Tifiamo Scaramouche è il nome di un progetto ideato da Giap, il blog del collettivo di autori Wu Ming. Scopo del progetto: creare una antologia di racconti scitrta dai lettori del blog, dove ogni racconto è ambientato in un diverso lustro per coprire la storia dal 1600 ai giorni nostri. Clausole: inserire la maschera di Scaramouche all’interno del racconto, e abbinarla in qualche modo a una scritta dipinta sul muro. Questo è il mio contributo. Gli altri li trovate sul blog di Giap.
1.
Leo non aveva preso sonno. Supino, una gamba spinta fuori dalle lenzuola, studiava il soffitto della camera illuminato dal bagliore rosso della sveglia. Aveva tralasciato qualcosa? I suoi pensieri vennero interrotti dalla vibrazione del BlackBerry sul comodino. Era un numero anonimo. Lo era sempre.
«Pronto?».
La sveglia segnava le 5:30 di un giovedì mattina come un altro.
«Puoi parlare?».
All’altro capo della cornetta c’era Ayman. La sua voce agitata crepitava nell’altoparlante del telefono.
Era difficile immaginarselo, con i suoi 130 kg di stazza, incastrato nell’angolo di una cabina telefonica, mentre cercava di non farsi inquadrare dalle telecamere di sicurezza che infestavano Londra. Eppure Ayman sapeva fare il suo lavoro. Lo sapeva fare bene. E soprattutto non era solito farsi prendere dal panico.
«Stai calmo. Stai calmo. Ne parliamo dopo. Ti aspetto alla banchina di North Acton, tra un’ora» gli disse Leo cercando di abbassare la voce.
Ayman riagganciò con un grugnito insoddisfatto.
Leo si mise a sedere sul bordo del letto senza fatica. La sua insonnia era diventata un’abitudine. Percepì la mano di Penelope che gli sfiorava la schiena.
«Cosa succede?».
Leo capì che anche lei non stava dormendo.
«Lavoro. Non ti preoccupare. Rimani a dormire».
Non si voltò. Non gli andava di guardare dentro gli occhi di Penelope. Quei grandi occhi verdi nei quali avrebbe trovato solo domande e nessuna risposta. Penelope sembrò capirlo, anche se emise un sospiro affranto. Leo si trascinò in bagno. Nello specchio ci trovò un uomo di trentotto anni abbronzato controvoglia. La fronte allungata in due frecce appuntite che si facevano strada in una folta chioma brizzolata. Sul viso i segni di una vita vissuta al limite della sopportazione. Una vita regalata al Secret Intelligence Service di Sua Maestà la Regina Elisabetta II.
Si vestì senza cura. La barba incolta che gli cresceva sulle guance e una camicia stropicciata gettata sulla maglietta nella quale aveva cercato di dormire.
Prima di uscire, Leo socchiuse la porta della camera di Beth. La culla era appoggiata sul fondo della stanza, illuminata dai led verdi del baby monitor. Inspirò profondamente prima di sentire il mento di Penelope poggiarsi sulla sua spalla.
«Non riuscivo a dormire».
«Neanche io».
«Almeno lei sta riposando».
Leonard accarezzò Penelope sfiorandola con la guancia. Poi la baciò sulla fronte.
«Devo andare».
2.
Ayman era seduto su una panchina della stazione di North Acton. Stava svuotando un pacchetto di cioccolatini. Leonard lo intravide attraverso il finestrino del suo vagone mentre la carrozza frenava sulle rotaie. L’aria era fresca e aveva il sapore dell’estate a Londra. Ma sarebbe stata una giornata nuvolosa. Leo scese dal vagone e si fermò sulla banchina fingendo di digitare un messaggio sulla tastiera del proprio telefono. Ayman non alzò nemmeno lo sguardo. Quando la stazione si fu svuotata dei primi pendolari del mattino, Leo rinfoderò il cellulare e si sedette accanto ad Ayman. Il siriano era grasso, sudato e puzzava. Ma parlava un inglese invidiabile.
«Succederà un casino» disse Ayman, senza alzare gli occhi dal suo sacchetto di cioccolatini.
«Quando?».
«Oggi. Hanno preparato quattro zaini da fare saltare sui vagoni della metropolitana».
«Come lo sai?».
«È pronta una pagina web per rivendicare l’attentato».
