Jordan Peele è uno di quei rari autori che hanno tutta l’aria di essere in missione. Prima ancora di una poetica da seguire, prima ancora di un comprensibile (e immancabile) sottofondo egoriferito, prima ancora della volontà di raggiungere il successo, che assuma la forma di premi o di risultati al botteghino. Essere in missione. Chiunque decida di produrre un suo lavoro questo è un aspetto con cui deve, assolutamente, fare i conti. Fortuna del regista e sceneggiatore americano è essere divenuto una firma, una garanzia commerciale, un accentratore di attenzioni che oltre a far riflette, vende e incassa. La Universal Pictures, con cui Peele ha firmato un contratto quinquennale, lo sapeva quando ha deciso di affiancare la produzione dei suoi lavori e, probabilmente, ha puntato su entrambe le cose.
Un connubio molto efficace dato che la prima cosa da sottolineare nella recensione di Nope, terzo lungometraggio dell’autore newyorkese, da noi in sala dall’11 agosto 2022, è che i mezzi e la libertà conferitagli ha permesso di innalzare ulteriormente il suo spirito cinefilo e cinematografico, legittimandolo ad osare ancora di più di quanto fatto in precedenza.
In questo prospettiva questo nuovo film può essere letto come un ulteriore allargamento di uno sguardo politico forte e incisivo, che si serve, ma serve anche, il mezzo audiovisivo.
La missione è sempre la stessa, ma il raggio si allarga, da tutti i punti di vista. Però è sempre bello fare il viaggio con qualcuno a cui si è affezionato, Peele lo sa bene.
Dunque da Scappa – Get Out, il regista recupera Daniel Kaluuya (che sembra aver guardato alla monoespressività alla Clint Eastwood: “con o senza cappello” e badate bene che non è un complimento da poco) e gli affianca la bravissima Keke Palmer (che torna fare la protagonista, stavolta da adulta, al cinema), Steven Yeun e l’impagabile duo Brandon Perea / Michael Wincott, fatti per non avere nulla in comune. Oltre a qualche cavallo e un altro paio di animaletti che spero non abbiate mai la sfortuna di incontrare.
Tornando seri, Nope è il simbolo di quello a cui tutti gli autori contemporanei americani in ascesa mirano: alzare gradualmente il tiro continuando su un percorso attraente per il grande pubblico e, contemporaneamente, in grado di lavorare su di esso tramite dei sotto testi in linea con la propria poetica.
La missione di Peele, in pratica.
HHH, una sigla, una garanzia
“Sallie Gardner at a Gallop”, anche detta “The Horse in Motion“, è stato uno dei primi esperimenti di cinematografia, compiuto da Eadweard Muybridge il 15 giugno 1878. Esso consisteva in una serie di fotografie (24), scattate con uno strumentino chiamato zooprassico, che rappresentano un cavallo al galoppo.
Tutti conoscono la storia, ma nessuno conosce l’identità del fantino che era in sella al cavallo, guarda caso un afroamericano di nome Haywood, antenato di OJ (Kaluuya) e Emerald (Palmer), fratello e sorella, ultimi proprietari dell’agenzia Haywood Hollywood Horses, almeno così dicono loro (verità o provocatorio revisionismo razziale? Meditiamo). Essa è un’istituzione nel campo dell’addestramento e della gestione dei cavalli quando si tratta di produzioni cinematografiche e televisive, anche se adesso non se la passa proprio benissimo, specialmente dopo la scomparsa del leggendario Otis Haywood Sr. (Keith David), il compianto papà dei due ragazzi.
Ci penserà lo stesso cielo che ha messo a repentaglio il destino della famiglia a risarcirla in qualche modo?
Si perché vivere tentando di convincere le produzioni più disparate ad usufruire dei propri servigi o continuare a vendere cavalli a Ricky Jupe Park (Yeun), ex bambino prodigio del mondo dello spettacolo e ora proprietario del parco di divertimenti a tema western, Jupiter’s Claim, non sembra proprio una grande idea.
Certo, OJ potrebbe anche decidere di accettare la generosa offerta del giovane imprenditore per rivelare l’intera attività piuttosto che sperare in un miracolo, metti caso che invece di quello succede un’altra cosa.
C’è una parola per definire miracolo, ma in senso negativo? Catastrofe dite? Mmmh… Nope.
Prede e predatori
Jordan Peele non è mai stato un intellettuale amante delle mezze misure. Sin dall’inizio della sua carriera, quando calcava i palli come stand up comedian, passando per quando era autore e attore a MadTv o quando faceva coppia con Keegan-Michael Key in Key & Peele, ha sempre adoperato un codice linguistico che gli permettesse di esplorare, estremizzare, provocare e osare. Qualcosa che gli consentisse di essere all’altezza della sua ambizione.
