Era la notte fra il 27 e il 28 giugno 1969 quando la polizia di New York irruppe allo Stonewall Inn, uno dei bar gay più famosi della città, punto di riferimento per tutta la comunità lgbtq+ della Grande Mela.
Dillo in modo chiaro, e urlalo. Essere gay è giusto, essere gay è motivo d’orgoglio
Slogan dei manifestanti durante i Moti di Stonewall del 1969
Per celebrare il mese del Pride è giusto ricordare uno degli eventi che ha dato il via ad una delle più grandi lotte per la rivendicazione dei diritti della comunità lgbtq+.
Era la notte del 27 giugno 1969 quando i poliziotti newyorkesi fecero irruzione nello Stonewall inn, un locale del Greenwich Village famoso per essere uno dei punti di ritrovo della comunità omosessuale della città di New York. Un controllo come tanti a quei tempi (forse troppi, ma è un’altra storia), che vide però la prima vera reazione degli uomini e delle donne presenti, e non solo. Il 27 giugno da quella volta è diventata una data simbolo e storica per tutta la comunità lgbtq+ che, proprio a partire da quel giorno, rivendicò i propri diritti e il proprio orgoglio e desiderio di essere accettata da tutti.
Il contesto degli anni sessanta
Negli Stati Uniti, in quegli anni, le persone LGBTQ+ vivevano in una condizione che le vedeva escluse da forme di tutela giuridica (purtroppo dobbiamo dire che le cose non sono poi così tanto cambiate). A livello locale, statale e federale non esistevano praticamente legislazioni che proteggevano la comunità da discriminazioni e violenze, né tantomeno che tutelavano le unioni tra persone dello stesso sesso. D’altronde dobbiamo ricordare che all’epoca l’omosessualità era ancora elencata nella lista delle malattie mentali (eliminata soltanto nel 1973) e le cosiddette “sodomy laws” permettevano alle forze dell’ordine di arrestare chiunque fosse stato trovato coinvolto in rapporti omosessuali anche consenzienti, non solo in pubblico come nei bar o in altri luoghi di ritrovo, ma addirittura in privato nelle proprie case (avendo la possibilità di irrompere solo con la scusa di scovare la coppia di turno).
Ma non solo finché le azioni divennero meno frequenti all’epoca, la polizia usava tutti i motivi che riusciva a escogitare per giustificare un arresto con accuse di “indecenza”, tra cui baciarsi, tenersi per mano, indossare abiti del sesso opposto o anche il semplice essersi trovati nel bar al momento dell’irruzione. Per questo motivo le persone gay, lesbiche, bisessuali e transgender sceglievano il più delle volte (per ovvie ragioni) di non rivelare la propria identità sessuale e di viverla in segreto dai propri familiari, amici, colleghi di lavoro, poiché chi decideva di vivere la propria identità alla luce del sole rischiava di subire maltrattamenti e discriminazioni, in ogni ambito sia familiare che lavorativo.
Ma torniamo ai bar perché è da lì che vogliamo focalizzare il nostro approfondimento, le retate da parte della polizia nei locali e bar gay non erano una novità e spesso avvenivano a inizio serata, in modo che ci fosse possibilità di riaprirli nel corso della notte. Capitava pure che i gestori venissero avvisati prima delle visite. Ma non quella notte. Otto agenti della polizia, di cui solo uno in uniforme, arrestarono tutti coloro che furono trovati privi di documenti o vestiti con abiti del sesso opposto, oltre ad alcuni dipendenti del bar.
27 giugno 1969, cosa accadde durante i moti di Stonewall
Non c’è proprio una ricostruzione empirica di quella notte e dobbiamo anticipare che storia e leggenda si sovrappongono determinando una non facile comprensione di come siano iniziate le rivolte. Tuttavia cercheremo di darvi più fonti possibili per la ricostruzione finale. Alcuni cronisti dell’epoca ricordano che la scintilla di tutti gli scontri è attribuibile a Sylvia Rivera, una donna transgender, che dopo essere stata pungolata con un manganello, decise di lanciare una bottiglia contro uno degli agenti. A quel punto la folla si ribellò, riversandosi per le strade e costringendo i poliziotti a rintanarsi all’interno del locale, mentre gli avventori dei bar vicini accorrevano per assistere alla scena. Un’altra versione dichiara che Stormé DeLarverie, una donna lesbica, fu trascinata verso un’auto di pattuglia, opponendo resistenza e in quel modo incoraggiando la folla a reagire. Ma facciamo un passo indietro cercando di capire cosa successe proprio quella notte.
Quando la polizia si presentò in piena notte al 53 di Christopher Street, indirizzo dello Stonewall Inn, gli avventori del locale decisero di non subire più le violenze che la polizia perpetrava regolarmente sulla comunità.
