Parte oggi, Sabato 28 Maggio, il Wired Nex Fest. Festival italiano dedicato all’innovazione e che vedrà una giornata intera di panel e incontri con molteplici nomi provenienti dal mondo dello spettacolo, culturale, tecnologico e politico.
È una manifestazione di profilo internazionale, promossa da Wired Italia con il patrocinio del Comune di Firenze e realizzato in collaborazione con Audi, con l’obiettivo di raccontare l’innovazione e le tecnologie digitali come elementi chiave per la crescita e lo sviluppo economico, culturale e sociale del nostro paese.
Il tema dell’edizione di quest’anno è “Il Futuro della Democrazia”, raccontato attraverso incontri, panel e performance con personaggi di rilievo del panorama culturale, economico e politico, nazionale e internazionale.
Durante la giornata si cercherà di esplorare e descrivere come le tecnologie digitali stiano avendo un grande impatto sulle democrazie di tutto il mondo, sulla cultura e sui processi di globalizzazione, rimettendo in discussione e trasformando gli attuali sistemi di governance, nel pubblico e nel privato.
Nella giornata di sabato 28 maggio si alterneranno tanti ospiti di rilievo dell’attualità, come l’attivista Patrick Zaki, il filosofo Éric Sadin, l’imprenditore e ambasciatore della sostenibilità Federico Marchetti, la sottosegretaria all’Istruzione Barbara Floridia e il datajournalist John Burn-Murdoch; artisti e cantanti come Lazza, Gemitaiz, Sick Luke e Willie Peyote; registi e attori come Roberto De Feo, Alessandro Borghi, Isabella Ragonese e Gabriele Mainetti; molti giornalisti e analisti politici tra cui Lorenzo Pregliasco, Cecilia Sala, Stefano Feltri, Agnese Pini, il politologo Vittorio Emanuele Parsi e tanti altri.
Proprio in occasione di un panel dedicato all’uso della musica nel cinema horror con Gabriele Mainetti, che si terrà alle ore 14:30, abbiamo intervistato Roberto De Feo, regista e sceneggiatore italiano.
De Feo esordisce 2019 con il suo primo film “The Nest (Il Nido)” prodotto da Colorado Film e Vision Distribution, presentato in anteprima mondiale in Piazza Grande al Festival di Locarno 2019, suscitando l’interesse di critica e pubblico e ottenendo una candidatura al Premio Variety assegnato dalla famosa rivista americana.
Per lo stesso film ha ricevuto anche una candidatura ai Nastri D’Argento 2019 come miglior regista esordiente. Inoltre, la pellicola ha segnato il record di miglior esordio horror italiano al box office nazionale, venendo venduto poi in 15 Paesi inclusi Francia, Spagna e Giappone.
Nel 2021 De Feo torna dietro la macchina da presa, assieme al regista Paolo Strippoli, con il provocatorio e suggestivo horror “A Classic Horror Story”, film originale Netflix con protagonista Matilda Lutz.
Il film è stato inserito dal The New York Times tra i 5 migliori film horror da guardare in streaming, e Netflix Italia nella Top 10 delle migliori produzioni originali del 2021. Il film ha ottenuto una candidatura ai David di Donatello 2022 nella categoria Migliori Effetti Visivi VFX.
Ed è proprio da A Classic Horror Story che è partita la nostra chiacchierata con Roberto De Feo, pensando all’incredibile lavoro musicale di contrasti che è stato fatto da Massimiliano Mechelli a tal punto che la Milan Records – etichetta che distribuisce le colonne sonore di nomi dalla portata di Jordan Peele, Ari Aster e tanti altri – si è detta più che interessata ad acquistare e pubblicare la colonna sonora del film.
L’intervista a Roberto De Feo
In questi giorni si sta svolgendo il Festival di Cannes e, a parte i nomi più attesi come un Cronenberg per esempio e il suo ritorno al body horror, è molto interessante che anche un Alex Garland con il suo debutto al cinema horror con MEN, sia presente al Festival.
