutonium-bombDetto così potrebbe sembrare un meccanismo semplice, ma è bene ricordare che, per fortuna, la realizzazione di una bomba atomica richiede tecnologie molto avanzate e presenta un ostacolo importante che è quello del reperimento di materiale fissile in quantità sufficiente ad avere una massa critica, il che comporta tutto il complesso processo di arricchimento dell’uranio naturale dove l’isotopo fissile rappresenta meno del 1% in peso, che deve essere portato quantomeno a più del 90%, se non a valori prossimi al 100% per ottenere uranio adatto per una bomba. Il plutonio 239 è invece un isotopo artificiale, che ha un’emivita di poco più 24000 anni e può essere prodotto nei reattori nucleari bombardando con neutroni ad alta energia uranio 238 (fertilizzazione) e procedendo poi a un processo di purificazione chimica del prodotto.

 

 

Bomba H (bomba di Teller-Ulam)

La bomba H, l’ordigno termonucleare, fu messo a punto per la prima volta dagli USA pochi anni dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, nel 1951 con il contributo fondamentale dei fisici Edward Teller e Stanislaw Ulam (da menzionare è anche l’importantissimo contributo delle idee del geniale von Neumann).

 

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La bomba H è estremamente più complessa di una a sola fissione, ma può rilasciare quantità di energia migliaia di volte superiori alle prime atomiche, con potenze nell’ordine non di chilotoni (kt), ma megatoni (Mt).

Praticamente tutte le armi nucleari oggi attive negli arsenali di USA e Russia sono di questo tipo, anche perché consente di avere ordigni di notevole potenza, centinaia di chilotoni, in dimensioni estremamente contenute con una quantità relativamente bassa di materiale fissile, tanto che i moderni missili balistici intercontinentali ne possono trasportare fino a 12 ciascuno (numero però limitato dai trattati internazionali). Un singolo missile Trident II, usato sui sottomarini nucleari SSBN americani potrebbe trasportare 12 testate da 450 kt a migliaia di chilometri di distanza in pochi minuti.

 

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Il funzionamento di una bomba termonucleare implica il succedersi rapidissimo e preciso di una serie molto complessa di eventi, ma sostanzialmente si basa su di un sistema a più stadi, con un ordigno che può essere diviso in 2 parti principali: primario e secondario. Il primario, un ordigno a fissione con innesco ad implosione, deve generare condizioni di temperatura e pressione estreme nel secondario, tanto estreme da innescare un processo incontrollato di fusione di nuclei leggeri, isotopi d’idrogeno (deuterio e trizio) esattamente come avviene nei nuclei delle stelle.
In realtà il meccanismo di funzionamento è molto più complesso e sfrutta un rapidissimo succedersi di processi di fissione e fusione nucleare, con un tipico schema a 3 stadi fissione-fusione-fissione, che teoricamente non ha limiti massimi di potenza.

Una bomba H sfrutta il rapidissimo succedersi di processi di fissione e fusione nucleare, che teoricamente non ha limiti massimi di potenza.

Il primario è sostanzialmente un ordigno a implosione come quello di Nagasaki, mentre il secondario è costituito da un involucro (tamper) di Uranio 238 che contiene deuteruro di litio, con al centro un piccolo involucro cavo di plutonio (sparkplug).

Nella prima bomba H della storia, Ivy Mike, fatta esplodere dagli USA il primo novembre 1952, venivano utilizzati deuterio e trizio allo stato liquido, il che presenta però notevoli problemi tecnici perché il tutto va conservato con un’ingombrante tecnologia criogenica alla temperatura di – 250°C. Ivy Mike era però solo un dispositivo sperimentale, grande quanto un edificio e del peso di 82 ton che serviva per testare e dimostrare la fattibilità del nuovo ordigno. Il test ebbe successo, producendo un’esplosione dell’incredibile potenza di più di 10 Mt, ma per utilizzare la bomba H in guerra era necessario un dispositivo miniaturizzato, notevolmente più compatto e maneggevole. Si arrivò così alla soluzione cosiddetta “dry” del deuteruro di litio, composto solido che non richiede tecnologie criogeniche. Quando viene compresso (milioni di bar) e il litio del composto viene colpito dai neutroni veloci provenienti dall’involucro centrale di plutonio (sparkplug) nel quale si è appena innescato un processo di fissione nucleare, l’isotopo di litio 6 diventa trizio, l’isotopo più pesante d’idrogeno.

