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Chuck e lo Starfighter

Qui non parliamo certo di Chuck Norris, del Bartowski o del famoso castoro, bensì di Charles Elwood (si, Elwood) Yeager e dello stracavolo di NF-104A.
Ora, il buon Chuck Yeager lo conosciamo un po’ tutti. Lo Starfighter un po’ meno, ma colmeremo presto la lacuna.
Parola magica = “The Right Stuff”: cos’è, quando e perché. The Right Stuff: Uomini veri (bruttissimo titolo) è un film di Philip Kaufman del 1983, ma è anche e soprattutto un romanzo di Tom Wolfe “La stoffa giusta” (The Right Stuff), uscito nel 1979. La trama si concentra intorno all’evoluzione tecnologica della Nasa, grazie alla quale alcuni piloti ed astronauti americani poterono compiere notevoli imprese come il superamento del muro del suono e il viaggio spaziale.

Ora, il punto è che tra il romanzo di Tom Wolfe e l’adattamento cinematografico c’è un profondo iato: nel romanzo tutti sono messi sullo stesso piano, – e stiamo parlando dei “Mercury Seven” del programma Mercury e relativo contorno – da Shepard, Glenn, Grissom allo stesso Yeager, ma nel film si vuol far passare l’idea che soltanto Chuck sia quello con la “stoffa giusta”, quello “buono”.
Per farla breve, il nostro eroe è una leggenda: è quello che il 14 ottobre del 1947 infrange il muro del suono sul Bell X-1 Clamorous Glennis , è uno che abbatteva i Messerschmitt mettendogli paura, ed è, soprattutto, un pilota collaudatore di aerei sperimentali, strana specie.

Ma Chuck ha un problema: la neonata NASA. All’ Agenzia Spaziale proprio no gusta uno che “finito il miele, mastica le api”, così il colonnello Yaeger finisce fuori dal programma spaziale: Chuck è uno che quando sale su un velivolo capisce soltanto “Lo piloto io”, “Full-Throttle” ma anche e soprattutto “a casa c’è Glennis e i miei quattro figli che mi aspettano” e a zio Wernher von Braun gente così, che pensa anche quando suda freddo, proprio non piace.
Fatto sta che nel 1963 alla base di Edwards arriva la versione N – “N” sta per Nasa – del F-104A, lo Starfighter. Quei geniacci della Nasa cosa sona andati a pensarti? Prendiamo l’affare che decolla, vola e atterra più veloce del momento (Mach 2.2) – nella fattispecie il Lockheed F-104 – e ci aggiungiamo un bel razzo nel popò cosi addestriamo i piloti USAF a costi più contenuti del X-15.

Solo che il rinomato F-104 nella sua iniziale configurazione (A) è soprannominato dai piloti la “bara volante” – tengo qui a precisare che lo Starfighter nelle successive versioni è rimasto in sevizio dal 1958 al 2004 ed è stato il caccia intercettore per eccellenza di molti paesi NATO compreso il nostro – tanti ne ammazza.

E fu così che, quel pomeriggio del 12 dicembre 1963, Chuck incontrò il suo demone.

Come lo racconta il film:

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Come lo racconta Chuck:

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Lo avevo collaudato per l’aeronautica nel 1954, ma quell’aereo aveva un gran brutto difetto, il “pitch-up”. Quando volava con angolo di incidenza di 30° le ali corte e sottili influenzavano
aerodinamicamente la coda foggiata a T, facendo sì che il muso all’improvviso si alzasse vertiginosamente.
Subito dopo il pilota si ritrovava in una vite piatta,in caduta libera verso terra, e spingeva la manetta il più avanti possibile.
C’era infatti un solo modo per richiamare in salvo un 104:ottenere dal motore il massimo di giri al minuto.
Lo Starfighter assistito dai razzi in dotazione alla scuola presentava lo stesso problema.
La lockheed ne consegnò tre nel 1963 per l’addestramento ad alta quota in assenza di gravità.

Prima che i nostri allievi cominciassero a pilotarli, decisi di stabilire alcuni parametri operativi per capire a quale altezza le forze aerodinamiche del pitch up sarebbero state superiori alla spinta dei razzi ad aria ossigenata installati nel muso.
Avevamo due getti da 112 chilogrammi di spinta ciascuno per addestrarci a manovrare in assenza di gravità, e pensavamo che ci saremmo imbattuti nel fenomeno del pitch-up intorno ai trentamila metri d’altezza. Volevo inoltre sfruttare l’occasione per stabilire un primato d’altezza a bordo della versione del 104 assistita da razzi. Decollai la mattina del 12 dicembre 1963 e portai l’aereo a trentamila metri.
Tutto si era svolto nel migliore dei modi, e avevo previsto un secondo volo nel pomeriggio.

ln quei giorni era venuta a trovarci la mamma e Glennis la portò in macchina all’ufficio operazioni della base. Pranzammo in fretta, mentre io indossavo ancora la mia ingombrante tuta pressurizzata: se infatti te la togli quando sei sudato, non puoi più rimetterla.
Le due donne uscirono dalla base e io decollai.
A circa centocinquanta chilometri da Edwards, dove inizia la valle di San Joaquin presso il picco Fraser, raggiunsi i 10.500 metri e a quota 11.100 metri puntai sul lago prosciugato Rogers, col postbruciatore acceso.

