Se c’è un filo conduttore che quest’anno possiamo ritrovare all’interno del Festival di Venezia è sicuramente l’identità. L’identità attraverso diverse sfumature. Di identità del resto parla Guadagnino con Bones and All, di identità come radici ne parla anche Iñárritu con Bardo perfino Gravas con il suo coraggiosissimo Athena.
Nell’iniziare questa recensione di Monica, possiamo sicuramente affermare che la parola identità sia il centro di questo suggestivo, intimo e anche molto doloroso viaggio per immagini intrapreso da Andrea Pallaoro.
Un film potente, esattamente come lo è la sua protagonista, Monica, interpretata dall’attrice transgender Trace Lysette, che mette al centro del racconto di Pallaoro parte della sua esperienza, nonché la necessità di restituire queste storie alla stessa comunità. Parlare a 360° di esseri umani, dando rappresentazioni sincere, veritiere, dolci e amare ma pur sempre autentiche, cancellando una volta per tutte stereotipi, cliché e banalità che hanno da sempre visto la comunità transgender su grande schermo ridotta a mero contorno sullo sfondo.
Monica non è però solo un film sull’identità di genere, ma è molto molto di più. L’identità in Monica passa attraverso tutti i personaggi in maniera differente: quella di una figlia abbandonata a se stessa nel momento più delicato della sua esistenza, quella di una madre che lentamente sta perdendo il contatto con il suo sé e quella di una nuova generazione di giovanissimi che comincia a dare molta meno importanza al genere, affrontando in modo più spontaneo e naturale, quasi ingenuo, le tematiche su cui il nostro mondo si ostina a interrogarsi con violenza e ferocia.
Partendo da un’esperienza personale, Andrea Pallaoro affronta diverse tematiche all’interno del suo terzo lungometraggio come il perdersi e il ritrovarsi, la sofferenza e solitudine, la negazione, l’abbandono, la malattia, la vita e anche la morte.
I personaggi tutti si muovono un po’ sospesi nello schermo, ricordando per linguaggio cinematografico la stessa eleganza e poetica del cinema di Xavier Dolan.
Esattamente come Dolan ci ha abituato nelle sue ferocissime e bellissime pellicole dove al centro di tutto ci sono i rapporti umani, le relazioni tormentate con se stessi, con la famiglia, con gli amici, Andrea Pallaoro mette in scena il viaggio di una figlia che nel momento più buio dell’esistenza di sua madre, decide di tornare a casa, cercando di superare la paura di un secondo rifiuto, un ennesimo abbandono, ma soprattutto cercando di perdonare proprio quella madre che, invece, non è stata presente nel momento più delicato della vita di Monica, e perdonare anche se stessa.
Proprio come afferma lo stesso regista italiano:
Monica riflette sulla natura precaria dell’identità di ciascuno di noi quando viene messa alla prova dalla necessità di sopravvivere e trasformarsi.
Sui passi del passato, tra perdono e rancore
Abbiamo iniziato questa recensione di Monica parlando di identità, ma facciamo un passo indietro. Partiamo dall’inizio. Partiamo da Monica. Pelle abbronzata. Capelli ribelli. Zigomi alti. Occhi languidi ma colmi di una profonda inquietudine che rende il quadro di questa donna all’apparenza selvaggia più autentico e molto diverso dalla prima impressione.
Monica sembra quasi una bambina intrappolata nel corpo di un’adulta. Cerca di difendersi come meglio può dagli ostacoli che la vita le ha messo sul suo percorso, passando da uno stadio di trasformazione all’altro. Monica combatte con un passato che credeva di aver dimenticato, abbracciando con decisione la sua nuova esistenza, imperfetta ma nella pelle di chi ha sempre sentito essere. Eppure è proprio quel passato a farle squillare il telefono e avvertirla che questa potrebbe essere l’ultima possibilità per potersi riappacificare. Per perdonare e perdonarsi. Per ritrovarsi.
Tra l’incertezza di ciò che le aspetta e il bisogno di allentare la presa dall’attuale esistenza e da una brutta rottura amorosa, Monica decide di partire. Sebbene il suo aspetto la disegna come una donna giunonica, piena e sensuale, Monica ha un timbro di voce dolce, basso, lento. Sembra quasi che si senta sempre in difetto per qualsiasi cosa. Una voce che entra in punta di piedi, ed in fondo è esattamente quello che fa. Entrare in punta di piedi nel proprio passato, affrontando per la prima volta dopo anni una vita che non le sembra neanche di aver vissuto.