 

 


400px-Teller-Ulam_deviceEsistono diverse ipotesi sull’esatto meccanismo di funzionamento di questi ordigni ed in particolare su come si generi nel secondario la pressione necessaria a innescare la fusione nucleare.

Quello più probabile è quello definito tamper-pusher ablation:
Il primario esplode e nei primi nanosecondi genera all’interno dell’involucro della bomba, forse fatto di berillio, temperature di milioni di gradi e immense quantità di raggi gamma e soprattutto raggi X che irradiando la schiuma di polistirene che riempie gli spazi tra primario e secondario (che passa così allo stato di plasma) e il tamper-pusher del secondario (cioè il suo involucro esterno) vaporizzandone lo strato esterno con incredibile violenza e facendone implodere l’interno ad una velocità di centinaia di chilometri al secondo.

A questo punto il deuteruro di litio e il sparkplug cavo di Plutonio al centro vengono sottoposti a pressioni di milioni di bar, la fissione del Plutonio appena innescata genera neutroni veloci che colpendo il litio-6 del deuteruro di litio generano trizio che da luogo a fusione nucleare con il deuterio come avviene nel cuore del Sole e delle altre stelle. Ovviamente più carburante “fusibile” c’è (deuterio e trizio) e maggiore sarà l’energia liberata, ma il processo non si arresta qui, se il tamper, l’involucro del secondario, è fatto di uranio 238, avviene un terzo stadio dell’esplosione.

L’uranio 238, di cui è costituito quasi completamente l’uranio naturale, non può essere usato per bombe a sola fissione, dove è necessario Plutonio o uranio 235 (l’isotopo fissile), ma in questo caso, irradiato da neutroni veloci ad alta energia da luogo ad un’ulteriore fissione nucleare, che può generare anche il 50% dell’energia dell’esplosione (oltre ad uno spaventoso fallout radioattivo).

Sono passati appena 600 nanosecondi dall’innesco della bomba, un tempo per noi impercettibile e un’immensa palla di fuoco, una sorta di piccola stella artificiale a cui nulla può sopravvivere, si è appena generata.

 

 

Armi tattiche e strategiche

Durante la Guerra Fredda sono state prodotte armi nucleari di ogni tipo e potenza ed un’importante distinzione da fare è quella tra testate tattiche e strategiche.

 

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Le testate tattiche sono quelle progettate per essere usate in battaglia in appoggio a forze convenzionali, ad esempio per fermare l’avanzata di truppe e mezzi di terra o distruggere portaerei o sottomarini nucleari. Testate tattiche possono essere lanciate da cacciabombardieri, missili cruise, bunker buster o siluri, ma ne furono sviluppate di miniaturizzate da lanciare persino con proiettili d’artiglieria (atomic cannon) e portabili (Special Atomic Demolition Munition), da usare come arma da demolizione per tunnel, grandi ponti o altri “piccoli” obbiettivi.

Furono sviluppate testate tattiche persino da lanciare con proiettili d’artiglieria o trasportare a spalla.

Le testate strategiche sono invece quelle progettate per distruggere obbiettivi molto grandi come città, centri industriali, grandi basi militari oppure obbiettivi fortificati come comandi militari e silos nucleari.

