La storia della fantascienza ci ha regalato le più disparate visioni del futuro, dalle più serie e totalitarie alle più eccentriche e sottilmente inquietanti.
Non di sole astronavi che vanno dove nessun uomo è mai giusto prima e galassie lontane lontane con avventure rocambolesche vive (la fantasia del)l’uomo, infatti.
Molta della sci-fi del Novecento ha visto descrivere mondi in futuri più o meno prossimi, dove a far paura non erano alieni e imperi malvagi ma gli uomini stessi, vittime di una società evoluta più o meno disastrosamente, vittima delle proprie paure o schiacciata dalle sue stesse creazioni/devastazioni.
Non poteva farne a meno il cinema, che fin dai suoi albori ha messo in scena possibili rappresentazioni del destino della nostra razza, molto spesso rappresentando un genere umano alla deriva, sopraffatto dalla natura, dal caos o da una corsa tesa ad arginare fenomeni pericolosi come il libro pensiero, la riproduzione, la democrazia.
Nel 2015, mentre grazie ai social spesso ci chiediamo se il genere umano non sia già alle porte del collasso, ecco che al festival di Cannes arriva The Lobster.
Premessa: non ho ancora visto il film, in giro ci sono già diverse recensioni da parte dei siti di cinema che avevano inviati laggiù. Il consiglio è quello di attendere, vederselo e poi formulare le proprie riflessioni.
Perché mi sono interessato a The Lobster? Semplice, ha tutti gli ingredienti delle opere cinematografiche che mi piacciono… e secondo me anche a tanti di voi, cari leganerds, farà venire un po’ di acquolina in bocca.
Arriva da un regista giovane e rampante, un autore cattivo e cinico quanto basta (e forse anche un po’ di più): il greco Yorgos Lanthimos, già autore dei folli Kynodontas e Alps.
Questi film hanno portato scompiglio ai vari festival dove sono stati presentati: opere crudeli, surreali, metafore secche e spietate delle deviazioni mentali di cui presto o tardi potremmo essere vittime.
Una sorta di, passatemi il paragone, Black Mirror al cinema, prosciugato dalle venature più fantascientifiche, e ancorato con molta più glaciale destrezza alle inquietudini quotidiane.
Il film che ha portato alla ribalta mondiale Lanthimos nel 2009, Kynodontas (conosciuto anche come Dogtooth) è uno dei film più genuinamente disturbanti del decennio. Naturalmente, non è uscito nelle sale italiane… ma è stato candidato agli Oscar.
Un padre e una madre costringono i tre figli, due ragazze e un ragazzo, a vivere fin dalla nascita senza alcun contatto con il mondo esterno, per non farli “contaminare” dalle schifezze della società umana.
Tre creature che non conoscono niente del mondo, quindi, incapaci di intendere e di volere e facilmente plasmabili. Il film è una parabola scioccante sul delirio del “mondo adulto” che si vendica delle proprie sconfitte sulla (incapace di reagire?) generazione successiva, ridotta allo stato animale.
Come cani, i ragazzi vengono educati all’obbedienza.
Non soltanto, nella folgorante sequenza iniziale si assiste ad una vera e propria re-invenzione del mondo, insegnato attraverso un registratore agli ignari figli dai “padroni” con assurde definizioni (il mare è… una poltrona!).
Come cani, i giovani hanno pulsioni che devono essere fatte sfogare in maniera controllata, ma soprattutto possono essere cresciuti con l’istinto all’obbedienza.
Un’obbedienza che può essere sconfitta solo dalla curiosità, che (guarda caso) arriverà a sconvolgere tutto sotto forma di VHS ci film molto celebri…
Raccontare altro sarebbe un delitto. Se ti va di farti sconvolgere dalla geniale attitudine sadica sia di scrittura che di messa in scena del regista-genitore Lanthimos, Kynodontas è una visione consigliatissima e quanto mai azzeccata.
Dalla metafora prettamente sociale si passa ad uno scenario più trattenuto ma altrettanto inquietante:
che ne diresti di affittare il tuo corpo, nel vero senso della parola, per interpretare la parte di un morto?
