Il 9 ottobre 1963, dal monte Toc, al confine tra Friuli-Venezia Giulia e Veneto, si staccò una frana che precipitò nel bacino idroelettrico artificiale del torrente Vajont, provocando un’onda di piena che superò la diga, devastando i paesi di Erto e Casso, ma soprattutto quello di Longarone. I morti accertati furono 1910. A sessant’anni dalla tragedia, il ricordo dei sopravvissuti e di chi ha assistito alla ricostruzione delle aree colpite.
Il disastro del Vajont si verificò la sera del 9 ottobre 1963, precisamente sessant’anni fa, e rimane ancora uno delle più grandi tragedie causata dall’incuria dell’uomo che si possano ricordare nel territorio italiano. La catastrofe accadde nel neo-bacino idroelettrico artificiale del torrente Vajont nell’omonima valle quando una frana precipitò dal soprastante pendio del Monte Toc nelle acque del bacino alpino realizzato con l’omonima diga. La conseguente tracimazione dell’acqua contenuta nell’invaso, con effetto di dilavamento delle sponde del lago, coinvolse prima Erto e Casso, paesi vicini alla riva del lago dopo la costruzione della diga, mentre il superamento della diga da parte dell’onda generata provocò l’inondazione e distruzione degli abitati del fondovalle veneto, tra cui Longarone, e la morte di 1.910 persone, tra cui 487 minorenni.
Le cause della tragedia, dopo numerosi dibattiti, processi e opere di letteratura, furono ricondotte ai progettisti e dirigenti della SADE, ente gestore dell’opera fino alla nazionalizzazione, i quali occultarono la non idoneità dei versanti del bacino, a rischio idrogeologico. Dopo la costruzione della diga si scoprì infatti che i versanti avevano caratteristiche morfologiche (incoerenza e fragilità) tali da non renderli adatti ad essere lambiti da un serbatoio idroelettrico. Nel corso degli anni l’ente gestore e i suoi dirigenti, pur essendo a conoscenza della pericolosità, anche se supposta inferiore a quella effettivamente rivelatasi, coprirono con dolo i dati a loro disposizione, con il beneplacito di vari enti a carattere locale e nazionale, dai piccoli comuni interessati fino al Ministero dei lavori pubblici. Ma dopo sessant’anni cosa è rimasto? Durante le commemorazioni accorse il 9 ottobre quali sono state le dichiarazioni degli addetti ai lavori e non?
Un rumore che non usciva dalle orecchie, ma dalla terra, che entrava in corpo fino a farti scoppiare la testa.
Così uno dei sopravvissuti, Giuseppe Vazza, ricorda quello che ha provato il 9 ottobre 1963, quando alle ore 22:39, una frana gigantesca (oltre 270 milioni di metri cubi di roccia) si stacca dal monte Toc e precipita nel sottostante invaso del Vajont: si sollevano tre enormi onde, di cui una, precipitando verso Longarone, devasta ogni cosa e provoca 1.910 vittime. A sessant’anni dal disastro, le cause e le conseguenze di tutto quello che accadde quella notte sono ormai note agli italiani, le male interpretazioni del territorio che collimavano con la voglia di realizzare un’opera monumentale, ma cosa si porta dietro oggi quella catastrofe?
Seguendo la cronaca innanzitutto c’è da ricordare che dopo più di vent’anni dall’ultima visita di un capo di stato, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è arrivato al cimitero monumentale di Fortogna, accolto dal presidente del Veneto, Luca Zaia, e dal presidente della provincia di Belluno nonché sindaco di Longarone, Roberto Padrin. Il Capo dello Stato, dopo aver ascoltato la “Parata degli eroi” eseguita dalla Fanfara dei congedati della Brigata Alpini Cadore, ha deposto una corona in memoria delle vittime della tragedia, quindi ha reso omaggio ai cippi marmorei che le ricordano. 487 bambini, lo stesso numero di quelli con meno di 15 anni che perirono quella notte di sessant’anni fa, hanno eseguito un canto per ricordarli, tenendo in alto i fogli con scritti i nomi di quei giovanissimi che persero la vita. Mattarella infine ha incontrato una rappresentanza di soccorritori e i sopravvissuti alla tragedia.