E quando per la prima volta i suoi occhi incontrano quelli smarriti di Eugenia, piegata sul letto da una malattia irreversibile che le sta portando via forza, memoria e vita, Monica capisce che forse tutta questa forza di riaffrontare quel passato non ce l’ha. Ma quali sono le reali alternative?
La transizione è un processo lungo e complesso, psicologicamente provante ed emotivamente devastante, soprattutto senza il supporto di una famiglia, di una persona cara, di una madre che, invece, smette di essere tale liquidando il tutto con poche terribili ed agghiaccianti parole:
Non posso più essere tua madre.
Sei parole che hanno la potenza di far tremare la bocca dello stomaco di chi sta guardando. Eppure Pallaoro non fa altro che rappresentare quello che fin troppi genitori fanno e fin troppi figli subiscono. C’è chi allontana e abbandona, c’è chi disconosce, c’è chi ammazza.
Quando i figli cambiano, si trasformano, prendono piena consapevolezza di sé, a volte diventano meno figli. Diventano lo specchio di un inesistente fallimento che altro non è se non lo stantio rimasuglio marcio di un retaggio culturale obsoleto e medievale che con molta fatica stentiamo a liberarcene.
La difficoltà del trovarsi, trasformarsi ed essere se stessi
Il viaggio che Pallaoro mette in scena con Monica non è un viaggio semplice. È un viaggio poetico, delicato e dilatato, forse per certi versi anche troppo, risultando in alcune occasioni prolisso. Eppure è un po’ come se il regista volesse comunicarci che per certe cose, nella vita, ognuno ha bisogno dei suoi tempi.
Riabbracciare una famiglia che ci ha cacciato, fare nuovamente i conti con uno specchio o un’immagine da bambini, di un album scolastico o di pronomi che non riconosciamo, non è qualcosa di immediato. Sono tutti diversi e tutti abbiamo bisogno di tempo per elaborare, anche se tra Monica e Eugenia sembra che il tempo non sia sufficiente.
Monica è a volte incerta delle sue scelte. Fragile. Spaventata. Su di sè c’è ancora l’ombra di una ragazza nel corpo di un maschio che viene allontana da casa. L’ombra di una madre che non l’ha più voluta e che adesso neanche la riconosce più.
Eppure sarà proprio attraverso un riconoscersi silenzioso, non urlato ma fatto di piccoli gesti taciuti, sguardi nascosti e delicate carezze un po’ estemporanee, che Pallaoro non solo rappresenta l’accettazione e il perdono, ma anche il ritrovamento di sè.
Eugenia (Patricia Clarkson) non ritrova semplicemente una figlia, ma attraverso Monica sembrerebbe ritrovare perfino se stessa, proprio ora che la sua mente sta facendo di tutto per farle dimenticare ogni cosa. Una malattia che sembra non voler lasciare spazio ai sorrisi, i momenti felici, il rimpianto.
A differenza del cinema di Xavier Dolan, quello di Pallaoro non è urlato. La sofferenza, l’incomprensione o anche l’infelicità non vengono esasperati. Sono silenziosi. Lenti. Sussurrati proprio come il tono di voce di Monica o di Eugenia e che in un modo o nell’altro coinvolge anche gli altri personaggi.
Si, forse c’è una tendenza ad omaggiare e ricalcare un po’ troppo il cinema del regista canadese, eppure si riesce sempre a distinguere il tratto distintivo di Pallaoro. È come se ci fosse una sacralità nei personaggi che descrive, nel modo in cui essi parlano o si muovono. In costante sospensione alla ricerca di se stessi, alla ricerca del perdono di sé e degli altri.
Questo effetto, pregio e difetto stesso del film a seconda di chi lo guarda, Pallaoro lo ottiene con una regia posata e misurata. Uno sguardo che non è mai voyeristico ma neanche freddo. È un po’ come se Monica ci vedesse e noi vedessimo lei.
L’importanza di Monica nel cinema di oggi
Cominciando ad avvicinarci verso la conclusione della recensione di Monica è importante sottolineare che il film di Andrea Pallaoro non è “solo” una storia che riflette su diversi spunti che, come abbiamo detto, possono andare dall’abbandono all’accettazione, dal riscatto al perdono: non è neanche “solo” il viaggio di una figlia che ritrova sua madre e di una madre che ritrova sua figlia, in un lento ed intimo confronto con il passato e con la malattia, cercando di non sprecare più tempo nel presente lasciando che il futuro possa essere una gioiosa incognita; ma Monica è una pietra fondamentale nella cinematografia queer e non solo.
