Spesso si dice che Joaquin Phoenix sia una garanzia per quanto riguarda i progetti a cui decide di partecipare. L’attore Premio Oscar è infatti incredibilmente accorto quando si tratta di valutare le sceneggiature che gli vengono proposte, centellinando le sue scelte per impegnarsi al meglio. Anche perché non si risparmia mai, il buon Phoenix. E la pellicola di cui stiamo per parlare è interamente cucita su di lui e i suoi sforzi.
Capite bene quindi come questo fattore, sommato al grande mistero dietro la lavorazione di un film che ha cambiato anche titolo (originariamente doveva chiamarsi Disappointment Blvd.) e alla partecipazione al progetto di nomi di prima linea come quello di Ari Aster e quella della A24, abbia portato una carica non trascurabile di attesa intorno alla recensione di Beau ha paura, in uscita nelle sale italiane il 27 aprile con I Wonder Pictures.
La affrontiamo dicendo che si capisce sin da subito il motivo che ha spinto Phoenix ad accettare, che è poi la cosa che l’attore ha senza dubbio in comune con il giovane cineasta specializzato in quello che, ora come ora, viene chiamato “elevated horror“, ovvero l’analisi cinematografica del complesso edipico. Trasfigurato, ovviamente in un senso angosciante, terrorifico ed estremo.
Anche perché non si risparmia il buon Phoenix, dà sempre tutto se stesso.
La pellicola proviene quindi da lontano se si pensa al pensiero asteriano, che aveva trattato l’argomento in diversi suoi corti e anche (ma lì era lato madre – figla) già nel bellissimo Hereditary – Le radici del male, il suo primo lungometraggio, il più solido e anche il più “canonico”, cioè più ascritto ai canoni di un genere che pretende una dedizione particolare, si sa.
Dopotutto nel 2011 il regista sfornò un corto chiamato, appunto, Beau, dal quale ha preso spunto per la trama e per la realizzazione visiva della prima parte della pellicola/odissea ultimo suo lavoro, il più estremo, il più sperimentale, il più esemplificativo di un interesse artistico per esplorazione psicanalitiche e manieristiche, che guardano al cinema di Lynch e, soprattutto, ai labirinti kaufmaniani e il cartonesco gondryano. Immaginari dal grande potenziale, ma anche carichi di un rischio enorme da tutti i punti di vista.
Dalla sua ha potuto contare sull’appoggio di una casa di produzione che ormai è divenuta la next big thing del cinema nordamericano, trovando terreno fertile anche per quanto riguarda l’attrattiva dell’argomento e il modo di raccontarlo, dato che Everything Everywhere All At Once, trionfatore agli ultimi Academy, è un film che molto ha che fare come concetto con Bea ha paura.
“Sono sicura che farai la cosa giusta, tesoro”
Beau (Phoenix) vive una realtà angosciante ed estrema.
Terrorizzato dall’esterno, costantemente sotto assedio, incapace di reagire, di farsi valere, totalmente succube delle proprie ansie, come incastonato in una gabbia orrorifica creata da una lontana (irraggiungibile) entità maligna, che si diverte a torturarlo con subdole trovate. Una bellissima resa cinematografica della condizione dell’uomo nell’epoca contemporanea. In cui l’orrore vigila, in cui tutto è minaccioso, in cui noi tutti fuggiamo costantemente da un senso di colpa indotto dalle pressioni sociali impossibili da soddisfare.
Costretti ad un apnea continua dalla quale evadiamo tramite i dispositivi che la società fornisce. Come gli psichiatri, come gli psicofarmaci. Per fortuna che ci sarà sempre la mamma. O no?
Una bellissima resa cinematografica della condizione dell’uomo nell’epoca contemporanea.
Fin dalla seduta dall’analista scopriamo come Beau abbia un rapporto conflittuale con la madre, una presenza ingombrante nella sua vita e che quindi (come sempre) è oggetto di un sentimento diviso tra amore e odio estremi. Non a caso, quando l’uomo riceve la notizia della sua prematura scomparsa (Ari e le teste hanno un rapporto particolare) si “freeza”, non sa come reagire. Metteteci pure che i due dovevano vedersi, ma che a causa di un incidente non sono riusciti a farlo. Incidente per cui è stato incolpato Beau.
Ormai c’è però poco da fare, il nostro dovrà mettere da pare i suoi rimorsi e affrettarsi a tornare alla sua casa d’infanzia per poter partecipare ai funerali. E che volete che succeda mai.
