Guida galattica in più parti a scoperte scientifiche e tecnologie future che ci consentiranno di vivere il più a lungo possibile, o perlomeno molto, molto meglio. Per veri tech-addicted.
Mi dispiace morire più per il fatto di non poter vedere tutte le meraviglie che il futuro e la tecnologica ancora ci riservano
mi disse un giorno una persona nata nei primi anni ’20 nell’ultimo periodo della sua lunga vita. Viviamo infatti in un periodo storico senza eguali: i cambiamenti del ventesimo secolo non sono neanche paragonabili a quelli avvenuti nei mille anni precedenti, quelli degli ultimi 25 non lo sono rispetto al secolo prima e quelli degli ultimi 10 non lo sono rispetto ai precedenti 25 anni.
Un aumento esponenziale dagli inizi del ‘900 che sembra di fatto inarrestabile.
Oltretutto il tempo che intercorre tra lo sviluppo di una tecnologia e l’adozione da parte delle masse è sempre più ridotto, tanto che ormai non ci stupiremmo più nel vedere un’auto che vola, la nostra casa stampata in 3D o un assistente virtuale in grado di ragionare come una persona vera e capire sul serio quello che diciamo. Ci sarebbe meraviglia, certamente, ma non stupore.
In fondo, oggi ci sembra tutto possibile, anche vivere per sempre.
Non ci credete? Partiamo allora da un dato statistico incontrovertibile: l’aspettativa di vita media dell’uomo è in continua crescita e si è praticamente triplicata dalla metà del 1800 fino ad oggi, in poco più di 150 anni, con una nonnina francese di fine ‘800 (Jeanne Calment, 1875-1997) che ha vissuto addirittura la bellezza di 122 anni e mezzo. E scusate se è poco.
Nel grafico i dati ISTAT relativi alla popolazione italiana dove si può notare la progressione lineare, esclusi ovviamente i periodi delle due guerre mondiali.
Senza calcoli complessi, ma tirando una semplice linea con un righello (la linea azzurra), possiamo affermare che chi nascerà nel 2050 sarà quasi sicuramente un ultracentenario. Ma a noi ovviamente non basta, perché siamo già nati.
Vediamo quindi cosa sta facendo l’uomo per sconfiggere l’invecchiamento, le malattie e la morte e a che punto sono arrivate le varie ricerche scientifiche e tecnologiche.
Neuroprotesi ed Ingegneria Biomedica
Per dirla in termini semplici, le neuroprotesi funzionano come delle vere parti del corpo, sfruttando i segnali del sistema nervoso per controllare la protesi o ricevere segnali al cervello.
Un esempio sono gli impianti cocleari, veri e propri orecchi elettronici in grado di ridare l’udito a chi non ci sente più e non ha alcun miglioramento con i tradizionali apparecchi acustici. Si stima che nel 2012 fossero già 324.000 le persone nel mondo con questo tipo di impianto, e sarebbero molte di più se i costi fossero più accessibili, visto che parliamo di un range compreso tra i 20 e i 25 mila euro.
Diversi studi sugli “occhi elettronici” invece sono in atto da diversi anni, con varie tipologie di impianti installati sui pazienti affetti da cecità. A causa della complessità insita nel processo di conversione da segnali elettrici ad immagini, cosa che il nostro caro vecchio cervello fa con nonchalance, ci vorranno ancora un po’ di anni. Il percorso però è tracciato e lo è anche per la situazione inversa, ossia la capacità di visualizzare quello che pensiamo o sogniamo.
Nel 2011 all’Università di Berkeley in California hanno testato un sistema ingegnoso registrando l’attività cerebrale di diverse persone mentre guardavano video di Youtube, codificando dei pattern Multi Voxel utilizzandoli poi per ricostruire quello che la persona stava guardando.
I risultati sono ancora lontani rispetto all’alta definizione a cui siamo abituati, ma siamo solo agli inizi. Grazie alla risonanza magnetica funzionale (fMRI) che permette di vedere in tempo reale l’attività neuronale del cervello, questo genere di ricerche compiono passi da gigante.
Parlando di neuroprotesi, però, le prima cose che ci vengono in mente sono quelle motorie, come braccia, mani, gambe, e qui le tecnologie allo studio sono moltissime grazie anche all’apporto della robotica. Sarà che ad ogni guerra che fanno gli americani corrisponde anche un massiccio finanziamento in ricerca medica, a causa delle ferite e delle amputazioni di molti soldati, ma non passa mese che non si senta di qualcuno alle prese con una nuova e più efficiente protesi comandata con il pensiero o con un esoscheletro sempre più piccolo.