«La fonte è affidabile?».
Ayman sogghignò lanciando uno sguardo storto a Leonard. Aveva i denti ricoperti di cioccolato. L’alito di chi ha bevuto troppo gin troppo presto.
«Per chi mi hai preso?».
«Ha qualcosa a che fare con le Olimpiadi?».
Londra avrebbe ospitato le Olimpiadi del 2012. Era stato confermato il giorno precedente.
«No. Non credo».
«Quali treni vogliono attaccare?».
«Non lo so».
«A che ora?».
«All’ora di punta. Intendono farli esplodere contemporaneamente alle nove di questa mattina».
Leo si voltò verso il grande orologio bianco della stazione. Erano le 6:50 di un giovedì. Ma non era un giovedì come un altro. Era Il giorno in cui Londra sarebbe stata messa in ginocchio. Era il 7 luglio 2005.
3.
Germaine aveva il cuore che gli scoppiava nel petto. Si era convertito all’Islam nel 2000, e da allora si faceva chiamare Abdullah. Germaine era un ragazzo sveglio. Aveva imparato l’arabo senza troppa fatica e gli bastavano un paio di giorni per memorizzare i passaggi del Corano. Non gli era stato difficile farsi notare da Abdallah al-Faisal. Al-Faisal gli aveva insegnato tutta la verità sull’occidente, sul profeta Maometto e su Allah. Germaine non vedeva al-Faisal da quando era stato incarcerato nel 2003.
Mentre attraversava l’ingresso della stazione ferroviaria di Luton, l’orologio di Germaine segnava le 7:41 del mattino. Davanti a lui si accalcavano i pendolari londinesi. Al suo fianco c’erano Hasib, Mohammad e Shehezad. Ma tutto quello a cui Germaine riusciva a pensare era il volto di Samantha. Stavano aspettando un figlio. Il secondo. Germaine avrebbe potuto vederlo nascere. Doveva solo poggiare in terra lo zaino che stava trasportando, fare una chiamata anonima alla polizia, e tornare a casa. Ma Abdullah sarebbe tornato alla sua comunità coperto di vergogna. Avrebbe dovuto sopportare gli sguardi di disprezzo dei suoi fratelli. L’agonia infinita di non entrare nello Jannah.
Quella mattina Samantha si era alzata prima di Germaine. Gli aveva preparato la colazione. Senza bacon, perché quando era incinta l’odore della carne le faceva venire la nausea. Germaine l’aveva ringraziata con un bacio sulla fronte. Samantha non sapeva che quello sarebbe stato il loro ultimo bacio. Non sapeva che Abdullah avrebbe indossato uno zaino pieno di esplosivo. Non sapeva che Germaine non sarebbe tornato a casa quella sera. Germaine non avrebbe visto nascere il suo secondo figlio. Ma il figlio di Abdullah sarebbe cresciuto in un mondo migliore anche grazie al suo sacrificio.
4.
Leo stava scendendo le scale all’ingresso del Secret Intelligence Service con la fronte imperlata di sudore. Incrociò Hugo che stava salendo i gradini di Vauxhall Cross:
«Cosa succede?».
Hugo aveva appena compiuto 28 anni. Una barba e un paio di baffi solo accennati gli incorniciavano le labbra sottili come lame di un rasoio. Sembrava un vecchio, Hugo. Uno con dieci anni di più. Invece era entrato nei servizi solo da qualche settimana. Il suo primo compito: diventare l’ombra Leonard. Osservarlo. Imparare da lui. E aiutarlo, qualsiasi fosse la sua richiesta.
«Vieni con me».
Leo strattonò Hugo, costringendolo a scendere i gradini in direzione della strada. Mentre camminavano a passo spedito verso la sua auto, Leo fece il punto della situazione. La storia di Ayman combaciava con alcune voci provenienti dalla Siria. C’erano davvero quattro bombe sulle metropolitana di Londra. E andavano trovate rapidamente e in silenzio.
Tutti gli agenti del MI6 erano già al lavoro.
«Perché non chiedere l’aiuto della polizia? Bloccare la metropolitana?».
Leo stava annaspando. Non aveva avuto un attimo di tregua da quando aveva parlato con Ayman.