Tu stesso lo scorso anno con A Classic Horror Story sei stato presentato al Festival di Taormina e un paio d’anni prima a Locarno con The Nest, quindi forse stiamo cominciando a vedere un’apertura da parte dei Festival nei confronti del cinema horror?
È importante che i Festival, soprattutto in Italia, si aprano nei confronti del genere. Mi dispiace che un Festival come quello di Venezia faccia ancora un po’ di fatica, soprattutto con il cinema horror. Faccio soprattutto riferimento al Concorso o Orizzonti. Non ricordo quando è stata l’ultima volta in cui è stato presentato un film horror a Venezia opera prima e non. Il riferimento in Italia è Venezia che dovrebbe fare un po’ scuola ed, invece, purtroppo non lo fa.
Ovviamente è un discorso “editoriale”. Una linea che si sceglie di seguire e la mia non vuole assolutamente essere una critica. Alberto Barbera l’anno scorso ha portato un film incredibile come Freaks Out che è un film di genere ed è stata una scelta coraggiosissima. Ed è un’importante apertura al genere. Ognuno giustamente compie le scelte che ritene più opportune. Io con il mio discorso mi riferisco principalmente a film horror italiani. Inoltre, bisogna sempre tenere in considerazione il pubblico. E il pubblico va necessariamente educato, in quanto non più abituato a fruire un certo tipo di film italiani. Per questo bisogna anche un po’ sondare il terreno.
Per fortuna ci sono tanti altri Festival che in questi anni si stanno aprendo al genere, tra cui appunto Taormina. Si spera anche Torino. Torino ha sempre avuto una sezione dedicata al cinema di genere, al cinema horror. Da quest’anno, probabilmente, si amplierà ancora di più. Sono messaggi forti da non sottovalutare.
Io trovo che sia anche necessario fare una riflessione internazionale. L’horror oltreoceano, salvo i soliti esempi che hanno riportato un bel po’ di autorialità, come per esempio Ari Aster, Robert Eggers e Jordan Peele, è piatto. Privo di contenuti e storie. Infarcito di jumpascare ma senza dare reali emozioni o coinvolgere più di tanto. Il classico horror per il “pubblico della domenica”.
C’è da dire che l’esempio di pochi sta cominciando a spingere i molti. Ritorno a Garland brevemente che è un regista che abbiamo sempre visto applicato alla fantascienza e che adesso, invece, si è cimentato in un horror. Oppure mi viene in mente un Keith Thomas e il suo The Vigil oppure Valdimar Jóhannsson e Lamb. Sono horror che ti accompagnano anche dopo la visione, non sono mai fini a se stessi o con quel picchio che ti spaventa lì per lì ma dopo pochi secondi la paura svanisce.
Il famoso horror psicologico che ti perseguita dopo la visione. È un po’ indicativo del cambio del cinema horror negli ultimi 30 anni. Prima i film cercavano di spaventarti e “se avanzava del tempo” ti raccontavano delle storie, ma principalmente il film horror dagli anni ’70 fino ai primi del 2000 aveva come obiettivo quello di spaventare. Dopo le cose sono un po’ cominciate a cambiare, soprattutto con gli autori che hai citato, portando avanti una tendenza un pochino diversa, sicuramente già esistente ma meno usata.
Dal mio punto di vista l’horror è cambiato nel 1973 con L’Esorcista e poi l’anno dopo con Non Aprite Quella Porta; da lì in poi il genere ha accelerato e ha cominciato a legarsi con delle tematiche più vicine alla società, fino ad arrivare a Peele, Aster, che hanno riportato qualcosa che era cominciato tanto prima ma con dei film anche legati a delle idee geniali, tipo Scappa – Get Out. Non a caso uno dei pochissimi horror candidato all’Oscar e vincitore della Miglior Sceneggiatura Originale.
Parliamo di casi talmente eclatanti che non possono non creare una nuova moda. Ora un po’ tutti quanti, me compreso, cercano di fare storie legate profondamente alla società. Credo che sia fondamentale!