I poliziotti, armati di mandato, chiusero il locale, sulla base della vendita di alcolici senza licenza, arrestarono i proprietari e intimarono a tutti i clienti di uscire. Gran parte degli avventori fu in grado comunque di sfuggire all’arresto, poiché gli unici arrestati furono (ma guarda un po’) “coloro i quali si trovavano privi di documenti di identità, quelli vestiti con abiti del sesso opposto, e alcuni o tutti i dipendenti del bar“. Mentre i clienti si rifiutavano di obbedire agli ordini, fuori dal locale si iniziarono a radunare molte persone, accrescendo ulteriormente la tensione. La polizia, davanti alla resistenza opposta dalla comunità, reagì con violenza.
Rapidamente, la folla iniziò a scagliare oggetti, sassi e bottiglie contro i poliziotti, costringendoli a barricarsi nel locale. Durante la ribellione furono coinvolte migliaia di persone e centinaia di poliziotti, che impiegarono diverse ore a ristabilire l’ordine. Il cantante Dave Van Ronk (dichiarato omosessuale), che stava passeggiando nella zona, venne afferrato dalla polizia, trascinato nel bar e picchiato. Di contro gli attacchi della folla non cessavano e alcuni cercarono di appiccare il fuoco al bar. Altri (secondo i racconti di altri cronisti) usarono un parchimetro come ariete per costringere gli agenti a uscire.
Solo nella prima notte vennero arrestate tredici persone e vennero feriti quattro agenti di polizia, oltre a un numero imprecisato di dimostranti.
La cronaca comunque ricorda che almeno due dimostranti vennero picchiati selvaggiamente dalla polizia con la guerriglia fuori il bar che scandiva lo slogan “Gay Power!“. La folla fu stimata intorno alle duemila persone, che battagliava contro oltre quattrocento poliziotti. La polizia nel frattempo decise di inviare rinforzi composti dalla Tactical Patrol Force, una squadra anti-sommossa originariamente addestrata per contrastare i dimostranti contro la Guerra del Vietnam (…). Le squadre anti-sommossa arrivarono per disperdere la folla, ma non riuscirono nel loro intento e vennero bersagliate da pietre e altri oggetti. A un certo punto la stessa squadra si è dovuta bloccare in quanto si trovò di fronte una fila di dragqueen – capeggiata dall’iconica attivista Marsha P. Johnson – che intonava il seguente canto:
Siamo le ragazze dello Stonewall
abbiamo i capelli a boccoli
non indossiamo mutande
mostriamo il pelo pubico
e portiamo i nostri jeans
sopra i nostri ginocchi da checche!
Alla fine la situazione si calmò intorno alle 4 del mattino, ma la folla ricomparve la notte successiva. Ormai il vaso di Pandora fu scoperto e la rabbia della comunità lgbtq+, per come era stata trattata fino a quel momento, continuò con notti di protesta accese che culminarono in decine di arresti. Il terzo giorno di rivolta si svolse cinque giorni dopo la retata allo Stonewall Inn e in quel mercoledì, ancora mille persone si radunarono al bar causando altri gravi danni. La rabbia contro il modo in cui la polizia aveva trattato i gay nei decenni ormai affiorò e all’interno dei moti vennero distribuiti volantini con la scritta “Via la mafia e gli sbirri dai bar gay!“.
Le conseguenze dei moti di Stonewall
La guerriglia urbana fu una scintilla che portò, a luglio, alla formazione del Gay Liberation Front, fondato da Craig Rodwell e Brenda Howardnell, mentre nei mesi successivi nacquero molte iniziative simili in tutto il mondo occidentale, dalla Gran Bretagna al Canada, passando per Francia, Belgio e Australia. Purtroppo in Italia, dove un movimento omofilo che preparasse il terreno non era mai esistito, si dovette aspettare fino al 1971.
Nel 1970, in commemorazione dei moti di Stonewall, il Gay Liberation Front organizzò una marcia dal Greenwich Village a Central Park. Quasi diecimila uomini e donne vi presero parte e proprio da quell’anno molte celebrazioni del pride, si manifestano nel mese di giugno proprio a ricordo della “caduta della forcina che si udì in tutto il mondo”.
Ricordiamo bene che il Pride, ancora oggi, ovunque venga celebrato, è un momento di orgoglio, in cui si commemora lo scacco col quale tutta la comunità lgbtq+ decise di attuare per cercare di cambiare lentamente le cose. Non si tratta di una mera carnevalata, come la apostrofano i detrattori, ma di un momento politicamente ed esteticamente diverso da tutti gli altri con il quale si cerca semplicemente di affermare la libertà e identità sessuale di ciascuno nella prospettiva di un’accettazione da parte di tutti. Questo è il motivo per cui la commemorazione di quei giorni, anche a distanza di quasi 50 anni non è mai scontata e banale perché alla base di tutta questa vicenda c’è la libertà di amare, parafrasando la grande attrice americana Helena Hayes:
L’amore è forse l’unico sguardo che ci è concesso dell’eternità
- Moti di Stonewall (wikipedia.org)
- Ricorda 1969: i moti di Stonewall (lospiegone.com)
- I moti di Stonewall, la rivolta Lgbtq a New York (lifegate.it)
- Perché ricordiamo i moti di Stonewall (wired.it)