Me lo ricordo bene quando uscì il primo Iron Man. Fu una ventata di aria fresca, perché per la prima volta una storia di supereroi era gestita da un gruppo di professionisti dell’intrattenimento con background nella commedia e nell’improvvisazione, che avevano preso un personaggio di seconda fascia e si erano divertiti a curare quelle che normalmente nei film di questo genere sono le parti morte.
Avevano goduto di un Robert Downey Jr. che aveva trovato il ruolo della vita e in cambio avevano piazzato una scena d’azione e mezzo quasi controvoglia… e se vi chiedessi a bruciapelo chi era il cattivo – attore o personaggio non fa differenza – avreste come minimo bisogno di qualche secondo per fare mente locale.
La Marvel decise di costruire praticamente tutto il suo cineuniverso su questo trend, ingaggiando spesso e volentieri registi bravi con le gag e le parti narrative e lasciando che le esplosioni venissero curate dalla manovalanza tecnica.
E il gioco ha retto finché non hanno iniziato a preoccuparsi maggiormente a incrociare le varie storyline fra di loro invece di continuare a raccontare qualcosa di davvero interessante o coerente: arrivati ad Avengers 2 ci trovavamo già di fronte a un film narrativamente piatto e ingarbugliato, in cui in compenso le scene che dovevano spaccare tutto facevano sbadigliare.
La DC da parte sua fa quello che, come insegna il dizionario, deve fare per principio la concorrenza: qualcosa di completamente diverso.
Tanto per cominciare trova il suo uomo in Zack Snyder, regista dal grande talento visivo perfettamente a suo agio con le scene action su larga scala. Per controbilanciare, assegna la parte creativa a Christopher Nolan e i suoi amici, ovvero il team che già gli aveva portato il consenso quasi unanime di critica e pubblico con la trilogia del Cavaliere Oscuro.
Sulla voglia che aveva Nolan di continuare a parlare di supereroi quando lo faceva a malapena nei film diretti da lui è tutt’ora aperta un’indagine dell’Ispettore Derrick: parliamo quindi di Zack Snyder.
Quando si parla di gente dal grande talento visivo e a suo agio nello spaccare le cose, il termine di paragone oggi è invariabilmente Michael Bay.
Michael Bay è una specie di avanguardista semi-astratto: uno che se ne fotte altamente delle parti narrative, e che si diverte semplicemente a comporre immagini densissime e costruire sequenze epiche non badando a nient’altro se non il suo istinto. I suoi film sui Transformers, indirizzati a un pubblico prevalentemente di bambini, se la cavano benone così: una prima parte da unghie sulla lavagna, una seconda che ogni santa volta sposta più avanti il limite di cosa si riesce a ottenere con l’arte del cinema (che, ricordiamolo, consiste nel fare ciò che non si riuscirebbe a fare con nessun altro medium: decidete pure voi cos’è, ma difficilmente vi sposterete troppo da “robot che si menano”).
Zack Snyder è lievemente più coinvolto: ama le belle storie, le sa riconoscere, ci si appassiona, ma non le sa riprodurre se non a pappagallo. Watchmen è l’esempio perfetto: lui ne parla come un vero fanboy davanti a un testo sacro, ma la sua versione cinematografica alterna momenti freddi a carta carbone ad altri in cui il suo istinto da filmmaker lo porta a creare immagini tanto notevoli quanto scollegate con il senso del racconto.
Una scelta sbagliata su tutte: quella di far menare i suoi protagonisti in modo spettacolare, con enfatici slow motion e abilità quasi sovrumane, quando tutto il senso della storia ruota invece attorno a una rappresentazione terra terra della figura del supereroe, che dovrebbe evidenziarne il lato umano, le difficoltà pratiche, quegli inconvenienti quotidiani che i fumetti normalmente non raccontano.
La sua incapacità di sincronizzarsi con il tono del racconto è ciò che ha provocato i maggiori equivoci nel suo precedente Man of Steel. La traccia di base c’era: si voleva narrare di un Superman diverso da quello classico, un Superman che non nascesse “imparato” come nella mitologia che tutti conosciamo, ma che vivesse un’infanzia traumatizzata prima dal difficile processo di controllo dei propri poteri, poi dalla paranoia e dalla frustrazione del dover nascondere la sua natura per integrarsi meglio (non siamo più nella Smallville degli anni ’30).
Dopo la morte del padre, la cui dinamica mette in discussione le priorità morali fin lì rispettate, Superman decide di girare il mondo alla ricerca delle sue origini e di sfogarsi occasionalmente facendo del bene intorno a sé senza farsi notare: infine Jor-El gli regala una nuova missione e nuove responsabilità – nuove per modo di dire, in quanto semplice conferma di quanto già sentiva dentro – e Lois Lane lo incoraggia definitivamente a uscire allo scoperto.