«Se bloccassimo la metropolitana creeremmo solo scompiglio. E c’è il rischio che i terroristi si facciano saltare immediatamente. Chiamare la polizia è fuori discussione. Sarebbe come annunciare al telegiornale che la metropolitana di Londra sta per saltare in aria. L’informazione rischia di sfuggire di mano».
Hugo annuì: «Quindi dobbiamo sperare di trovare questi quattro terroristi senza sapere che volto abbiano e su quale treno intendono farsi saltare?».
«Esatto» rispose Leo senza togliere gli occhi dalla strada. «Sarà come trovare un ago in un pagliaio». Leo fissò il volante per alcuni istanti, prima di girare la chiave nel cruscotto: «Preparati al peggio».
5.
Penelope stava sorseggiando una tazza di caffè seduta di fronte a sua madre. Il fondo di una bottiglia di vino era stato dimenticato accanto al lavandino dalla sera precedente. Penelope non era riuscita a chiudere occhio nemmeno quella notte. Si era alzata poco dopo Leonard. Non era stato il suo cellulare a svegliarla, ma sapeva che non sarebbe riuscita ad addormentarsi, sola, nel grande letto matrimoniale.
«Dovresti rimettere in sesto casa, lo sai?». Disse sua madre, guardandosi attorno con disprezzo.
«Sì mamma». Penelope non sollevò gli occhi dalla tazza.
«A che ora è uscito Leonard?».
«Prima delle sei».
«Dovrebbe lasciare perdere il suo lavoro e concentrarsi su di te».
«Sì mamma». Penelope alzò il capo fino ad incrociare gli occhi di sua madre. Due punti neri. Freddi. Severi. Vuoti. Due fori di proiettile sparati dritti nel suo cuore.
«È un momento difficile per tutti e due. Dovreste prendervi una vacanza. Cercare di dimenticare».
«Sì mamma». Sua madre aveva ragione. Era un momento difficile per lei e per Leonard. Aveva anche pensato che separarsi sarebbe stata la soluzione. Che non vedere più Leonard l’avrebbe aiutata a dimenticare. Ma la realtà era diversa. Senza Leonard sarebbe stata sola. Abbandonata al suo dolore. Certo, aveva gli amici. Aveva sua sorella. Aveva le sue nipoti. E aveva anche sua madre. Ma solo Leonard poteva capire il dolore che era stata costretta a sopportare.
«Potresti almeno guardarmi quando ti parlo».
«Sì mamma». Penelope era tornata a studiare la forma della sua tazza. L’emicrania non le lasciava un attimo di pace.
«Non ha senso continuare a rivangare il passato. Capisco il tuo dolore. Ma è successo più di un anno fa».
Penelope non rispose. Sua madre si alzò dal tavolo della cucina con un gesto plateale e si avviò vero le camere da letto. «Tanto per cominciare dovreste smetterla con questo».
Da dove si trovava, Penelope riuscì a vedere sua madre mentre apriva la porta della stanza di Beth. Incastonato in un arcobaleno, il nome
ELISABETH
era stato dipinto sulla parete dietro la testata della culla. Era stata una idea di Leonard.
«Il baby monitor. I disegni sulle pareti. La luce accesa in un angolo della stanza… Non c’è nessuna bambina in questa culla. Vostra figlia è morta, Penelope. Dovete accettarlo».
«Sì mamma».
6.
Leonard parcheggiò in divieto di sosta all’ingresso delle scale di King’s Cross Saint Pancreas. Avevano impiegato poco meno di venti minuti a percorrere la strada che separava la fermata della metropolitana dalla sede del Secret Intelligence Service.
Prima di scendere dall’auto, Leo fissò Hugo negli occhi: «Stai calmo. Non dobbiamo attirare l’attenzione dei passanti. Non voglio che la polizia riceva qualche chiamata perché ci sono due tizi che si comportano stranamente. Sono stato chiaro?».
Hugo annuì con un rapido gesto del capo.
King’s Cross St. Pancreas era la più grande delle stazioni della metropolitana di Londra. Sei linee diverse si incrociavano nel sottosuolo, collegate da un labirinto di tunnel sotterranei nei quali transitavano quotidianamente migliaia di persone. Hugo non poté fare a meno di pensare ad un documentario sui formicai che aveva visto alle scuole elementari.
