Il rover Curiosity della NASA ha individuato tracce di un antico lago all’interno del cratere Gale su Marte, aprendo nuove prospettive sulla possibile abitabilità del pianeta rosso in epoche passate. Questa scoperta rivoluzionaria suggerisce che il pianeta, miliardi di anni fa, potrebbe essere stato un ambiente molto più simile alla Terra di quanto immaginassimo.
La scoperta si basa sulla presenza di ossido di manganese, un minerale comunemente associato a laghi terrestri ricchi di ossigeno e abitati da batteri. La formazione di questo minerale solleva interrogativi sulla presenza di ossigeno nell’antica atmosfera del pianeta e sull’eventuale ruolo dei microbi nel processo. Sebbene non vi siano prove definitive di vita sul pianeta rosso, la scoperta alimenta la speranza di trovare tracce biologiche, aprendo un nuovo capitolo nella ricerca di vita extraterrestre.
Marte: un antico lago marziano ricco di ossigeno
L’ambiente del cratere Gale, un tempo bacino lacustre, offre una finestra su un ambiente potenzialmente abitabile, simile a quelli presenti sulla Terra. I dati raccolti da Curiosity suggeriscono che i depositi di ossido di manganese si siano formati lungo la riva del lago in presenza di un’atmosfera ricca di ossigeno.
Prodotto da chi o cosa? Forse da reazioni chimiche o da organismi viventi. L’analisi di questi depositi potrebbe rivelare ulteriori indizi sulla composizione dell’acqua e dell’atmosfera marziana di miliardi di anni fa.
La scoperta apre nuove strade alla ricerca di vita passata sul pianeta rosso e stimola l’interesse per la sua esplorazione. Anche il rover Perseverance, attualmente impegnato nell’esplorazione di un antico delta fluviale, potrebbe contribuire a questa ricerca. In che modo? Tramite l’analisi di rocce e sedimenti alla ricerca di molecole organiche o altre firme biologiche.
La presenza di un lago abitabile su Marte, sebbene miliardi di anni fa, rappresenta una svolta significativa nella nostra comprensione dell’evoluzione del pianeta e delle sue potenzialità per ospitare la vita. Questa scoperta ci avvicina alla risposta alla domanda fondamentale: siamo soli nell’universo?