Stavo volando a oltre Mach 2 quando accesi il razzo di coda, che aveva una spinta di 2.700 chilogrammi e bruciava una miscela per aviogetti di acqua ossigenata e cherosene.
Stavo salendo con un ripido angolo di settanta gradi, e superavo fischiettando i 18.000 metri, quando il post-bruciatore si spense per la mancanza di ossigeno.
Fin qui tutto previsto.
Avevo poi stabilito di entrare in una leggera picchiata per consentire alle palette del motore, azionate dal flusso dell’ aria, di girare e di raggiungere un numero di giri sufficiente a consentirne la ri-accensione nell’atmosfera più densa delle quote inferiori, a 12.000 metri circa.
Spensi il motore e lasciai che il razzo mi portasse alla quota massima. Dovevo controllare la temperatura dell’ugello di scarico, perchè anche a motore spento si sarebbe riscaldato a causa dell’angolo di salita particolarmente elevato. Raggiunsi la quota massima di 31.200 metri. L ‘aereo completò la sua lunga traiettoria ad arco, quindi prese a cadere.

Ma appena l’angolo d’incidenza raggiunse i ventotto gradi, ecco il pitch.up.
Era già successo durante il volo del mattino, e per interrompere il fenomeno avevo usato i piccoli razzi direzionali del muso spingendo quest ‘ultimo in giù senza alcun problema.
Ora, invece, quei maledetti razzi non ebbero nessun effetto. Continuai a lasciare aperti gli sfiatatoi dell’acqua ossigenata, consumandola tutta nel tentativo di abbassare il muso, ma fu inutile.
Quel maledetto muso restava puntato in alto, finchè l’aereo cadde di piatto ed entro in vite.

Scendevo in vite come un disco su un fonografo; ma non potevo picchiare leggermente per far scorrere l’aria attraverso la turbina del motore, e il numero dei giri per minuto andava riducendosi al minimo.
Mancava la pressione idraulica fornita dal motore, avendolo io rallentato, finché andò in bloccò a diecimila metri circa. Avevo ormai perduto ogni speranza. Più tardi avremmo appreso dal registratore di volo che prima di schiantarsi nel deserto l’aereo aveva compiuto quattordici giri di vite piatta da 31.200 metri.
Rimasi a bordo per tredici giri, poi tirai la maniglia d’espulsione.Detestavo perdere un velivolo tanto costoso, ma non avevo alternative. Tirata la maniglia d’espulsione, la mia tuta pressurizzata si gonfiò e la carica del razzo posta sotto il seggiolino sparò verso l’alto me e lui a centocinquanta chilometri all’ora. Un congegno automatico mi slacciò la cintura di sicurezza e contemporaneamente sganciò dal seggiolino l’anello del paracadute.

Un ‘altra piccola carica mi scaraventò fuori dal seggiolino. Cominciai a cadere accelerando; rotolavo a testa in giù verso terra quando vidi quel maledetto seggiolino che rotolava accanto a me impigliandosi nelle funi del paracadute. La carica del razzo aveva appiccato un piccolo incendio allo schienale, che bruciava ancora e che a sua volta stava appiccando il fuoco alle funi. Cristo, proprio cosi.
Il paracadute si aprì con uno scrollone ma io sudavo freddo, avevo paura che le funi si fossero completamente bruciate. Aprendosi, il paracadute si liberò del seggiolino e io tirai il fiato, ma subito ricevetti un colpo in faccia. Mi aveva colpito il tubo di scarico arroventato del razzo. Persi le forze e il coraggio. Il colpo fu cosi forte che non riuscivo più a connettere ne a capire che cosa stesse succedendo. Mi fu strappato via il frontale del casco e vidi le stelle.

Improvvisamente, un ruggito. Il materiale incendiato del sedile aveva dato fuoco alla guarnizione di gomma del casco che, a contatto con l’ossigeno puro, divampò come una torcia. Avevo la testa avvolta dalle fiamme e dal fumo. Non potevo respirare. Non riuscivo a vedere dall’occhio sinistro, colpito dal seggiolino. Stavo morendo asfissiato dal fumo, e boccheggiavo per riuscire a respirare. Infilai la mano nel casco attraverso l’apertura in cui una volta si trovava il frontale, cercando di raccogliere l’aria per respirarla. La mano guantata prese fuoco. Pensai: “Un bel modo di crepare!”
Ero ancora collegato alla bomboletta d’ossigeno d’emergenza, che alimentava le fiamme.
D’istinto alzai la visiera di quello che restava del mio casco, provocando automaticamente la chiusura dell’ossigeno. Era molto vicino a terra e dal casco uscivano ancora fiamme, fumo e morchia. Sbattei duramente contro il terreno. Sentivo Andy che mi sorvolava a bassa quota, e al secondo passaggio riuscii a fargli segno col braccio. Poi mi alzai e mi tolsi l’imbracatura del paracadute, liberandomi dalle funi bruciacchiate con le mani nude. Spinsi i pulsanti di rilascio del collare che collegava la tuta pressurizzata al casco, e facendolo ruotare me lo tolsi. E’ letteralmente impossibile raggiungere e sganciare da soli quei nottolini; come diavolo ci sia riuscito, ancora non lo so.