Segue lo scontro con Zod, la sua prima missione su larga scala, che il nostro affronta con emotività e inesperienza finendo per commettere errori e imparare sulla sua pelle quelle lezioni che lo porteranno progressivamente ad essere (più o meno) il Superman che tutti conosciamo.
Il problema non sta quindi nelle idee alla base: sta piuttosto nel goffo modo con cui Snyder non riesce a trasmettere ciò che la sceneggiatura sceglie di non esplicitare, lasciandoci quindi con la sensazione di assistere a una versione “sbagliata” di Superman piuttosto che semplicemente a un’origine diversa, un po’ più complessa.
Il fatto che Batman c Superman (c = contro) inizi con Bruce Wayne che assiste alla distruzione di Metropolis causata dallo scontro fra Superman e Zod è naturale: che Batman fosse stato presente o no, era conseguenza logica della storia narrata nel primo film che il sequel avrebbe trattato in qualche modo le conseguenze della catastrofe, e sarebbe stato tutto molto più ovvio se Snyder avesse avuto la sensibilità di coreografare la battaglia in modo da suggerire almeno subliminalmente la tematica da subito invece che buttarla fischiettando nello spettacolo puro.
La gente ha finito per coglierla lo stesso, ma dal lato sbagliato.
La prima sequenza è anche per coincidenza la migliore del film, la vera bomba indiscutibile: le scene di apocalisse urbana costantemente viste dal basso di un cittadino che si aggira preoccupato per le strade comunicano una meraviglia impressionante – sono ciò che avrebbe dovuto essere Cloverfield se avessero avuto qualche spicciolo in più e l’accortezza di tenere le inquadrature ferme – e la carrellata su Bruce che, mentre tutti scappano in direzione opposta, corre incontro a un palazzo che crolla fino ad essere inghiottito dal nuvolone di polvere, è di una potenza travolgente. Aggiungete anche che fino a quell’istante Bruce stava guidando a mio avviso la miglior batmobile di sempre, e la tombola è servita.
Poi arrivano i problemi: c’è da recuperare terreno sulla Marvel, porre velocemente le fondamenta per un nuovo cineuniverso e mettersi immediatamente in pari spianando la via per la Justice League. Tocca raccontare quattro/cinque sotto-trame contemporaneamente e non c’è verso di venirne a capo in modo decoroso: Snyder accumula sequenze una dietro l’altra con l’aria di uno che sta nervosamente controllando la lista della spesa per assicurarsi di non dimenticare nulla, ed è un miracolo misto a frustrazione che in mezzo al caos riescano a spiccare accenni di idee interessanti – il genio nevrotico e nichilista di Lex Luthor e la sua teoria sulla fallibilità degli Dei, un Batman invecchiato e consapevole dell’ambiguità del suo ruolo, un Alfred finalmente meno impalato e incravattato… Ci sono sprazzi di scene ottime: l’allenamento di Batman stile Rocky IV, il duetto fra Lex Luthor e Luciana Littizzetto il senatore Finch, l’incubo nel deserto…
In comune con Michael Bay, Snyder ha anche consolidato la pratica di sbrigare la parte narrativa nella prima parte e lasciare che l’ultima ora sia un’unica, epica sequenza d’azione. Ed è quando scatta lo scontro finale che finalmente il ritmo si distende e tutti i pezzi vanno al loro posto con calma al momento giusto.
È il momento in cui Snyder inizia a spaccare tutto con la sicurezza di uno che sa perfettamente quel che fa, è il suo mestiere, è un’artista della distruzione, mica un barzellettiere.
È il momento in cui Zack si ricorda anche che la trilogia videoludica di Arkham è una bomba epocale e ci regala di conseguenza la miglior sequenza di Batman di sempre piazzandolo in una stanza a menare pesantemente una dozzina di scagnozzi.
È il momento in cui i procedimenti riprendono a funzionare talmente bene che si trova pure il tempo di fissare Batman, Superman e Wonder Woman che combattono insieme e pensare “cazzo, sono Batman, Superman e Wonder Woman che combattono insieme”, una sensazione che pensavo che la Fase 2 del Marvel Universe avesse spento per sempre.
E nessun mostraccio in CGI o zarrissimo riff di chitarra, pur provandoci forte, riescono a rovinarla.
È il momento, insomma, in cui finalmente ci si ricorda a cosa serve il cinema: un concetto che i film di Iron Man e i suoi amici hanno ormai dimenticato, se non proprio consapevolmente rinunciato a onorare.
P.S. No, non sono particolarmente fiducioso sulla già annunciata versione extended. Watchmen aveva problemi simili, e nessuna delle due edizioni successive – una delle quali lunga quasi il doppio – arrivava neanche lontanamente a risolverli. È proprio Snyder che da quel punto di vista non ce la può fare.
- Batman v Superman: Dawn of Justice (dccomics.com)