Scesero in mezzo alla folla, fendendola lentamente. Hugo non sarebbe riuscito a incrociare lo sguardo di ogni persona nemmeno se lo avesse voluto. Ecco perché cercava qualche altro indizio. Uno sguardo sospetto. Un dettaglio che potesse suggerire che qualcuno aveva qualcosa da nascondere. Quanto pesa una bomba infilata in uno zaino? Quanto è grande? Quanto male può fare? Hugo non era pronto a tutto questo. Si guardò alle spalle in cerca dello sguardo rassicurante di Leo. Lo trovò a qualche metro di distanza, mentre osservava nella sua direzione. Annuirono, senza avere nulla da dirsi. Continuarono a scavare nella folla per svariati metri, finendo senza volerlo sulla banchina della linea Piccadilly.
La volta che circondava i binari disegnava grandi anelli di colore blu. La banchina aveva il volto di Londra. Hugo non poté fare a meno di notare che una coppia di ragazzini si stava baciando appoggiata ad una parete. Lui aveva un viso dai lineamenti asiatici. Lei una chioma di capelli rossi e ricci che ad Hugo ricordò la sua prima ragazza del liceo. Fu in quel momento che pensò ad Alexandra.
Hugo rintracciò Leo in mezzo alle teste dei pendolari e lo raggiunse a fatica.
«Visto niente di utile?» gli chiese Leonard.
«No. Devo chiederti una cosa. Alexandra sta andando al lavoro. Prende la metropolitana ogni mattina. E non vorrei…».
Leonard osservò Hugo per qualche istante.
«Va bene. Telefonale e dille di tardare…». Leo guardò l’orologio da polso. Erano le 8:47. «Dille di tardare almeno quarantacinque minuti. Ma non spiegarle la ragione, ok?».
Le bombe, aveva detto Ayman, sarebbero esplose alle nove di quella mattina.
«Grazie». Hugo compose il numero di Alexandra sul suo cellulare. Leonard lo osservò discutere al telefono prima di perderlo di vista nella massa di persone che affollavano la banchina. I vagoni della metropolitana frenarono alle 8:48. Hugo aveva appena terminato la telefonata con Alexandra e si era posizionato lungo la linea gialla che costeggiava i binari. Voleva osservare i passeggeri del treno. Chi era quella gente? Tra queste persone c’era davvero un terrorista? Ad Hugo sembrava impossibile.
Un anziano signore leggeva un libro stando in piedi, aggrappato con il braccio ad un palo metallico. Quattro studenti avevano saltato scuola. Due donne in carriera discutevano animatamente. Entrambe indossavano un tailleur scuro e impugnavano il loro cellulare. Germaine era accanto a loro. La pelle scura, due labbra carnose, il mento coperto da una densa lanugine nera e un berretto degli New York Yankees poggiato sul capo. Ma soprattutto un grande zaino grigio caricato sulle spalle. Lo sguardo di Hugo incontrò quello di Germaine. Quello zaino conteneva una bomba? Le persone che aveva appena visto stavano per morire? Germaine abbassò gli occhi e cominciò a spostarsi nervosamente all’interno del vagone. Hugo non aveva prove. Non aveva indizi. Ma se ne convinse. Quella nello zaino di Germaine era una bomba.
Leonard lo vide all’ultimo momento.
«Fuck» imprecò sottovoce.
Riuscì a infilarsi sul vagone un istante prima della chiusura delle porte. Hugo lo stava aspettando poco più in là.
«Cosa succede?».
«Ho visto un sospetto. È nero. Ha un grande zaino sulle spalle».
«Stai facendo racial-profiling?».
«Dico solo che è più probabile che un terrorista islamico non sia bianco».
«Dove si trova?» domandò Leo, visibilmente scocciato.
«Indossa un cappello degli Yankees. In quella direzione». Hugo voltò verso Germaine.
«Ok, lo vedo» disse Leonard. «Proviamo a farci due chiacchiere. Lascia andare avanti me».
Hugo si fece da parte. Il treno stava partendo. Fu in quel momento che percepì la vibrazione nella tasca interna della giacca. Alexandra? No. Era il telefono riservato che utilizzava per le comunicazioni con il Secret Intelligence Service.
«Pronto?».
Rispose una voce femminile. Sbrigarono le identificazioni di rito in pochi secondi.
«Cosa succede?».
«Conosci Ayman?» chiese la donna.
«Leonard me ne ha parlato».