Proprio la DARPA, l’agenzia governativa americana per i progetti di ricerca avanzata per la Difesa, ha da poco testato un nuovo tipo di esoscheletro a batteria del tipo soft exosuit, che potrebbe essere nascosto tranquillamente nei pantaloni, in grado di aumentare la potenza e l’autonomia delle gambe riducendo notevolmente lo sforzo necessario. L’unico scotto da pagare è lo zaino sulle spalle per la batteria, ma sappiamo che sarà sicuramente più piccolo in futuro.
Oggi lo usano i militari americani, domani gli anziani e le persone che fanno fatica a camminare.
Fausto Panizzolo, il cui team ad Harvard ha sviluppato la tecnologia per la DARPA.
Siamo pur sempre la patria di Leonardo Da Vinci, ma spesso ce ne dimentichiamo.
Come protesi motorie robotiche, invece, che più rientrano nel nostro immaginario delle neuroprotesi, sempre la DARPA ne ha sperimentata una per le mani (in foto) in grado di restituire al cervello anche le sensazioni del tatto, portando questo generi di protesi ad un livello nettamente superiore, con dati che viaggiano da e per il cervello e non solo verso l’arto robotico. Il 28enne che ha avuto la neuroprotesi è riuscito a sentire nel 100% dei casi quando gli toccavano un particolare dito, affermando senza mezzi termini di aver provato sensazioni
come fosse la mano vera
Parole sue. Incredibile.
E non finisce qui. E’ di pochi giorni fa la notizia di un giovane rimasto paralizzato che ha potuto camminare di nuovo (o meglio, ha fatto qualche passo) grazie ad un’interfaccia Bluetooth tra il cervello e le gambe, bypassando la spina dorsale che interrompeva il flusso elettrico-motorio.
Niente arto robotico quindi, ma un ripristino della funzionalità. Certo, ha comunque richiesto al paziente uno sforzo di concentrazione notevole ed è come imparare nuovamente a camminare, come se si fosse bambini piccoli, ma per una persona paralizzata da anni è qualcosa di stupefacente e che dà speranza a tantissime persone oggi su una sedia a rotelle.
Un giorno le persone a cui manca un arto o con danni permanenti alla spina dorsale potranno finalmente vivere una vita normale, grazie ai progressi ottenuti in campo tecnologico.
Stampa in 3D di organi (Bioprinting)
Ormai con le stampanti 3D si realizzano già con estrema precisione protesi ossee, placche metalliche, impianti dentali e spinali, ma la stampa di interi organi è quella che insieme alle neuroprotesi ci avvicina sempre di più al concetto di cyborg ed allontana in modo sensibile la nostra data di scadenza, spesso interrotta prima del suo termine naturale.
8.000 morti l’anno
solo negli USA.
Per comprenderne l’importanza basti pensare che ogni giorno solo negli States muoiono in media 22 persone a causa della mancanza di organi per il trapianto ed ogni 10 minuti un americano entra il lista per riceverne uno.
La produzione in laboratorio di cellule o di tessuti come la cartilagine viene già effettuata con successo da diversi anni tramite la coltura in vitro su piastre di Petri (coltura cellulare in 2D) mentre per la creazione di parti tridimensionali (coltura cellulare in 3D) viene applicata sia l’ingegneria tissutale, con concetti simili a quelli usati poi nel processo di stampa 3D, che la coltura per levitazione magnetica, che fa levitare le cellule mentre queste si dividono e crescono, realizzando una struttura complessa anche composta da cellule di differenti tipologie.
La coltura cellulare 3D e la stampa 3D hanno avuto una forte spinta grazie al processo di decellularizzazione, dove in pratica si pulisce la struttura dalle cellule morte lasciando intatta una struttura di collagene inerme sulla quale poi si andranno ad inserire nuove cellule. In pratica si prende il vecchio organo, lo si ripulisce dai tessuti esistenti e vi si reimpiantano nuove cellule, che su questa struttura di collagene cresceranno e funzioneranno secondo uno schema preciso, dettato dalla struttura stessa. Nell’immagine che segue possiamo vedere il processo di decellularizzazione di un cuore di un topo montato su un apparato di Langendorff. Il risultato finale, composto da proteine di collagene inerme e senza cellule, è di fatto una sorta di impalcatura sulla quale viene poi effettuato il reimpianto di cellule per ricreare l’organo.