Ricordo di aver guardato il casco con l ‘unico occhio buono che mi restava e mi sembrò di essere di nuovo in guerra. Era coperto di sangue, bruciato e pesto. Stavo lì in piedi nel deserto, intontito, il casco agganciato sotto il braccio, la mano che mi faceva tanto male da sentirmi svenire. La faccia, invece, non mi doleva.
Vidi correre verso di me un giovane; ero caduto a un paio di chilometri dalla strada numero sei, che collega Bishop col Mojave, e quel ragazzo mi aveva visto atterrare col paracadute, aveva fermato il camioncino e era venuto a offrire aiuto. Mi guardò e si girò dall’altra parte.

La mia faccia sembrava carne carbonizzata. Gli domandai se avesse un coltello. Tirò fuori un temperino, apri la lama e me lo porse. Gli spiegai: “Devo fare qualcosa alla mano. Non resisto oltre. Usai il temperino per tagliare il guanto foderato di gomma, ma vennero via anche due dita bruciate. Il ragazzo vomitò.
Poi arrivò l’elicottero. Ricordo che gli infermieri mi corsero incontro. Domandai: “Potete fare qualcosa per la mia mano? Mi sembra di morire”. Mi fecero un’iniezione di morfina attraverso la tuta pressurizzata. Non potevano togliermi la tuta perchè dovevano aprire la lampo per tutta la lunghezza, poi dovevo fare passare la testa fuori dal collare metallico ad anello, ma la mia faccia era in condizioni talmente penose che non ne ebbero il coraggio.

In ospedale, fecero intervenire i pompieri per tentare di tagliare il collare con le cesoie.
Finchè mi venne in mente una cosa: “Cercate la sega, è nella tasca destra della mia tuta”.
Era una piccola sega a nastro che terminava con due anelli; la portavo sempre con me anche durante le gite in montagna, e in men che non si dica tagliarono quel collare.
Sotto l’effetto della morfina, cominciai ad assopirmi, solo a metà consapevole della presenza di Glennis, ma Stan Bear, il medico della base, continuava a scuotermi per tenermi sveglio.

Stava sondando attraverso il sangue disseccato sopra l’occhio sinistro, dove mi ero fatto un taglio profondo. Il sangue era stato per cosi dire vetrificato dal calore dell’incendio e Doc continuava a frugarci dentro, chiedendomi se riuscissi a veder qualcosa. Dissi di no.
Lo sentii mormorare: “Cristo, temo che lo abbia perso”. Ma improvvisamente vidi un raggio di luce attraverso un forellino. Avvertii subito Doc, che sorrise: “Il sangue disseccato ti ha salvato la vista, amico”. Finalmente mi diede il permesso di svenire.
Mi misero una flebo; il giorno dopo ero cosi intontito che caddi addormentato nel bel mezzo di una frase mentre tentavo di raccontare al generale Branch che cosa mi fosse successo.

Vennero a trovarmi Glennis, Andy, Bob Hoover e il pilota collaudatore Tony Le Vier, ma io si e no me ne rendevo conto. Continuavano a somministrarmi analgesici. Passarono vari giorni prima che mi accorgessi di quanto ero mal ridotto. La faccia era gonfia come un melone e abbrustolita da quella specie di fiamma ossidrica.
Il vecchio Stan Bear venne a sedersi accanto a me. “Bene, Chuck, ho da darti qualche buona notizia e qualche altra cattiva. Cominciamo con le buone: i polmoni non hanno subito danni permanenti e anche l’occhio sembra star bene. Io, però, dovrò farti male, tanto quanto non ne hai mai provato in tutta la vita, per impedire che tu rimanga sfigurato per sempre.
E dovrò farlo ogni quattro giorni”.

Rimasi all’ospedale un mese e ogni quattro giorni Doc mi grattava via la crosta che si stava formando, partendo dal centro della faccia e del collo. Era una nuova tecnica messa a punto per evitare che si formassero orribili cicatrici incrociate mentre la pelle cresceva sotto la crosta. Funzionò benissimo. Mi sono rimaste soltanto poche cicatrici sul collo, ma la faccia è guarita ed è rimasta perfettamente liscia. Tuttavia non avevo mai provato un dolore simile.
Alla fine di tutto, però, avevo perduto soltanto la punta di due dita: tutto sommato, un prezzo abbastanza equo.

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Fonte: Check-Six.com e “Vivere per volare” autobiografia di Chuck mio personale trovato su una bancarella tant’anni fa.

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