Esattamente quello che il regista greco porta sullo schermo con il film successivo, Alps (2011), che racconta della difficoltà che moltissime persone hanno nell’elaborazione del lutto, partendo ovviamente da un’estremizzazione del concetto stesso.
Senza alcuna spiegazione di sorta, l’autore ci mette di fronte al gruppo “Le Alpi”, circolino di attori part-time che per qualche ora alla settimana si calano nei panni di una persona morta su richiesta e dietro compenso dei familiari del defunto. Allegro, vero?
Esattamente come fa un grande della letteratura, José Saramago, Lanthimos ci butta nel bel mezzo di una vicenda che ci viene presentata come plausibile e normalissima, ma che ovviamente noi percepiamo come pazzesca.
Ecco allora che attori di mezza età possono interpretare ragazzine sedicenni passate a miglior vita, interpreti troppo zelanti che trasgredendo a una delle 15 regole auto-imposte al gruppo scatenano delle tragedie, identità di vivi e morti che si confondono.
Una pellicola concettuale, dannatamente fredda e respingente, ma costruita con evidente gusto del paradosso e sapienza. Per pochi e, forse, per chi sa sospendere davvero molto l’incredulità (altro che alieni e mostri, è richiesta dalle bizzarrie umane!)
Probabilmente meno riuscito e più sbilanciato di Kynodontas, ma ricco di spunti interessanti e venato di quella fredda distanza che piace tanto agli estimatori del grandissimo regista austriaco Michael Haneke.
Alps ti può regalare un brivido d’inquietudine nelle spensierate sere passate sul divano.
E arriviamo dunque a The Lobster: che razza di storia ci racconterà il greco, stavolta? Occorre premettere che questo è il suo primo film “internazionale” che giova di un budget di 4 milioni di euro ed è girato in lingua inglese.
Anche il cast, dopo le spigolose e sofferte facce a noi sconosciute degli esordi, diventa di discreto richiamo per il pubblico generalista: il bolso Colin Farrell e la bella Rachel Weisz protagonisti, un nutrito gruppo di supporter di lusso come John C. Reilly, Ben Wishaw e Léa Seydoux.
Prima ancora di essere un altro squisito “film da Festival” (cosa che indubitabilmente è), questa pellicola è l’ultima in ordine di tempo a portare alta la bandiera della distopia al cinema.
Perché? Basta riassumere il plot: in un futuro non troppo lontano è vietato essere single oltre una certa età. Se questo si verifica, vieni portato con la forza in uno strambo hotel dove dovrai trovare in 45 giorni la tua anima gemella, mentre nel frattempo vieni sottoposto a interrogatori, test e spettacolini sopra le righe.
“Ma io non voglio accoppiarmi per forza” dirai giustamente tu, “Chi mi dice che c’è una persona che fa per me, lì dentro, in quel momento?”
Peccato che la ragione sia bandita dallo scenario: se allo scoccare del 45mo giorno non avrai trovato un partner, sarai trasformato in un animale.
WTF? Hai capito bene, pensa a quale simpatica bestiolina ti senti più affine, perché il worst case scenario sarai tu, ridotto ad un lombrico.
Ma naturalmente che film sarebbe senza qualche variabile impazzita a far casino?
Ecco allora che appostati nei dintorni del famigerato hotel, dove sorge un bosco, stanno i “classici” ribelli, che non solo rivendicano il loro status di single, ma non vogliono neppure avere contatti fisici con nessuno.
Ansia sociale, sentimenti bistrattati e ridotti a merce, ipocrisia e falsità nelle relazioni umane: questo e molto altro sembrano essere, in modo chiaro, i temi affrontati di petto dalle assurde premesse di The Lobster. Chissà cosa ne uscirà fuori.
Lanthimos passa quindi dal registro serio e pesante dei primi lavori ad un’atmosfera grottesca che promette sorrisi nerissimi. Un territorio rischioso, dove basta qualche dettaglio fuori posto o battuta ridondante per far saltare l’operazione. Però le premesse e i lavori pregressi lasciano ben sperare… e poi questa trama mi incuriosisce non poco.