I suoi film sono atti politici. Lo era il primo, forse il suo film cinematograficamente più dritto, veloce, funzionante (riuscito? Boh, su questo possiamo scannarci) e lo era il secondo, in cui si cominciava a giocare sempre di più con gli strumenti che il testo audiovisivo offriva, scartandosi ottimamente da un autocitazionismo egoriferito per concentrarsi sulla costruzione di uno sguardo proprio, con il solo scopo di poter guardare meglio la prossima volta. Più lontano, più in profondità. Meglio.
Ecco, il cinema di Jordan Peele è un processo di approntamento di uno sguardo.
Egli non è solamente un artista politicamente impegnato che ha lo scopo di svelare il peccato originale dell’America contemporanea, ma è un fine studioso dell’arte che tenta, con sempre più successo, di padroneggiare.
La sua fame è quella di coloro che non smettono mai di porsi domande e che dunque non conosco dei reali confini, oltre i quali il loro interesse perda in forza o lucidità.
Ci sono però sempre dei punti cardini da cui cominciare a guardare, un angolo di mondo preferito dove posizionare il cannocchiale, e uno dei più importanti per Peele è una primordiale divisione del mondo in prede e predatori.
Un concetto così correlato alla natura da identificarsi con la sua volontà fino a superarla e approdare al divino (Nope inizia con una citazione della Bibbia, Naum 3:6, guarda caso, “Ti getterò addosso immondezze, ti svergognerò, ti esporrò al ludibrio.…”), specialmente quando tutti sono chiamati ad essere giudicati nel momento esatto in cui scrutano il cielo, perché la più grande violenza che si può fare a qualcuno è catturarlo con il proprio sguardo, senza vederlo sul serio.
La forza dello show
Nope è un film pieno di sguardi cinematografici (c’è Carpenter, Peckinpah, Spielberg) e dalla natura molto complessa e stratificata (fantascienza, horror, western), ma la sua idea non è quella di occuparsi solo del mondo dietro l’industria della Settima Arte, ma dell’essenza stessa dello “show”.
Lo show passa e si alimenta per delle immagini che comunicano in maniera violenta, dittatoriale, compressa e alienante. Lo si può dunque riscontrare ovunque, dal grande schermo ai social, passando per i programmi televisivi.
Il fascino dell’orrore, che passa per una comunicazione contemporanea che di esso si serve e questo vende, a buon mercato, rimanendo sempre incurante di quello che mostra, perché solamente intenta a fagocitarsi della nostra incapacità di smettere di guardare.
Morbosamente attratti, come una falena dalla fiamma.
Jordan Peele si occupa della natura umana, rivelando ancora una volta il marcio e la crudeltà che c’è dietro uno sguardo che ha il solo scopo di cibarsi invece che empatizzare, allontanarsi invece che avvicinarsi e in questo senso il ribaltamento del medium cinema come barriera mortale è molto efficace. Nel farlo dà vita il suo film più spettacolare, suadente e magnetico, mostrandoci per primo come è impossibile distogliere lo sguardo, indipendentemente dalla natura di ciò che viene mostrato, e sfidandoci a sconfessarlo, cercando di capire e non di fagocitare.
L’atto di fotografare, per Peele, è ancora più violento dell’atto di uccidere e in Nope ha deciso di affidarsi ad una divinità cinematografica per farcelo comprendere.
Nope è al cinema dall’11 agosto 2022 con Universal Pictures.
Nope è il terzo, attesissimo, lungometraggio del regista e sceneggiatore premio Oscar Jordan Peele. Trattasi della sua pellicola più complessa e stratificata, visivamente ambiziosa e registicamente sapiente fino a questo momento, nonché un ennesimo capitolo di un percorso miracoloso, che lo sta sempre più definendo come una mosca bianca nel panorama degli autori americani contemporanei in rampa di lancio. Peele fonde tutti i suoi sguardi cinematografici per fare un film sulla potenza dello sguardo, sulla nostra dipende da esso e come esso sia il nostro atto più violento nei confronti di noi stessi e degli altri. Un'analisi sul funzionamento sociale delle immagini, partendo da un'idea di mondo spietata, divisa in prede e predatori, in cui viene evocato una dimensione praticamente divina, giocando sull'ennesimo ribaltamento allegorico. Bellissimo.
- La prova di regia più ambiziosa di Jordan Peele.
- La possibilità di osservare il lavoro di un autore sempre più unico nel panorama.
- Il sotto testo sociale è attuale come non mai.
- La capacità di servirsi e di servire l'immaginario cinematografico.
- Si tratta di un film molto complesso, il cui sotto testo potrebbe appesantirne la visione.
- Il finale potrebbe non accontentare tutti.