Per Mark Renton era un giorno come tanti da pendolare…

Immobile e guardingo studiava attentamente la situazione dei vari binari: stava facendo un cambio treno. Se la banchina fosse stata deserta, avrebbe fatto avanti e dietrofront almeno un paio di volte, a ritmo zombie. Ma quel pomeriggio la folla non permetteva il lusso di zigzagare arbitrariamente. Nuclei di studenti, falangi di impiegati e altre minoranze ferroviarie si accampavano e si spostavano in modo imprevedibile. Alcuni interagivano grazie alla mediazione di un cane socievole, altri avevano una sigaretta da accendere, certe gentili signore non avevano idea di come tornare a casa.

Mark si cercò un posto non troppo isolato e con moderata densità demografica, dove poter sostare senza dare nell’occhio. Scelse la zona dei pali. Poté contarne quattro, con caratteristiche diverse: uno alto di plastica a reggere gli altoparlanti, uno in acciaio verniciato per sostenere il pannello elettronico che annuncia le direzioni dei treni in arrivo, gli orari e i ritardi, l’ultimo paio in ferro zincato, montato insieme a una tavola di lamiera recante una serie di divieti fra cui quello di attraversare i binari. Nell’appoggiare la schiena non badò a funzioni o materiali, voleva soltanto fare il quinto palo. Prese a dondolare. Alzando la fronte poté osservare gli altoparlanti muoversi come ballerine hawaiane da scrivania, a rallentatore. Con aria sognante si staccò dal sostegno e andò incontro al treno in arrivo, il crescente stridio dei freni a fargli da colonna sonora. I cambi direzionali centellinati, lo sforzo ridotto al minimo, decelerando per far sì di trovarsi comodamente il più vicino possibile a una porta di vagone semiautomatica: non era una scienza esatta e neanche una lotteria. Mark era diventato un tipo probabilistico.

Una breve quiete, il clangore delle maniglie tirate a vuoto, dei click impercettibili, lo scorrimento violento e lo sbarco ebbe inizio. Questa fase era di suo interesse molto più di una futura salita o di una brama nervosa del posto a sedere. Le facce dei passeggeri in uscita erano equilibrate, provate dal viaggio ma ancora piacevolmente adattate a quel luogo famigliare e tuttavia pieno di sconosciuti. Fu attirato da una donna magrolina che fece capolino in cima all’imbocco della carrozza. Stretta in un vestito spigoloso tentava di imporre scioltezza ai propri gesti, quasi a voler allentare le cuciture. La vide fraintendere la discesa.

Dopo aver messo i piedi a terra la donna ruotò il collo, come sfoggiando una sciarpa o una ciocca di capelli prima di rivolgersi a qualcuno. Invece puntò lo sguardo verso le scale dirette al sottopasso, con la stessa reattività dell’ago di una bussola nel cercare il nord, e allungò un piede. Fatalmente prese una storta, cominciando a franare di lato. Contro ogni previsione Mark stava assistendo ad una caduta dal treno. La disgraziata, non riuscendo a dissipare la forza elastica impressa dalla gamba, creò i presupposti di un rimbalzo, e accadde in un lampo. Stava annaspando nell’aria, affidata a uno stropicciato paracadute invisibile, in picchiata come un airone che s’è dimenticato l’abc del volo, quando andò a schiantarsi di cranio contro il palo degli altoparlanti.

E così quei tre gradini che la separavano dalla banchina erano diventati il trampolino per un tuffo inciampato singolo con testata. Sicuramente non rintontito quanto la persona inerte sull’asfalto, Mark accennò con le braccia la prontezza di un soccorso qualsiasi, spiccicando pure un cacchio tra sé e sé. Restò di pietra. Immobile e guardingo studiava attentamente la situazione. Dopo anni gli era uscito cristallino dalle labbra, un vero cacchio tra sé e sé, quasi fosse inopportuno alzare il tiro con una imprecazione più comune, data la tragicità della scena. All’istante si fecero attorno dei curiosi e tra questi anche dei preoccupati piegati in avanti per vedere da vicino, allungando le mani, scuotendo una spalla e cercando segni di vita.

La pendolare circense s’alzò quasi di scatto, destando la stessa sorpresa di un numero di magia che il pubblico non saprebbe dire se sia riuscito o meno. D’altronde guardava incredula una signora che tentava di sostenerla e accertarsi che stesse bene. Il dolore doveva essere talmente acuto da trasfigurare la gratitudine in ira verso la buona samaritana, o addirittura in denuncia di uno sgambetto. Infatti rimase un istante con gli occhi spiritati, senza dire nulla, dopodiché si grattò la nuca e si incamminò furibonda verso le agognate scale. Lasciò una manciata di volti esterrefatti, incerti se mostrare decoro e comprensione o dimenticare in fretta l’accaduto senza porsi troppe domande.

Prima di salire a bordo Mark distinse delle voci divertite, ragazzi che commentavano la probabilità di allineamento fra una porta di treno, un passo falso e una quaterna di pali a un passo dalla famigerata linea gialla. Si sorprese a ridacchiare sotto i baffi, capendo di essere stato preda di un attacco di panico, e gli balenò in mente un episodio accaduto dieci anni prima. Un compagno di classe era svenuto, sbattendo prima sul banco e poi sul pavimento. Si dimenava a pancia in giù come un’anguilla, schizzando sangue tutt’intorno. Così sì era abbassato su di lui, facendo camminare le dita sul suo capo in cerca di una ferita da tamponare. Qualcuno aveva detto di lasciarlo stare, o qualcosa di simile, allora si era unito al vociare generale mandando ordini a casaccio, dicendo di chiamare i soccorsi, e di tutta risposta era stato specificato di dire alla bidella di chiamare i soccorsi, e così via, in un frenetico tentennamento di gruppo. In pochi secondi si era convinto che non avrebbe dovuto fare nulla, né prima né dopo.

Riemerso dai ricordi e recuperata una briciola di contegno, Mark Renton raggiunse l’intramezzo e infine un posto a sedere. Oltre il finestrino, nella fiumana di gente, gli altoparlanti hawaiani si scuotevano ancora, a rallentatore.