Le armi strategiche hanno principalmente la funzione di deterrente contro un attacco straniero, ma potrebbero essere utilizzate anche per un attacco preventivo in grado di annientare o almeno ridurre fortemente la capacità di risposta nemica. Sono armi strategiche quelle installate sui missili balistici intercontinentali. Indicativamente si può dire che le armi tattiche sono quelle a basso potenziale, sotto i 100 kt, mentre quelle strategiche sono quelle di maggior potenza, da centinaia di chilotoni a megatoni. In realtà la separazione non è così netta, armi a basso potenziale possono essere usate in funzione strategica e viceversa.

 

 

Effetti di un’esplosione nucleare

A seconda dell’obbiettivo che si vuole colpire e dell’effetto che si vuole ottenere, la bomba deve essere fatta esplodere ad una determinata quota o al suolo, se non in immersione o perfino nel sottosuolo.

 

 

Se si vuole distruggere un obbiettivo di vaste dimensioni come una città, l’esplosione deve avvenire in aria ad una precisa quota, in funzione della potenza della bomba, che va da poche centinaia di metri a diversi chilometri.

Se invece si vuole distruggere un obbiettivo fortemente protetto come un comando militare è necessaria un’esplosione al suolo, il cui raggio dei danni è inferiore, ma che produce uno spaventoso fallout radioattivo.

Se l’obbiettivo è un bunker sotterraneo un’esplosione al suolo potrebbe non essere sufficiente e sarebbe allora necessario un missile bunker buster in grado di penetrare il suolo per decine di metri prima di far esplodere la testata, ma in questo caso almeno non vi sarebbe fallout radioattivo.

Per colpire invece i sottomarini nucleari in immersione (ammesso di conoscerne la posizione) l’ideale sarebbe un’esplosione subacquea, particolarmente efficace appunto per mezzi in immersione, molto meno per quelli di superficie in base ai test fatti, almeno ad una certa distanza ed anche in questo caso si avrebbe una pesantissima contaminazione radioattiva.

 

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Lo scopo di esplosioni ad alta quota (più di 30 km) o anche nello spazio (più di 100 km), non sarebbe invece quello di produrre onde d’urto o di calore, irrilevanti o assenti nel caso di esplosioni spaziali sugli obbiettivi, ma di utilizzare il potentissimo EMP, impulso elettromagnetico, prodotto dall’esplosione per mandare fuori uso qualsiasi dispositivo elettrico-elettronico e gettare nel caos un intero paese, se non un intero continente, magari poco prima di un’invasione di terra.

Gli effetti di un’esplosione nucleare si possono suddividere sostanzialmente in:

  • EMP
  • intensa emissione di radiazioni ionizzanti
  • Onda d’urto
  • Onda di calore
  • fallout radioattivo

 

 

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Questo è il meno testato degli effetti per il semplice motivo che a partire dal 1963 tutti i test nucleari russi e americani sono stati solo sotterranei, come conseguenza del Partial Test Ban Treaty, al quale però non aderirono subito Francia e Cina, che sperimentarono in atmosfera ancora fino al 1974 e al 1980. In ogni caso (fortunatamente) non esistono test recenti che abbiano verificato l’impatto di un NEMP sulle tecnologie moderne.

Semplificando molto, quando avviene un’esplosione nucleare ad alta quota dalle reazioni nucleari si produce un’intensa emissione di raggi gamma che producono per effetto di Compton scattering elettroni liberi ad alta energia, che rimangono intrappolati nel campo magnetico terrestre, tra 20 km e 40 km di quota, producendo una corrente elettrica oscillante che determina picchi di differenze di potenziale in oggetti metallici conduttori, soprattutto cavi elettrici molto lunghi che fungono da antenne, creando una corrente elettrica di grande intensità in grado di distruggere tutti i dispositivi elettronici non protetti, cioè tutti quelli civili e parte di quelli militari su un’area potenzialmente molto vasta, perfino un intero continente.

 

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Il primo impulso dura un microsecondo seguito da altri effetti secondari.

In esplosioni a bassa quota si registra comunque un EMP molto potente ma dal raggio d’azione molto limitato (8km per 1Mt).