Ed è un peccato che questi film, non solo horror ma proprio i film più di genere, anche ritornando al discorso dei Festival, vengano quasi a priori esclusi dalle “competizioni”. Non posso fare a meno di pensare ad un The Lighthouse di Eggers candidato SOLO alla Miglior Fotografia oppure, il caso più eclatante di tutti, Animali Notturni di Tom Ford, candidato esclusivamente al Miglior Attore Non Protagonista con Michael Shannon.
Animali Notturni, pur essendo un thriller psicologico, quindi non propriamente horror, lavora sulla sfera dell’orrorifico perché mette in scena un incubo con quello che è l’escamotage del libro. Un incubo non così lontano dalla realtà. Una situazione del genere non è, purtroppo, così surreale.
Quello che un po’ succede anche da noi. Non voglio farlo passare come un attacco, anzi, ma solo un dato di fatto che evidenzia il problema di percezione del cinema horror. Non solo da parte del pubblico perché, ripeto, il pubblico va educato. Se ci sono delle possibilità di educarlo, vanno prese al volo.
Secondo me, il fatto che in Italia, in 67 anni di premio principale, ovvero il David di Donatello, ci siano stati solo 5 film horror candidati e solo uno ha vinto… Evidenzia il problema in maniera talmente evidente che ti viene da dire “Ok, c’è un problema e non solo di pubblico ma anche di addetti ai lavori”. Questo perché 67 anni sono tanti. E in questi anni ci sono stati i più grandi maestri del cinema horror della storia che hanno ispirato grandi registi a livello internazionale. Dare solo la colpa al pubblico è conveniente ma non è la realtà. Quelle poche volte che i film horror sono stati prodotti, o comunque film di genere, non sono stati aiutati ad emergere dall’industria. Non dico che bisogna regalare i premi, ma non sarebbe neanche male aiutare il genere a farsi vedere un po’ di più!
Sarebbe importante avere più sostegno, complicità, uscire da quella sfera secondo cui l’horror è un genere di serie B, ma anzi lavorare affinché l’horror possa emergere e gli autori possano sentirsi spronati a fare i loro film.
Pensando a questo discorso che fai sul cinema, mi viene in mente che nell’industria c’è effettivamente qualcuno che sta lavorando bene sul genere, per lo meno sperimentando e dando possibilità di emergere e farsi conoscere in tutto il mondo: la serialità.
Attualmente lo vedo molto a livello internazionale, perché non posso fare a meno di pensare a Mike Flanagan e quanto Netflix abbia e stia investendo sull’horror. Pensiamo ai due The Haunting oppure Midnight Mass o i futuri The Midnight Club e La caduta della casa degli Usher. E credo che questo sia stato un trampolino per molti e molte altri/e autori e autrici, perché sono diverse le serie horror di diverse nazionalità che hanno cominciato a popolare le piattaforme. Quindi, forse, la serie TV potrebbe essere uno stimolo in più.
Sicuramente Mike Flanagan ha avuto quella possibilità che in pochi hanno avuto prima di lui: grossi budget per poter raccontare storie che sono quasi delle favole. Ed è incredibile il successo di quello che ha fatto e spero davvero che continui ad averlo perché ci voleva uno come lui.
E si, come hai detto tu, è uno spunto e stimolo. La serialità horror in Italia sarebbe davvero una gran cosa e speriamo di farlo succedere presto. Secondo me qualcosa si sta già muovendo anche in quel senso; quindi, incrociamo le dita perché potrebbe essere una possibilità in più per risvegliare un po’ il mercato.
Parlando del panel che terrai al Wired Next Fest, trovo molto interessante questo connubio musica e cinema horror. La musica è un aspetto fondamentale nel cinema horror e mi viene proprio in mente il tuo A Classic Horror Story dove giocate molto proprio con i contrasti.
Oppure, un altro esempio valido, è la riscoperta del “silenzio” o suono ambientale, molto utilizzata da autori come Aster ed Eggers. Un uso intelligente della musica e non un “escamotage” per colmare quell’inadeguatezza al non aver saputo creare in scrittura una tensione crescente e che, quindi, viene coperta dal classico uso della musica tensiva.
