Amy Winehouse. Se dico questo nome a cosa pensi? Probabilmente a due cose: ad una delle bellissime canzoni che ha scritto – forse Rehab o Back to Black – e alle foto di lei distrutta, drogata marcia e patetica.

Due facce della medaglia della breve vita di una ragazza straordinariamente normale, così come c’è stata superficialmente raccontata dai media.

Se le sue canzoni rimangono e rimarranno, la sua immagine pubblica tenta di essere “riabilitata” dal documentario Amy di Asif Kapadia.

Te lo dico subito: il doc è lungo e intenso, ha dei momenti di forte emozione, eppure gli manca qualcosa. Magari quel qualcosa che è mancato alla vita stessa della cantante…

Dove stanno le vere emozioni?

Nella prima parte, sicuramente, in una Amy meno che ventenne che sorprende tutti con la spigliatezza e questa voce dal fascino senza tempo.

Nella Amy sul palco quando intona i brani di “Frank“, il primo album, scritti raccontando se stessa e il suo mondo.

Quando sorride, alla fine dell’esibizione, e gli occhi grandi non ancora ultra-truccati si riducono a fessura su quel viso irregolare e bellissimo.

 

Photo Credit: Nick Shymansky

Photo Credit: Nick Shymansky

 

Il maggior difetto del doc di Asif Kapadia è quello di essere pilatesco.

Rinunciando ad avere un punto di vista preciso e prendere una posizione forte, il film si riduce ad un freddo squadernamento di fatti più da programma di serie B di Real Time che da opera cinematografica.

Certo, la mamma-ameba, il padre patetico panzone interessato a visibilità e soldi, il (secondo) tour manager incapace e l’etichetta discografica assente e menefreghista non ci passano bene.

Senza parlare del compagno di vita-ispirazione-(ex) marito Blake Fielder-Civil, l’uomo in cui Amy si era riconosciuta, dopo una vita affetti mancanti e surrogati, e si era totalmente abbandonata.

Vederla cadere grazie a lui nella spirale delle droghe – dopo che comunque con l’alcol aveva già un rapporto disinvolto da anni – rende scoperta l’insicurezza e la volontà di auto-sabotarsi di Amy.

 

Photo by Jeff Kravitz/FilmMagic

Photo credit: Jeff Kravitz/FilmMagic

 

Una ragazzina mai cresciuta, che non si comporta mai da adulta, se non quando nei momenti migliori sale sul palco e fa esplodere il suo talento.

Uno scricciolo capriccioso e dalla personalità involuta.

Capace di colpire per la spontaneità, di cantare la linea vocale di Back in Black con una mano in tasca, e poi di distruggersi non facendo un tubo per mesi (/anni), drogarsi e alcolizzarsi mandando a puttane la carriera, mandare a monte le esibizioni non rispettando il pubblico.

La parte più dolorosa della vita di Amy è anche quella meno comprensibile, e in questo il documentario non aiuta affatto. Certo, vediamo quanto la ragazza dubitasse di se stessa e delle sue capacità, ma non abbiamo mai una “confessione” chiara.

 

 

Senza contare che spesso, pur facendo uso di materiale facilmente reperibile in Rete, Kapadia glissa su episodi noti della vita della cantante per non sporcare ancora di più la sua immagine.

Peccato bastino 2 minuti su Google per vedere quella degradazione che lui, ipocritamente, non ha voluto mostrare del tutto.

L’accenno alla bulimia, alla depressione, ai rapporti umani insoddisfacenti con la famiglia: tutte cose accennate ma non approfondite, mentre si continua solo a far procedere per accumulo gli avvenimenti e la distruzione della “celebrity” una volta che i media l’hanno eletta icona e sparata in copertina.

Le parole di Amy nelle interviste pre-fama sono eloquenti:

“Voglio solo scrivere canzoni, lasciatemi in pace”.

Questo non giustifica certo il non aver saputo avere a che fare con il successo, conseguenza di belle canzoni.

 

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Se nessuno deve essere lasciato solo (e qui le responsabilità di manager, famiglia e casa discografica pesano come macigni) è anche vero che, se davvero si tiene a quello che si è e si fa, non bisogna isolarsi.

Non riconoscere i propri limiti e non conoscere se stessi porta alla distruzione.

Al documentario di Kapadia non serviva un assalto frontale ai “mandanti” della morte della cantante, ma forse una narrazione più curata sotto il profilo drammatico, sì.

In fondo Amy non è una persona che ha vissuto contrasti forti con il suo periodo storico, non ha compiuto “imprese” memorabili e controverse, non ha segnato un’epoca per aver lanciato mode o stili.

Era, ed è, una giovane “semplice” artista, una cantante e songwriter stratosferica.

 

 

Chi come me ha seguito in tempo reale la sua ascesa e poi ha sofferto – dandole della cretina – vedendo in che stato si riduceva dopo un album che dire straordinario è poco, Back to Black (2006), troverà ridondanti alcune sequenze.

In compenso, chi non conosce “bene” l’icona, rischia di cadere nell’effetto “oddio, poverina” che il documentarista cerca disperatamente dalla metà in poi.

Se contasse solo il materiale che vediamo sullo schermo, l’opera sarebbe da 10 e bacio in bocca: frammenti di vita, riprese con videocamere e cellulari, tutto rigorosamente autentico e spontaneo.

Ma purtroppo non basta fare un eccellente lavoro di taglia & cuci in pedissequo ordine cronologico.

Senza parlare poi dello scontato colpo basso del mostrare il mini-montaggio finale di Amy (redi)viva, che addirittura si sveglia dal sonno in cui sembrava caduta nella morte, dopo averci mostrato il corpo senza vita chiuso in un sacco e portato via.

 

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Se ancora il genere documentario ha qualcosa da dire, sinceramente penso debba farlo con un po’ di coraggio e non con una non-narrazione che si ripara dietro un gran lavoro di ricerca e selezione di materiale esistente.

Per quanto riguarda Amy Winehouse, l’artista, non credo che abbia bisogno del doc di Asif Kapadia.

Si è già raccontata abbastanza, nei minimi dettagli, per quello che realmente conta.

 

 

I suoi pensieri, i suoi tormenti, le sue paure e le sue speranze.

Sta tutto nei testi delle sue canzoni.

Scritti nei momenti in cui si sforzava di essere quella che avrebbe dovuto: un’artista consapevole, forte, ispirata.