L’EMP è innocuo per gli organismi biologici, ma i danni materiali ai dispositivi elettrici ed elettronici nel mondo moderno sarebbero incalcolabili, senza contare che la forte ionizzazione dell’aria creerebbe un blocco delle comunicazioni radio per un certo periodo di tempo e persino i radar sarebbero temporaneamente “accecati”.

L’EMP è innocuo per gli organismi biologici, ma provocherebbe danni materiali incalcolabili, facendo precipitare nel caos interi paesi o continenti.

Pensate se in un istante l’intera Europa fosse privata di tutta la tecnologia elettronica che oggi pervade la nostra vita quotidiana. Si può solo immaginare il caos in cui precipiterebbe un intero continente con la popolazione civile che probabilmente impiegherebbe giorni se non settimane a comprendere che cosa è successo, con notti illuminate da aurore artificiali… Va detto che fortunatamente gli stati che possono lanciare un attacco del genere si contano sulle dita di una mano, infatti per ottenere un grande effetto su un’area vasta come un continente è necessaria una bomba di grande potenza (megatoni) e un vettore in grado di portarla ad alta quota (o nello spazio).

 

 

Emissione di radiazioni

Un altro effetto immediato dell’esplosione è l’emissione di neutroni ad alta energia emessi dai processi di fusione/fissione e raggi gamma dal decadimento radioattivo di prodotti della fissione e reazioni dei neutroni con le particelle dell’aria circostante. Entrambe le radiazioni sono altamente penetranti e risultano letali entro un certo raggio di distanta da ground zero per qualsiasi essere biologico. Vengono emesse anche particelle alpha (nuclei di Elio) e elettroni, entrambe scarsamente penetranti (in particolare le alpha).

 

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Al di là dell’immediata emissione di intense radiazioni, se la bomba è esplosa al suolo, ci sono poi da affrontare gli imprevedibili, quanto devastanti effetti del fallout radioattivo, polveri radioattive che risucchiate lungo la nube a fungo dell’esplosione fino a quote altissime vengono poi disperse dai venti su grandi aree, contaminando la pioggia il suolo e uccidendo per mesi dopo l’esplosione.

 

 

Onda d’urto

In un’esplosione che avvenga al di sotto dei 30 km di quota, circa il 40-50% dell’energia è liberata sotto forma di onda d’urto, un 35-45% sotto forma di onda di calore e il restante sotto forma di radiazioni. Le percentuali variano però molto a seconda della potenza della bomba.

 

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Per esplosioni a basso potenziale prevale l’effetto distruttivo dell’onda d’urto, per quelle ad alto potenziale quello dell’onda di calore, questo perché in esplosioni con potenze molto grandi (Mt) viene rilasciata una percentuale di energia termica maggiore e mentre l’intensità dell’onda d’urto è inversamente proporzionale al cubo della distanza da ground zero, quella del calore è invece inversamente proporzionale al quadrato della distanza e fa sentire i suoi effetti a distanze molto più grandi.

Dal punto dell’esplosione, per effetto dei valori estremi di temperatura e pressione, i residui di gas incandescente si espandono violentemente formando un sottile fronte sferico detto hydrodynamic front. Questo preme contro il mezzo circostante, creando l’onda d’urto che inizialmente è interna alla palla di fuoco, ma quando questa rallenta la sua espansione l’onda d’urto la sopravanza (circa 1/100 di secondo dall’esplosione), l’atmosfera resa così incandescente al di fuori della fireball la oscura per una frazione di secondo, per poi divenire nuovamente trasparente e si ha così il tipico doppio flash di luce di un’esplosione nucleare, che non si registra in alcuna esplosione convenzionale.

