Il profiling delle pubblicità mirate non è solamente molesto, ma altera la percezione di sé stessi.
In questo periodo di emergenza sanitaria lo notiamo attraverso gli spot televisivi, i pubblicitari sono tremendamente veloci nell’adattare i contenuti. A pari passo con l’avanzata della pandemia sono apparsi rassicuranti messaggi legati a prodotti di ogni tipo: bottiglie d’acqua, forme di formaggio, pacchi di pasta e persino divani.
Ancor più reattive sono le pubblicità mirate che subiamo sul web, quelle che prevedono i nostri bisogni affidandosi ai dati fornitigli da aziende quali Facebook o Google. Non a caso, con il coronavirus in giro per il mondo, sono in molti a essere sommersi da banner che promettono l’accesso definitivo a fonti segrete di Amuchina, disinfettanti o mascherine.
Questi spot sfruttano le ossessioni dei navigatori per ottenere maggiori click e conversioni commerciali, ma le reali conseguenze psicologiche di una tale invasione della privacy sono ancora poco mappate.
Una ricerca della Ohio State University ha riscontrato che gli utenti alterano la propria percezione di sé in base a come vengono sottoposte loro le pubblicità, variando il proprio comportamento ben oltre alle sole intenzioni di acquisto.
A differenza dei generici spot demografici, queste specifiche pubblicità possono toccare i tasti più profondi della personalità individuale, generando di conseguenza una serie di complicazioni potenzialmente dannose alla salute mentale e al benessere sociale.
Le comunità LGBT combattono da anni contro la profilatura delle preferenze sessuali attuata dai social. Attraverso una comunicazione eccessivamente prorompente, molte persone che stanno ancora esplorando la propria identità di genere si vedono ogni giorno rivelare anzitempo a colleghi o parenti, magari in contesti in cui questa realtà fatica a essere accettata.
Situazioni psicologicamente deleterie possono verificarsi anche quando una donna che ha appena subito un aborto viene martellata da banner promuoventi rimedi per la fertilità o quando un soggetto potenzialmente anoressico si scontra contro réclame di integratori alimentari dietetici. Non molto meglio è il danno sul piano politico, visto che è spesso possibile creare comunicazioni commerciali mirate a neo-nazi e a suprematisti bianchi.
Appesantire le proprie esperienze internettiane con una sovrabbondanza di inserzioni è un male inevitabile, un baratto che compiamo quotidianamente per usare “gratuitamente” i servizi online, eppure le pubblicità mirate sembrano quantomai superflue. Recenti studi suggeriscono che la differenza di ritorno tra gli spot profilati e quelli demografici si stia progressivamente riducendo, con uno scarto che ormai rasenta solamente il 4%.
Con tutti i ridimensionamenti che dovrà affrontare la società di domani, forse è il momento opportuno per chiedere un’applicazione migliore delle regole deontologiche sull’utilizzo dei nostri dati. Almeno esigere che i contenuti dannosi siano sondati dai filtri dei siti con la stessa severità dimostrata ogni giorno nella lotta agli innocui capezzoli femminili.
- The Unending Anxiety of Coronavirus Content (nytimes.com)
- Why Don’t We Just Ban Targeted Advertising? (wired.com)
- When targeted ads feel a little too targeted (vox.com)