Siamo qui a rendere memoria di persone – dichiara il capo dello Stato Sergio Mattarella – quelle che sono morte il 9 ottobre 1963, le sopravvissute, quelle che hanno dovuto lasciare le loro case e quelle che hanno lottato strenuamente per ricostruirle, per rimanervi. Il disastro del Vajont venne paragonato a quello determinato dallo spostamento d’aria derivante dall’esplosione di un ordigno nucleare. La tragedia che qui si è consumata reca il peso di pesanti, responsabilità umane, di scelte gravi che venivano denunziate, da parte di persone attente, anche prima che avvenisse il disastro. Ritengo che sia non soltanto opportuno ma doveroso – ha sottolineato il capo dello Stato – che la documentazione del processo celebrato a suo tempo sulle responsabilità rimanga in questo territorio. Quella documentazione era stata, necessariamente, raccolta nei luoghi del giudizio penale perché aveva allora una finalità giudiziaria. Conclusi, da tanti anni, i processi, oggi riveste una finalità di memoria e ciò che attiene alla memoria deve essere conservato vicino a dove la tragedia si è consumata.
Nella follia di quei momenti, dove la maggior parte dei tecnici erano a conoscenza della pericolosità della diga (ma nonostante tutto continuavano a perseverare) la sciagura fu anche prevista da una cronista dell’Unità, l’agguerrita Tina Merlin, soprannominata — ma in tono spregiativo e sarcastico — la «Cassandra del Vajont». Per dare un’idea del suo lavoro, tre anni prima dell’ecatombe scrisse del «lago artificiale di Erto, nel cui bacino le acque sono state immesse da appena un mese» e per questo «ha già cominciato a provocare disastri. Un’enorme frana è precipitata in questi giorni dentro il lago, staccandosi dai terreni sulla sponda sinistra in località Toc, poco più su della grande diga del Vajont. Un appezzamento di bosco e prato della lunghezza di circa 300 metri ha ceduto all’erosione delle acque ed è piombato dentro il lago. Per puro caso non c’è stata qualche tragedia». Quella che invece, innescata sempre da una frana, si verificherà poi. Dopo la sciagura Tina arriva tra le prime ed ecco un altro suo celebre incipit a tamburo battente:
Sono a Ponte nelle Alpi: la strada è bloccata da agenti della polizia, carabinieri, soldati. Non si passa.
E’ giusto ricordare che la fine della vicenda giudiziaria del Vajont arrivò molti anni dopo, nel 2000, quando lo Stato – e in quota parte Enel e Montedison – pagarono 77 miliardi di lire per i danni morali e materiali alle popolazioni colpite. Ma l’indagine fu subito in salita e per dare un’idea della difficoltà si rammenta che quando il giudice istruttore Mario Fabbri deve nominare i periti della commissione tecnica che facciano chiarezza sulle cause, non trova disponibile nessun italiano tra geologi e professori, salvo Floriano Calvino (è il fratello di Italo) che per quella scelta verrà penalizzato pesantemente nella carriera. Tuttavia sono gli esperti francesi e svizzeri che scriveranno nero su bianco che la frana poteva essere prevista e dunque evitata. Alcuni imputati scappano e la giustizia non li troverà mai. Va segnalata anche la storia dell’ingegnere Mario Pancini, che pur conoscendo le criticità irrisolte attorno al monte Toc fece consolidare la diga evitando probabilmente una catastrofe maggiore, il giorno prima del via al processo, il 24 novembre 1968, si tolse la vita nella città in Svizzera in cui era riparato. Insomma di storie attorno alla più grande tragedia, intorno ad un infrastruttura di questo tipo ce ne sono a decine, e per ricordare al meglio questo sessant’esimo chiudiamo con una serie di testimonianza raccolte da Il Sole 24 ore.