Inizialmente l’onda d’urto procede a velocità supersonica, per poi rallentare rapidamente verso la velocità del suono allontanandosi dalla palla di fuoco e perdendo d’intensità. In un’esplosione avvenuta in quota però l’onda si riflette al suolo e l’onda così riflessa, muovendosi in un mezzo (l’aria) reso molto più denso dal passaggio della prima onda, raggiunge e rinforza quest’ultima fondendosi con essa (Mach effect).
Una zona nelle vicinanze dell’ipocentro dell’esplosione, dove l’effetto Mach non si è ancora verificato detta region of regular reflection, risulta soggetta a ben 2 onde d’urto.

Una zona nei pressi dell’ipocentro dell’esplosione, detta region of regular reflection risulta soggetta a 2 onde d’urto.

Il suolo è così spazzato dal fronte di una potentissima onda d’urto, frutto della fusione della prima con quella riflessa dal suolo, che allontanandosi da ground zero diviene pressoché verticale al suolo (Mach stem) colpendo così maggiormente le pareti piuttosto che i tetti delle strutture e a cui seguono venti violentissimi.

Le strutture rimangono soggette a queste condizioni non per un istante ma per lunghi secondi, in cui la forza esercitata su di essi, anche con esplosioni a basso potenziale è molte volte superiore a quella prodotta dai venti dei più violenti uragani (anche superiore a 1000 km/h). Edifici non crollati, ma già indeboliti dalla sovrapressione dell’onda d’urto possono poi essere rasi al suolo dai potentissimi venti che seguono. Questo spostamento d’aria rapidissimo crea poi un vuoto, una zona di bassa pressione che risucchia violentemente verso ground zero per un paio di secondi i detriti creati.

Per avere un’idea degli effetti dell’onda d’urto sulle strutture, basti pensare che già una sovrapressione di 35 kPa può causare danni da moderati a gravi in gran parte degli edifici in muratura, che vengono poi soggetti ai seguenti violentissimi venti e che tale sovrapressione si registra a 3,2 km di distanza da un’esplosione da 100 kt e a ben 15 km da una da 10 Mt.

Una sovrapressione di 140 kPa può invece radere al suolo praticamente tutti gli edifici e si registra fino a 2,4 km con un’esplosione da 1 Mt.

Si potrebbe pensare che il massimo dei danni su una grande area si ottenga da un’esplosione al suolo, ma per i motivi che abbiamo appena visto è molto più efficace un’esplosione in quota e per ogni bomba esiste un’altezza ottimale per produrre danni da onda d’urto su una superficie il più grande e il più efficacemente possibile. Se l’esplosione avviene in superficie gran parte dell’energia si disperde nel suolo, creando tra l’altro un cratere ed onde sismiche che possono essere rilevate dai sismografi in ogni parte del mondo (queste ultime si registrano anche per esplosioni in quota ad alto potenziale).

Se l’esplosione avviene al suolo causa un pesantissimo fallout radioattivo.

Far esplodere una bomba nucleare al suolo significa anche generare un pesantissimo fallout radioattivo, perché il suolo vaporizzato e risucchiato lungo la nube dell’esplosione fino a quote elevatissime, anche decine di km, porta con sé una grande quantità di sostanze altamente radioattive frutto dei processi di fissione nucleare, che vengono poi imprevedibilmente disperse su grandi aree dai venti in alta quota. Un’esplosione al suolo però massimizza i danni su ground zero e questo la rende necessaria se si vuole distruggere obbiettivi strategici specifici, particolarmente protetti come silos di missili nucleari e centri di comando militare.

 

 

Onda di calore

Quando avviene l’esplosione si crea una palla di fuoco (fireball) il cui diametro varia in funzione della potenza della bomba.

 

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Al centro della fireball si generano temperature anche di 100 milioni di gradi Kelvin.

Nei pressi del punto dell’esplosione si generano temperature di decine di milioni di gradi Kelvin, a cui vengono emesse enormi quantità di raggi X subito assorbiti dall’atmosfera e rilasciati nel campo dell’infrarosso, della luce visibile e dell’UV dalla superficie della fireball in espansione, dove la temperatura si è ridotta a migliaia di gradi.