Essere l’oggetto di tutto l’amore di una persona è una maledizione
Beau ha paura è la cronaca di un viaggio interiore che permette ad Ari Aster di tentare la chiusura di un cerchio personale e scrivere una lettera d’amore per il cinema. La sua visione del cinema. Usiamo il termine “tentare” perché l’impressione è che questa sua intenzione sia riuscita solamente in parte. Phoenix è il suo Snaporaz, sognatore freudiano, dunque creatore di un contesto da cui egli è costantemente sorpreso (in questo caso impaurito).
Forse il regista si è perso, come noi, nella mente del suo protagonista, che è anche un bene, ma questo lo ha portato ad affannarsi a complicare il classico bandolo della matassa, invece che slegarlo. Per motivi narcisistici, almeno così pare.
Il nucleo tematico è infatti piuttosto banale, così come le trovate metaforiche e le rese visive, grossolane e un po’ sgamabili, come la doppia chiave di lettura con cui lo spettatore deve leggere le immagini fino ad un punto del viaggio in cui tenere questo a mente non è neanche così importante. Di fatto il bello e il brutto del film non si giocano più sull’interpretazione, ma sulla costruzione dell’epopea.
Di fatto il bello e il brutto del film non si giocano più sull’interpretazione, ma sulla costruzione dell’epopea.
Un’epopea allucinogena, anche un po’ dopata dal punto di vista eversivo, ad ogni costo sopra le righe, accelerata, edulcorata, ma, in fondo, sempre tagliata con l’accetta. Volutamente contaminata, piena di citazioni (e autocitazioni), voli pindarici, parentesi parapsicologiche o esistenziali e intirsa di quell’estetica arthouse che è così difficile da gestire dal punto di vista diegetico per non scadere nell’intellettualoide.
Il fatto che poi effettivamente giri bene il core del film diventa quindi secondario, perché l’idiosincrasia tra autoindulgenza e autocondanna che è tipico del complesso edipico non riesce a giustificare la distanza importante che si riscontra tra la complessità artificiosa di ciò che vediamo e l’estrema semplicità di ciò che è il suo significato. Ne scaturisce una soluzione impaurita (come Beau), che vive per accumulazione di traverse, nel tentativo di nasconderla, sta semplicità, di complicare il viaggio al viaggiatore.
Eppure la pellicola non si deve assolutamente buttare, perché nel mezzo si questo appassionato, ma aggrovigliato marasma, Beau ha paura regala degli attimi di grande cinema, dalla sua prima parte così attraente, il suo protagonista eccezionale, le sue trovate registiche e fotografiche. C’è anche un gran bel melò in mezzo ai 179 minuti, che purtroppo poi apre ad un’ultima parte che grida vendetta e che sa di compromesso. Aster è un talento straordinario del cinema contemporaneo e anche questo film lo dimostra, la sua voce serve al nostro panorama, ma accordata meglio.
Beau ha paura è nelle sale italiane dal 27 aprile 2023 con I Wonder Pictures.
Beau ha paura è l'epopea di Ari Aster, il suo inno al cinema e la sua possibilità di chiudere il cerchio con un pensiero che lo ha accompagnato sin dai suoi primissimi corti. Joaquin Phoenix è il suo viaggio e il suo viaggiatore, come per Fellini, creatore di una realtà che però lo sorprende, lo terrorizza e lo sorprende. Classica prospettiva freudiana. La soluzione a questo lungo labirinto kaufmaniano è semplice, ma l'autore cerca in ogni modo di complicare, cercando un intellettualismo edonistico vuoto a perdere, date anche le metafore piuttosto banali e rozze che trova. Eppure non tutto è da buttare, dato che la pellicola è anche un esempio di come Aster sia un cineasta da non perdere.
- La prova di Joaquin Phoenix è magistrale come sempre.
- Ari Aster si conferma una delle voci più interessanti del cinema contemporaneo.
- Una pellicola appassionata che restituisce tutto l'amore del regista per il cinema.
- La prima parte funziona molto bene, anche per la sua riflessione sul contemporaneo.
- C'è una storia d'amore che funziona benissimo, anche per la sua chiusura.
- In generale ci sono scampoli di linguaggio molto alti all'interno del film.
- La struttura è pasticciata.
- Eccessivo intellettualismo, non supportato da delle trovate all'altezza.
- Il terzo atto grida vendetta e sa di necessità produttive.
- Ci sono dei voli pindarici e delle trovate estetiche figlie dell'ego di autore e attore.
- La soluzione è piuttosto banale.