Lui e Leo erano a pochi passi da Germaine, che si sforzava di osservare con disinteresse fuori dal finestrino.
«Qualcuno lo ha ucciso. Il suo cadavere è stato nascosto in un bagno della stazione di North Acton».
«Cristo. È dove Leonard lo ha incontrato questa mattina».
«Come.. Hai parlato con Leonard? Lo stavamo cercando. Il suo telefono risulta disattivato e non si è fatto vedere a Vauxhall Cross».
Hugo non capiva. Aveva visto Leo sulle scale del MI6 a Vauxhall Cross pochi minuti prima.
«Hugo? Hai parlato con Leonard?».
«È qui con me».
Avevano raggiunto Germaine. L’uomo si voltò verso di loro. Stava sudando. Hugo poteva vedere le sue narici dilatarsi e restringersi ritmicamente sotto il peso del suo respiro pesante.
«Passamelo».
«Non ora» rispose Hugo.
7.
Penelope aveva raggiunto sua madre nella camera da letto di Beth. Non riusciva a capire se quello sul suo volto fosse disprezzo o dolore. Sua madre stava osservando i dettagli della camera. Come il ciondolo che penzolava sopra il letto o le coperte piegate. Il fasciatoio, in un angolo della stanza, utilizzato solo un pugno di volte.
«Tutto questo… Tutto questo non può farvi bene. Questa ossessione. Dovete provare a dimenticare».
Penelope guardò sua madre senza aprire bocca.
«Lo so. Era vostra figlia. L’avete aspettata per anni. Avete pregato tanto. E quando è nata è stato un vero miracolo».
«Non è stato un miracolo» rispose Penelope con voce piatta.
«Il Signore vi ha concesso la possibilità di avere una figlia nonostante quello che i medici continuavano a ripetervi».
«Il Signore ci ha dato una figlia per togliercela dopo una settimana? È questo che vuole il Signore?».
La madre di Penelope si avvicinò alla culla.
«Lui agisce in maniera imperscrutabile. Ma sono certa che non apprezzi questa vostra fissazione». Le mani rugose della madre di Penelope sollevarono il cuscino dal materasso della culla.
«Questo cuscino non è per Elisabeth. È per un altro figlio. Perché vi rifiutate di adottarne uno?».
Penelope aveva smesso di ascoltarla. Nella culla, nascosto dal cuscino, era appoggiato un libro.
«Cos’è quello?».
La madre di Penelope si voltò verso il tomo appena scoperto. Penelope lo prese e ne rivolse la copertina verso la luce che filtrava dalle veneziane socchiuse. Sulla plastica marrone era incisa una parola in lettere dorate.
Quran.
8.
Germaine, immobile, sembrava pronto a fronteggiarli. Hugo aveva la guancia schiacciata contro il proprio cellulare, collegato con la sede del MI6.
Ayman era stato ucciso? Leonard non si era presentato a Vauxhall Cross? Possibile che gli avesse mentito? Possibile che Leo avesse qualcosa a che fare con l’omicidio di Ayman?
Germaine piegò il braccio dietro la schiena e fece scorrere la mano sul suo grande zaino grigio. Leonard, lo sguardo fissato sugli occhi di Germaine, gli fece cenno di fermarsi.
«Non ti preoccupare».
I passeggeri del vagone non erano interessati a quello che stava succedendo. Hugo osservava la scena stupefatto. Cosa stava facendo Leonard?
«Passami Leonard!». La voce dall’altra parte della cornetta si era fatta insistente.
Leo si rivolse nuovamente a Germaine: «Sono io, Scaramouche».
Gli occhi di Germaine si illuminarono. Il ragazzo tirò un sospiro e inclinò leggermente la testa in avanti.
«Grazie fratello» rispose Germaine. «È un onore vedere il tuo viso prima del sacrificio».
«Grazie a te» fu la risposta di Leonard.
Germaine osservò il suo orologio da polso.
«È ora» sentenziò Leonard.
«No!» gridò Hugo.
Leonard chiuse gli occhi. Le sue ultime parole suonarono come un sussurro d’amore. Le pronunciò sorridendo. Per la prima volta dopo tanto tempo.
«Allah akbar».
Erano le 8:50 di un giovedì come un altro, quando la terza esplosione riempì il tunnel tra le stazioni di King’s Cross e Russell Square.