Dopo più di quarant’anni dello stesso tipo di colonna sonora con gli stessi strumenti e gli stessi temi, è inevitabile che questa tipologia musicale porti stanchezza. Proprio per questo motivo i registi, a partire dai maestri, hanno cercato di giocare con il silenzio e di trasformare i suoni ambientali in note musicali, facendo diventare l’ambiente stesso colonna sonora del film.
John Carpenter è uno di quei registi che l’ha fatto spesso dopo aver abbandonato completamente l’elettronico, come altri registi della sua generazione. Per quanto riguarda i giovani, Ari Aster è quello che gioca di più con il silenzio.
Io con A Classic Horror Story avevo inizialmente una richiesta di musicare il film in modo importante, quindi con una presenza massiccia della musica. Quando, però, siamo stati lasciati liberi di sperimentare, abbiamo convinto i produttori a cambiare completamente direzione e a giocare un po’ di più con la musica in contrasto; per esempio, fin dal principio avevamo pensato di iniziare il film con “Il Cielo in una stanza” di Gino Paoli.
Questo perché ho sempre detto che A Classic Horror Story non doveva essere un titolo paraculo; o meglio, lo sarebbe diventato a prescindere, ma alla prima scena del film volevo comunicare con la musica che il titolo del film non era la descrizione del film stesso, ma sarebbe andando in un’altra direzione. E volevo che questo lo comunicasse la stessa musica. Da lì la scelta della musica a contrasto.
Poi all’inizio del secondo atto con l’introduzione della casa e la prima scena di tortura, la scelta di metterci su “La Casa” di Sergio Endrigo che è di fatto una canzone per bambini, ma con delle note inquietanti. Almeno io ho sempre pensato che quella canzone la potevo ascoltare sole se nella stanza con me c’erano anche i miei genitori, altrimenti da solo no, perché al coro dei bambini mi venivano i brividi. Ho sempre pensato fosse una canzone perfetta per un film horror e quando ne ho avuto la possibilità ho proposto a Netflix di farla diventare il simbolo del film. Proposta accolta in modo entusiastico.
Da lì è partito tutto un lavoro sulla colonna sonora che seguiva quell’idea lì. Una colonna sonora a contrasto con i suoni dell’ambiente che diventavano strumenti musicali che il musicista doveva seguire per poi costruire anche i più semplici sottofondi ambientali.
Sicuramente è stato un lavoro fantastico svolto da un autore giovanissimo, ovvero Massimiliano Mechelli, e mi dispiace che non sia stato preso in considerazione ai David di Donatello. È stata una colonna sonora che ha avuto degli incredibili apprezzamenti tra cui quelli dell’etichetta Milan Records, specializzata nella distribuzioni di colonne sonore di film e serie TV horror e che annovera i nomi di Gaspar Noé, Ari Aster, Robert Eggers, Jordan Peele e tanti altri, che aveva tutta l’intenzione di acquistarla e pubblicarla. Purtroppo non abbiamo potuto farlo perché c’erano degli accordi precedenti, ma anche solo ricevere una proposta del genere, capisci che hai fatto qualcosa di bello e di grande. Ed è un peccato che cada nel dimenticatoio perché in Italia non c’è considerazione da parte di membri dell’industria nei confronti del genere.
Resto comunque felicissimo di aver avuto una nomination ai David di Donatello. Lo speravo, ovvio, ma da qui ad aspettarmelo per davvero no. A Classic Horror Story è uno dei cinque film italiani horror ad essere stati candidati ai David di Donatello in 67 anni. Poi giustissimo che la vittoria sia stata di Freaks Out perché non puoi non riconoscere la grandiosità di quello che è stato fatto con Freaks Out.
Ci tengo sempre a dire che io miei due film li ho fatti grazie a Gabriele Mainetti. Senza Lo Chiamavano Jeeg Robot, io non avrei mai fatto la mia opera prima. Erano sette anni che giravo con quella sceneggiatura in mano. Poi in sala è arrivato Jeeg Robot, si sono aperte improvvisamente le porte di tante produzioni che si sono dette interessate a realizzare film diversi e di genere. Quindi un grazie a Gabriele che finalmente gli potrò dire di persona al Wired Next Fest!