Si verificano allora 2 “flash”, il primo che rilascia 1% della radiazione termica tra 1 centomillesimo e 1 centesimo di secondo, poi l’onda d’urto in espansione sopravanza la fireball e la “oscura” per 1 decimo di secondo a cui segue il secondo flash, che libera il restante 99% dell’energia termica.

La radiazione si propaga alla velocità della luce e può persistere anche per molti secondi, si va da pochi decimi di secondo per un’esplosione da 1 kt a 20 secondi per una da 10 Mt. Per esplosioni molto potenti (>200 kt) l’onda di calore risulta letale ben al di là del raggio di distruzione dell’onda d’urto, provocando cecità e ustioni letali anche a molti km di distanza da ground zero (anche svariate decine di km).

Una bomba da 50 Mt (la più potente mai testata) potrebbe procurare ustioni di 3° grado a 60 km di distanza.

A distanze più ravvicinate tutto si trova come immerso in un immenso altoforno, tutto l’ossigeno viene consumato, vetro e metalli fondono o vengono addirittura vaporizzati ed anche gli edifici più resistenti vedono la loro struttura così indebolita dal calore, da poi essere disintegrati dall’onda d’urto e dai potentissimi venti che seguono.

A grandi distanze poi si possono scatenare imponenti ed inarrestabili incendi, che possono perdurare anche per giorni, anche perché la zona interessata può rimanere inaccessibile per molto tempo ai mezzi di soccorso.

 

 

 

NPT (treaty on the Non-Proliferation of nuclear Weapons)

Il trattato contro la proliferazione delle armi nucleari fu firmato per la prima volta nel 1968 ed entrò in vigore dal 1970 per la durata di 25 anni, fu esteso senza scadenza nel 1995. Vi aderiscono ben 190 stati e solo 5 stati facenti parte delle Nazioni Unite non l’hanno firmato, il problema è che proprio 4 di esse dispongono di armi nucleari (India, Pakistan, Israele e Corea del Nord) e non hanno alcuna intenzione di aderirvi. Il trattato si propone di promuovere la non proliferazione degli arsenali nucleari ed anzi la loro progressiva riduzione, oltre all’uso pacifico dell’energia nucleare. Al di là delle buone intenzioni e degli accordi bilaterali tra USA e Russia sulla riduzione dei propri (costosissimi) arsenali, ha però trovato difficile applicazione proprio perché non tutte le potenze nucleari vi aderiscono e vi sono altri stati che pur aderendovi aspirano a realizzare armi nucleari.

 

 

Pericoli attuali

Dalla fine della Guerra Fredda lo scenario di un conflitto nucleare tra NATO e Russia si è fatto drasticamente meno probabile, tanto da determinare una netta riduzione degli arsenali nucleari, in particolare quelli tattici, mentre persistono preoccupazioni per possibili conflitti regionali ad esempio fra India e Pakistan, Nord e Sud Korea e per la situazione mediorientale.

L’incubo peggiore di tutte le intelligence occidentali e non solo, è comunque la possibilità che un gruppo terrorista possa entrare in possesso di un’arma nucleare con i codici di attivazione, è uno scenario non probabile, ma possibile.

Se un terrorista riuscisse a portare un ordigno anche di pochi chilotoni nel cuore di una metropoli densamente abitata e a farlo esplodere, potrebbero morire decine, se non centinaia di migliaia di persone, con danni incalcolabili ed imprevedibili conseguenze sugli scenari internazionali.

I’m not afraid of the man who wants 10 nuclear weapons, Colonel. I’m terrified of the man who only wants one.

Citazione da “The Peacemaker” (1997)

 

Esiste un sito molto interessate e divertente: NUKEMAP creato da Alex Wellerstein che permette di simulare gli effetti di un’esplosione nucleare di una data potenza, in qualsiasi parte del mondo, facendo anche una stima approssimativa di vittime, feriti e possibile fallout radioattivo.