Tutto questo però richiede tempo, accuratezza e soprattutto non è una soluzione scalabile.
La stampa 3D quindi è un tentativo di riprodurre con precisione e velocemente ciò che viene fatto lentamente in laboratorio, e già oggi è possibile stampare sperimentalmente parti di reni, cuore e fegato. Organi cavi come le vesciche, o tubolari come le strutture vascolari od urinarie, sono invece stati già stampati ed impiantanti con successo su dei pazienti reali.
Ma come funziona la stampa in 3D di organi e tessuti cellulari?
Si parte da una biopsia sull’organo da riparare o sostituire e si selezionano le cellule con il miglior potenziale rigenerativo, isolandole e moltiplicandole. Alla fine si rimuove l’impalcatura di biomateriale e rimane l’organo o il tessuto cellulare finito.Queste cellule vengono mescolate ad un liquido contenente ossigeno ed elementi nutrizionali, creando così il primo inchiostro. Un biomateriale, di solito un idrogel, viene poi usato come secondo inchiostro per stampare la struttura tridimensionale che ospiterà le cellule e darà forma all’organo, proprio come la tecnica di decellularizzazione vista prima (ma senza la necessità di un organo di partenza da ripulire). Si mettono infine questi inchiostri in delle speciali cartucce e si procede alla stampa livello per livello della struttura di idrogel, sulla quale vengono contemporaneamente posizionate le cellule. Queste cellule una volta messe nella giusta impalcatura e con il giusto supporto di nutrienti sapranno autonomamente come comportarsi e come legarsi ad altri tipi di cellule stampate.
Allo stato attuale la maggiore difficoltà per i ricercatori è la creazione di organi “pieni”, data la complessità e l’elevato numero di cellule che li compongono. Nel frattempo, però, vengono già realizzati per ricerca medica micro organi perfettamente funzionanti, in sostituzione degli esperimenti sugli animali, con una tecnica chiamata “Body on a Chip” (o “Organ on a Chip”).
Ad esempio c’è un chip per il fegato, il Quantum-B, realizzato da uno spin-off dell’Università di Oxford, sul quale si testano gli effetti delle droghe e su cui si sperimentano cure per l’epatite B, fornendo dati molto più realistici delle colture in vitro o degli esperimenti sugli animali.
Ma quando vedremo i primi organi “pieni” stampati in 3D?
Un trapianto di tiroide stampata interamente in 3D è previsto per il 2018 in Russia mentre a maggio 2015 la startup Biobot ha stampato una replica biologica 3D dell’orecchio di Van Gogh. La vascolarizzazione, ossia l’insieme di vasi sanguigni che consentono di irrorare sangue e nutrienti all’organo, è il problema più complesso da risolvere, oltre all’elevato numero di cellule da stampare. Lo scorso anno, però, il team di Jennifer Lewis della Harvard University di Cambridge, nel Massachusetts, ha realizzato un “inchiostro” che raffreddato diventa liquido. Così una volta stampata la vascolarizzazione, raffreddando l’inchiostro questo si scioglie e le cavità si svuotano, lasciando un labirinto di strutture vascolari vuote pronte per accogliere il sangue.
Strutture tubolari autogeneranti
A metà tra le stampa 3D e la coltura in vitro c’è una tecnica recentissima, annunciata dalla Queen Mary University di Londra proprio mentre scrivevo l’articolo, che consente la generazione di vene, arterie ed altre strutture simili praticamente in modalità autoassemblante.
Il metodo utilizza una soluzione liquida di peptidi e proteine che, a contatto, si uniscono a formare un tessuto dinamico nel punto in cui si incontrano. Ai ricercatori basta guidare il materiale mentre si forma per poter realizzare forme anche di una certa complessità.
Il paradosso di Teseo
Tra arti robotici, neuroprotesi ed organi 3D in futuro il nostro corpo potrebbe andare oltre il concetto di cyborg, arrivando ad essere totalmente composto da organi e tessuti artificiali.
A quel punto si presenterebbe il paradosso della nave di Teseo: dopo che tutti i nostri pezzi saranno stati cambiati, saremo ancora noi? Oggi lo possiamo vedere come un mero esercizio filosofico, ma un giorno sarà un dubbio etico non di poco conto e che dovremo affrontare.