Sono passati 15 anni dall’ultima volta che abbiamo visto Indiana Jones sul grande schermo, in un quarto capitolo (e qua ci attiriamo subito le ire di tutti) bistrattato, ma in realtà abbastanza coerente con il momento che stava vivendo il cinema di Steven Spielberg all’epoca, forse non più in grado di restituire il calore di una saga che, anche nei suoi momenti più oscuri, aveva sempre dato prova di avere. C’è un tempo per tutto si dice e probabilmente questo caso non fa eccezione.
Partiamo da questa bella espressione innovativa per la recensione di Indiana Jones e il quadrante del destino, in sala dal 28 giugno con Walt Disney Pictures, ma solamente per ribaltarne il senso, definitivo e deprimente. C’è un tempo per tutto, è vero, ma si può anche decidere di sfidarlo, questo tempo, di farselo amico oppure, cosa ancora più intelligente, farselo nemico. Sicuramente non ne esce fuori un film allegro, ma forse ne esce fuori un film onesto.
C’è un tempo per tutto si dice e probabilmente questo caso non fa eccezione.
Non c’è più George Lucas, non c’è più il già citato Spielberg, ma c’è Harrison Ford, la garanzia di qualità, il ponte tra lo spettatore e il personaggio, colui che ha messo più di una pulce nell’orecchio alla Disney (nelle sembianze della Lucasfilm 3.0) quando è partito il “casting” per la poltrona più pesante del cinema commerciale nordamericano. Ah, c’è anche John Williams, per fortuna.
Con James Mangold Ford aveva parlato ai tempi di Le Mans ’66 – La grande sfida per una collaborazione di cui non si era poi fatto più nulla, ma non ci ha messo molto a proporre il suo nome ai produttori, evidentemente rimasto colpito dai colloqui e anche alla luce dell’esperienza del regista nella gestione della fine di Wolverine, portata a casa dimostrando la sua capacità di calarsi facilmente in realtà meno autoriali e più di sistema. Non a caso Mangold si troverà a dover imbastire il primo film di una trilogia non proprio leggera.
Oltre a lui i volti nuovi sono quelli di Phoebe Waller-Bridge e Mads Mikkelsen, la ladra e il nazista, affiancati da Toby Jones, Antonio Banderas (si, proprio lui), il sempre verde John Rhys-Davies e il prode Boyd Holbrook, che nei film del regista newyorkese fa “il cattivo che prende le botte da tutti.”
Una lavorazione lunghissima, una marea di problemi, una sceneggiatura scritta e riscritta mille volte, un cambio di regia che fa un rumore enorme e Harrison Ford a fare da collante. A 80 anni. Fortuna che contano i chilometri (Ah-Ah).
Un dialogo tra generazioni
Il dottor Henry Jones jr. (Ford) ha smesso da tempo di combattere i nazisti per recuperare reperti storici (anche se sicuramente non ha perso la maestria nell’insultarli). Cose tipo fuggire da un bombardamento, trasvestirsi, ribaltare le sorti di un interrogatorio con fucilazione / impiccagione annessa, correre su un treno in corsa, gettarsi in un fiume da un treno in corsa, evitare di schiantarsi insieme ad un treno in corsa. Cose simili a queste.
Ha smesso perché c’è un tempo per tutto. C’è un tempo per essere il professore più ricercato dai servizi segreti, il più corteggiato da tutti i musei del mondo, il più invidiato da colleghi o presunti tali.
Il mondo, dopotutto, è cambiato, lo per il signor Jones e per i suoi compagni di avventure, le sue passioni e i suoi desideri e lo per noi che dopo 15 anni ci ritroviamo a vederlo ancora sullo schermo, desiderosi che raccolga cappello e frusta, monti in sella ad un cavallo e corra dietro ad un altro treno, o magari ad un vagone di una metro.
Ha smesso perché c’è un tempo per tutto.
I suoi alunni ormai guardano la luna, pensano alla missione dell’Apollo, non guardano più sottoterra, ma verso l’alto, non agli scavi, ai templi e ai sotterranei fantastici, ma al mistero che sta nelle stelle e nel cielo.
Il mondo è cambiato, c’è un tempo per tutto e forse per Jones c’è più posto. O, almeno, non c’era posto migliore di un’università sgangherata e di un appartamentino dove essere scherzato da dei vicini di casa giovani e un po’ ebeti (però beati loro che feste che fanno).
Il tempo però, a volte, può improvvisamente tornare, almeno finché in giro c’è gente che lo cerca ancora, e in questo caso si contano almeno altre due persone mosse da una passione simile a quella di Jones (magari distorta, meno pura, ma non è che lui fosse proprio sano…): una, Helena (Waller-Bridge) vuole l’aiuto di Jones, l’altro, Voller (Mikkelsen), colui che ha portato l’uomo sulla luna, vuole scansarlo.
Entrambi sono accomunati dal voler trovare uno di quei reperti storici che il professore era solito cercare quando ancora non aveva smesso di fare quelle cose con i treni.
Le paure del giovane Mangold
Indiana Jones e il quadrante del destino è un buon film, diciamolo subito, e che ha non tanto nella sceneggiatura, quanto nel soggetto, una componente molto valida, perché funzionale, pratica e anche con un guizzo interessante. Persino l’autocitazionismo in essa presente non solo è più che tollerabile, ma anche giustificato per poter rinforzare un sottotesto drammatico sempre presente.