Andrea Pallaoro arriva lì dove molti registi e registe hanno peccato. Per quanto la rappresentazione, soprattutto televisiva, finalmente negli ultimi (pochi) anni, abbia cominciato a macinare storie dove i volti transgender non vengono più usati come mero sfondo, contorno, stereotipati nella classica figura della prostituta o nella vittima o nel carnefice, fenomeni da baraccone di cui ridere, vergognarsi o schifarsi facendo passare il tutto come se fosse una battuta tanto “divertente” all’interno, la strada da fare cinematografica è ancora lunghissima.
Un giorno arriveremo a non chiederci più il genere di un performer lì dove il personaggio non lo richiede, ma non è questo il giorno; è, invece, importante riconoscere quelle storie dove la transizione ha un ruolo fondamentale. Educativo. Emotivo. Sentimentale. Un simbolo per chi vive in prima persona un percorso simile o lo sta vivendo dall’esterno. Per chi non conosce e vuole conoscere per comprendere, capire.
Ed è proprio per questo che storie come quella di Monica devono essere restituite a chi appartengono per davvero. È la loro di voce che va sentita, non la nostra.
Un performer è chiamato ad interpretare un ruolo al di là del suo genere, della sua identità, del suo orientamento e questo è sacrosanto, ma purtroppo siamo ancora a quel tragico punto dove i performer trans sono ancora ghettizzati e marginalizzati, vincolati a comparse a mai protagonisti delle loro stesse storie.
Pallaoro è uno dei pochi, pochissimi che in ambito cinematografico rompe questo circolo di figuranti o di grandi divi che si cimentano in ruoli come quello di Monica nella speranza di ricevere premi e riconoscimenti. Il che andrebbe anche bene se tutti, in base al proprio talento, avessero le stesse possibilità.
Il lavoro di Trace Lysett è incantevole. Dall’inizio alla fine si rimane stregati dalla sua interpretazioni, così sentita, così intima e al tempo stesso così feroce. La sofferenza, la solitudine di Monica è una ferita sul quale ci si sparge del sale, eppure il suo sguardo fanciullesco ricerca costantemente uno spiraglio di speranza, di fiducia. Attualmente tra le migliori interpretazioni femminili di questo festival che potrebbero tranquillamente concorrere alla Coppa Volpi.
Formidabile come si entri a contatto con questa attrice, la sua immersione nel personaggio mettendo sicuramente parte della sua esperienza in alcune delle situazioni esposte all’interno della pellicola, ma cercando di mantenere il focus sempre e comunque sulla costruzione del personaggio. Non c’è nulla di autoreferenziale se non qualche piccolo “suggerimento” per rendere ancora più veritiero il personaggio.
Trace Lysett recita con lo sguardo, con i movimenti, con i silenzi.
Esattamente come la si incontra nella realtà, c’è una solennità nella sua interpretazione che passa per la tristezza, l’amarezza e la solitudine, arrivando finalmente ad una risoluzione finale con se stessa, con sua madre, con suo fratello attraverso il giovane nipote che in qualche modo conduce Monica sull’agognata strada del perdono e della consapevolezza.
Segui la nostra copertura del Festival di Venezia dal 31 Agosto al 10 Settembre direttamente dal Lido sul nostro hub dedicato: leganerd.com/venezia79
Monica è un viaggio fisico ed emotivo nella psicologia umana attraverso il personaggio della sua protagonista. Un film che restituisce la voce alla comunità transgender ma al tempo stesso porta avanti un tema universale come quello dell'identità, della scoperta di se stessi, del perdono. Andrea Pallaoro mette in scena personaggi che con i loro silenzi aprono il cuore a sentimenti che a volte non comprendono, trasformandosi scena dopo scena in ciò che più rappresenta la loro essenza, accettandosi e ritrovandosi tra di loro.
- La perfomance di Trace Lysette che potrebbe farle aggiudicare la Coppa Volpi
- L'uso del linguaggio cinematografico delicato e mai banale, rendendo il viaggio di Monica quasi una poesia per immagini
- Il tema dell'identità e come viene tratta, diversificandosi di personaggio in personaggio
- L'importanza del mettere al centro del racconto un personaggio transgender interpretato da una performer a sua volta trans
- La deriva a tratti fin troppo "dolaniana" che ingabbia il film
- I tempi dilatati che per quanto nella maggior parte dei casi necessari, potrebbero annoiare un pubblico meno sensibile e più impaziente