Il nemico è il tempo, ma lo è perché è fuggito via. Una nostalgia così dichiarata da essere cuore della pellicola, non ornamento.
Harrison Ford tiene benissimo lo schermo e benissimo il ruolo, nonostante i suoi 80 anni e vederlo fare quello che fa (o non fa) è credibile e non disturba quasi mai. Gli attori accanto a lui vanno col pilota automatico tutti quanti, il che non è una male, perché il casting è azzeccato, ma nessuno di loro si lascia ricordare per dei motivi che esulano dall’essere uomo (o donna) assist di Indy. Sospiro di sollievo? No, vero?
Sospiro di sollievo? No, vero?
Il problema maggiore sta proprio nella regia di Mangold e in alcune scelte di effetti visivi, discutibili, a volte fraintendibili, divisi che neanche la politica italiana di questi tempi. Ognuno si farà una propria idea sulla resa. Basta che non si comincino a tirare in ballo i sensi diegetici.
Non poteva essere Spielberg, ovviamente, ma questo film rischia di essere un’altra mortificazione per un regista che ha sempre saputo combinare una capacità creativa invidiabile con un mestiere straordinario, ma che, viste le scelte degli ultimi tempi, si sta appiattendo sempre di più verso una messa in scena emulativa.
La più classica delle regie di sistema, funzionali perché al servizio del progetto, ma che, quando devono generare meraviglia, stupore, iconicità, arrivano solo ad un eco (tipo quello di una scena presente nel film). Ed è un peccato, soprattutto per Mangold, e poi per noi.
Temps, mon amour
Conoscete “Alla ricerca del tempo perduto”? Potrebbe essere il titolo di un film di Indiana Jones, vero?
E invece “Alla ricerca del tempo perduto” è il leggendario (e infinito) romanzo di Proust in cui si parla dell’importanza della memoria. Per quanto ne possa capire chi scrive si tratta di un complesso saggio psicologico sulla percezione del tempo che ci parla della riscoperta di se stessi attraverso il suo esplorarlo, mentre racconta della rievocazione di quell’ambiente aristocratico francese che i transalpini pare rimpiangono tanto.
Oltre al titolo, quello che lo può avvicinare al mondo dell’archeologo è la sua tendenza a trattare il tempo come un amante perduto, come un qualcosa che ci ha abbandonato, che ci ha lasciato qui, da soli, ad invecchiare oltre la nostra morte.
Con le mille differenze del caso questo è il gioco di Indiana Jones e il quadrante del destino, che potenzia tale tematica grazie alla natura del suo essere: un capitolo (finale probabilmente) di una saga che ha come protagonista un archeologo, cioè un protettore del tempo, di più, una sorta di rappresentante del tempo passato.
Nel farlo confeziona un’avventura in cui l’antagonista è il rovesciamento della medaglia del protagonista, il tesoro da salvare è qualcosa che permette di controllare il tempo stesso (e quindi ricongiungersi con quello amato) e la co-protagonista è il presente e il futuro, che impara dal passato e che a lui insegna, che gli permette di andare avanti.
Conoscete “Alla ricerca del tempo perduto”? Potrebbe essere il titolo di un film di Indiana Jones, vero?
Si tratta di una veglia funebre, ma in chiave prettamente avventurosa, spiritosa e in stile Indy, riconoscibile e presente anche qua, organizzata secondo un’impalcatura molto classica e in cui si ha la cura soprattutto di non strafare.
Indiana Jones e il quadrante del destino è un buon film di Indiana Jones perché ha l’intelligenza di mostrarcelo sbiadito, chiuso in se stesso, consapevole di essere ormai l’ombra di se stesso, fuori dal tempo presente, ma motivato perché stavolta ha tra le mani l’unica cosa che potrebbe assecondare il suo completo sfacelo spirituale. Una veglia funebre. Un addio. Dopotutto quello è.
Indiana Jones e il quadrante del destino è al cinema dal 28 giugno 2023 con Walt Disney Pictures
Indiana Jones e il Quadrante del Destino è il quinto capitolo, a distanza di 15 anni dal precedente, dedicato ad Indy, sempre con protagonista Harrison Ford, ma senza Spielberg, sostituito da James Mangold, e Lucas. La pellicola è la più nera di tutto il franchise ed è pensata come una sorta di veglia funebre al sapore di avventura, in cui vivono tutti gli elementi classici della saga. La regia non è all'altezza, così come gli effetti visivi, ma Ford è ancora più che credibile, i co-protagonisti sono tutti al suo servizio e il discorso sul tempo è funzionale e interessante.
- L'uso e il discorso sul tempo.
- Harrison Ford e a cascata tutti gli altri, al suo servizio.
- La struttura classica, molto funzionale e vicina allo spirito della saga.
- Il sottotesto drammatico e il dialogo intergenerazionale.
- La colonna sonora di John Williams.
- Gli effetti visivi.
- La regia, criticabile oltre l'impossibilità evidente di pareggiare Spielberg.
- La sceneggiatura ha delle soluzione raffazzonate, specialmente dalla fine del secondo atto in poi.